15 giugno 2010
Accolta dagli impiegati della dogana con un succo di tamarindo, scambiate le prime parole con i nativi de La Guaira, la diciassettenne bolognese si guardò attorno. Faceva caldo, era pieno di fiori: decise che il Venezuela le piaceva. Fu amore a prima vista, tra lei e il suo nuovo paese, nel lontano 1948.
Marisa Vannini non è emigrata per fame. O meglio, la fame era un problema per tutti gli italiani nei momenti bui della guerra. Nata a Firenze, Marisa proveniva, per parte di madre, da una agiata famiglia di Sestola, sull’Appennino modenese, che contava tra i suoi membri proprietari terrieri, giudici, avvocati, sindaci. A Bologna ha frequentato le scuole elementari di via Zamboni, le medie e iniziato il liceo Galvani, finché i bombardamenti sulla città spinsero la famiglia a rifugiarsi a Sestola. L’inverno del 1944 fu durissimo. I Vannini Ricci erano antifascisti, la loro casa veniva sorvegliata e perquisita. Freddo, fame, paura, una vita da sfollati. La dimora di campagna della nonna – che figura sulla copertina del recente libro di Marisa En la piel de la guerra – fu bruciata, non si sa da chi. Intanto, la Casa Ricci con la sua pineta era stata regalata alle suore per farne un asilo, in un gesto forse troppo generoso. I ragazzi si preparavano studiando le lingue moderne, oltre il greco e il latino.
In Arrivederci a Caracas la Vannini racconta i suoi primi quindici anni in Venezuela, il meraviglioso paese in cui “le ragazze uscivano scortate dalle chaperonas (donne anziane che le accompagnavano in società) e avevano l’abitudine di sedersi alla finestra per osservare i passanti e farsi ammirare dagli uomini”. Affascinata dai nuovi costumi, la ragazza di Bologna si getta con entusiasmo nella vita della “bella, inimaginable, suprema Caracas” degli anni Cinquanta, parlando spagnolo e tenendosi a certa distanza dagli italiani, per non incontrare i gerarchi fascisti protetti dalla dittatura di Pérez Jiménez. Ma quando arriva lei, al potere c’è Rómulo Gallegos, un grande scrittore, e il suo entusiasmo è tale da imparare a memoria il poema di Antonio Arraiz – “… He de amarte tan fuerte que no puedo ya más, / y el amor que te tenga, Venezuela, / me disuelva en ti …” – e passare le giornate alla Biblioteca Nacional.
Marisa e il fratello Carlo frequentano il liceo, poi l’Università: lui sceglie architettura, lei lettere. Marisa si laurea nel 1956, ma prima, per paura di non riuscire a completare gli studi (per motivi politici, ogni tanto l’Universidad Central de Venezuela restava chiusa), si iscrive anche all’Instituto Pedagogico di Caracas. Fa così una lunga esperienza di insegnante elementare e di liceo; poi, forte di entrambi i titoli di studio, consegue due dottorati, uno a Caracas, l’altro all’Università di Bologna in Filologia Moderna nel 1971. Riesce inoltre a prendere una specializzazione al Dams di Bologna diretto da Umberto Eco. All’Istituto di Cultura Italo Venezolano dà vita ai corsi di italiano e di spagnolo per stranieri, che cominciano ad arrivare numerosi con la modernizzazione indotta dallo sfruttamento del petrolio. Arriva quindi la cattedra universitaria in Lingua e Letteratura italiana e latina. Nel 1968 le sono affidati anche l’insegnamento di Letteratura Infantile e il Seminario per giovani scrittori.
Nel 1960 Marisa Vannini si era sposata con il medico polacco Eugenio Gerulewicz. All’arrivo dei russi, il futuro marito fuggì dal suo paese in bicicletta, approdando in Svizzera, dove completò gli studi. Quando Karol Wojtyla giunse a Caracas, Marisa e Eugenio furono ricevuti in udienza privata. Il papa riconobbe Eugenio e gli si rivolse in polacco dicendogli: “Tu eri all’Università di Cracovia”. Dal loro matrimonio sono nati tre figli, Leonardo, pittore, Gerardo, musicista e compositore, Donatella, medico.
Nella sua villa alla Florida di Caracas che sembra immobilizzata nel tempo, con arredi importanti e due pianoforti che troneggiano nel salone stile Impero, Marisa ricorda i momenti più belli della sua vita di caraqueña de adopción, legati soprattutto alla sua vivacità intellettuale, che l’ha portata a scrivere libri, viaggiare in lungo e in largo per il paese e a partecipare a congressi in tutto il mondo, ancora oggi che ha quasi ottant’anni.
Prima della sua traduzione de L’Inferno di Dante, i venezuelani avevano a disposizione solo quella di Edoardo Crema. Alla Vannini il “Nacional” di Caracas, quotidiano che è anche editore, commissiona una versione più agile e poetica, in un linguaggio più vicino ai giovani. Marisa pensa ai suoi studenti e la scrive tutta a matita, in metrica, sotto le palme della spiaggia dove trascorre i fine settimana. Corregge meticolosamente il testo, le bozze, le note, ma non pensa di dare indicazioni per la copertina. Finisce così che quando vede l’opera stampata, quasi le cade dalle mani: “Avevano messo in copertina un diavolo venezuelano, uno di quei bruttissimi diavoli folclorici che danzano. Ci sono rimasta male, invece qui è piaciuto molto, tant’è che nelle librerie la gente non chiede El Infierno de Dante, ma El diablo de Dante, e addirittura El diablo de Marisa Vannini”.
Molti ricordi sono legati al mondo magico degli indios. La foresta, per un’italiana come lei, era un ambiente misterioso, che suscitava una naturale curiosità. Quando poteva, ci portava i suoi bambini. Faceva amicizia con gli indigeni, che ospitava poi a casa sua quando avevano bisogno di trattare con il governo per l’acqua, l’elettricità, i documenti. In Venezuela gli indios sono 500 mila divisi in una trentina di etnie. Nel 1980 Marisa decide di raccogliere le loro leggende. Con Javier Armato, un maestro di etnia yupka, oggi deputato e professore di lingue indigene a Maracaibo, prende registratore e quaderni e s’inoltra nella selva, arrampicandosi su per le montagne, guadando fiumi e torrenti. Attraversa tutta la Sierra di Perijá, al confine con la Colombia. Il risultato del lavoro è un libro, El mundo mágico de los Yupka, che nessun editore vuol pubblicare. Ci vorranno vent’anni perché veda la luce, nel 2001, presso la casa editrice Monte Avila. Da allora, ogni anno è una ristampa.
Sull’esperienza con gli indigeni sono nati altri libri, come El chamán de los Cunaguaros (2008), scritto per far conoscere ai ragazzi undici etnie indigene, La Fogata, romanzo giovanile sugli Yanomami e i loro riti, e El Oculto, la cui protagonista è una ragazzina che discende da un corsaro olandese e da un cacique della etnia di Cumaná. Si tratta di romanzi antropologici che spiegano il variegato mondo degli abitanti originari del Venezuela, i loro costumi e i miti fondatori.
Ma il suo libro forse più conosciuto è Italia y los italianos en la historia y en la cultura de Venezuela, pubblicato nel 1966 e ristampato più volte. È un lavoro fondamentale per conoscere la presenza degli italiani e l’influenza della cultura italiana su quella del Venezuela, a partire dal Decameron di Boccaccio, che fu il primo libro italiano letto in terra venezuelana: vi arrivò agli inizi del Cinquecento su imbarcazioni clandestine destinate ai soldati che, a Cubagua e Margarita, avevano deciso di passare ai tropici il resto della loro vita, dulcemente. Tra i libri dei conquistatori spagnoli, anche l’Orlando innamorato e, l’Orlando furioso: la letteratura cavalleresca era preferita alle opere di meditazione come la Commedia di Dante.
Se agli inizi del Novecento non c’erano più di tremila italiani in Venezuela, tra cui diversi gruppi di garibaldini presenti dal 1850, nondimeno la nostra cultura ha lasciato il segno. Basti considerare le numerose rappresentazioni di opere italiane a Caracas, soprattutto di Verdi e Rossini, dal 1854 al 1900, e la fortuna di scrittori come Carducci, Pascoli, D’Annunzio, Olindo Guerrini, diffusi e tradotti grazie alla rivista El Cojo Ilustrado. Pensiamo agli architetti militari Antonelli, che nel Cinquecento costruirono fortezze nei Caraibi tra cui il castello di Araya, o il cartografo Agostino Codazzi, che inaugurò il metodo di conoscenza e analisi del patrimonio naturale, e combatté come soldato a favore di Simon Bolívar. Con una precisazione: tutti i personaggi citati, tranne Rossini e D’Annunzio, erano emiliano-romagnoli.
Marisa Vannini è oggi presidente degli emiliano-romagnoli di Caracas. Si lamenta della difficoltà di “sciacquare i panni in Arno” perché con l’attuale regime di controllo della moneta, per i venezuelani è molto difficile viaggiare. Vorrebbe ancora partecipare a convegni di ricercatori, finire i lavori in corso, pubblicare ciò che è rimasto inedito. Ha ancora l’energia della ragazzina che, sulla montagna modenese, divorava libri mentre, intorno, infuriava la guerra.
Le musiche che abbiamo ascoltato in questa puntata sono di Gerardo Gerulewicz, figlio di Marisa Vannini.
Avete ascoltato Serenata, Preludio op.10 per mano izq, Preludio y fuga para flauta sola op.1, Trio para clarinete, violin y piano op.7