14 novembre 2013
23 giugno 1944: sul ponte della Bettola, una località dell’Appennino reggiano fra Monteduro e Paullo, una bambina di undici anni gioca a saltarello in mezzo a tre misteriose buche nell’asfalto. Sono i segni di un attacco appena fallito dei partigiani contro i tedeschi. Di lì a poco la vita della piccola comunità sarà cancellata quasi del tutto.
Liliana Manfredi, tra i pochi sopravvissuti della strage nazista della Bettola, ha scritto la sua avventura per rendere onore anche all’ignoto che le risparmiò la morte.
Notte
L’orologio ticchettava intorno alle due della notte. Io dormivo il sonno dei bambini. Mia mamma invece non riusciva a chiudere occhio. Il suo istinto le faceva avvertire che da lontano stava arrivando una terribile bufera. Immagino quante volte mi avrà guardato sforzando gli occhi per penetrare il buio. Quante volte mi avrà accarezzato e detto parole di conforto. Io, unica freccia lanciata contro il futuro che le era rimasta.
Era una donna pratica, e quindi avrà senz’altro pensato che quella di restare ad aspettare al buio e nel silenzio era una scelta molto rischiosa, forse sbagliata. Ma era anche una donna del suo tempo. E gli ordini degli uomini a quel tempo non si discutevano.
E chissà i miei nonni come avranno passato le ultime ore della loro vita. Me li sono immaginati svegli, con le orecchie aperte per cogliere qualsiasi rumore, qualsiasi indizio, con mia nonna a pregare il Padreterno e mio nonno in silenzio a chiedersi se aveva fatto la cosa giusta.
Dagli autocarri scesero in silenzio una cinquantina di uomini. Armi in pugno, bocche chiuse, movimenti rapidi e precisi. Pare che, come usava di solito, fossero alticci. Un po’ di alcol in pancia abbatte le inibizioni e stimola l’aggressività.
Come da addestramento, i soldati accerchiarono la locanda e la mia casa. Due gruppi si sistemarono per bloccare la strada a nord e a sud. In pochi minuti di silenzio eravamo isolati dal mondo. In pochi minuti di silenzio il cappio sulla Bettola era stato steso. Fra poco avrebbe stretto il suo nodo.
“Beneventi, aprite!”.
L’ordine fu netto, perentorio, in italiano. Strappo irrimediabile nella notte della locanda. Non c’era discussione, non ci sarebbe stato scampo. Quei rumori, lo scalpiccio sulla ghiaia e sull’asfalto, gli ordini sottovoce e rauchi erano stati il preludio a quelle due parole, terribili, agghiaccianti: “Beneventi, aprite!”.
Aprite che facciamo i conti.
Aprite che c’è la vendetta.
Aprite che ora tocca a noi strappare, spezzare, uccidere.
Romeo Beneventi esitò un istante. Davanti a sé vedeva la porta scossa dai calci dei fucili e dagli spintoni dei tedeschi, sottile diaframma fra la vita e la morte. Dietro di sé vedeva la piccola folla della locanda, come presaga di un naufragio, raggrupparsi sulla tolda della nave. Si guardò intorno per un altro attimo prima che il mare dilagasse.
Quando sfilò il catenaccio, un’orda di uomini in divisa si catapultò su per le scale, dentro le stanze. Urla, minacce, spintoni a uomini, donne, vecchi e bambini. Vennero fatti stendere nel cortile ventre a terra, con i pugni sotto il mento. A fare la guardia a una trentina di civili inermi due mitragliatrici da guerra.
Com’è fatto l’inferno? Che odore ha? Che suono ha? Che faccia ha? Che lingua parla? Fa male tutto in un colpo? È buio o c’è il fuoco? È sordo o c’è il frastuono? Com’è fatto l’inferno?
Il mio inferno è fatto da un calcio che spalanca la porta di casa mia, e questa porta diventa una bocca che vomita lupi mannari, che indossano una divisa grigia e hanno un mitra in mano. Sono due, quattro, sei. Io sono abbracciata alla mamma, paralizzata dal terrore in un angolo della cucina. Mi ha svegliato da qualche minuto perché ha sentito un rumore come di valanga che scende dalla strada, decisa a travolgere la Bettola, seccare il fiume, spezzare le piante, spazzare via la locanda, schiacciare la corriera, polverizzare la mia casa. L’ha sentita nel sonno quest’onda assassina e travolgente. E mi ha svegliata con uno strattone, prima nervoso, poi pentito, e mi ha trascinata in cucina. Io ho sonno, non capisco, sono in dormiveglia, ho sonno, sono una bambina di undici anni che ha giocato tutto il giorno con tre buchi, che è già stata svegliata in precedenza per mettersi un vestitino nero. Ho già obbedito, fammi dormire ancora un po’, mamma.
Il mio inferno ha la voce di un uomo che urla “Al muro! Al muro!”, di una confusione che sale e dell’assoluto silenzio della mia mamma. Sei diavoli che urlano “Al muro! Al muro!” e altre parole che non capisco ma che mi fanno male, un male terribile, mentre il mio angelo non dice niente. Assiste muta all’onda di piena che ci inghiottirà. Guarda silenziosa al frastuono che le strapperà ogni altro suono dalle orecchie.
Il mio inferno sono sei belve che spingono me e la mia mamma nella camera dei nonni, ci costringono ad andare verso di loro che sono seduti sul letto, si schierano in un secondo contro il muro. Hanno davanti agli occhi un anziano, un’anziana, una bambina e, a sinistra, una donna in piedi. E sparano. Sparano. Sparano. Sparano ancora. Facciamo venti colpi a testa? Venti colpi per sei mitragliette. Centoventi pallottole per uccidere un anziano, un’anziana e una bambina seduti sul letto e, a sinistra, una donna in piedi.
Sono sicura che anche loro sono andati incontro alla morte increduli. Questa, forse, la ragione del loro silenzio. Troppo lo stupore, troppa l’assurdità. Da lasciare senza parole. Volete uccidere noi? Un anziano, un’anziana, una bambina e una donna?
Il mio inferno è il rumore di sei mitra e centoventi pallottole, e il fuoco dei colpi, e il fumo della polvere da sparo, e il saltare come burattini sghembi dei tre corpi vicini a me.
Il mio inferno è la prima pallottola che mi centra la base del collo ed esce sotto la nuca. Come una coltellata incandescente nella gola.
Il mio inferno è la seconda pallottola che mi colpisce la spalla sinistra, come una grattugia che ti scortica la pelle.
Il mio inferno è la terza pallottola che mi entra sotto il seno sinistro, punta verso il mio cuore, poi cambia idea e se ne esce da sopra. Fa un male cane, fa salva la mia vita.
Non mi salvai per miracolo. Mi salvai per gioco.
I tedeschi che irruppero in casa mia, per prima cosa spararono alla lampadina che illuminava la cucina. Il buio, le urla, lo spavento scatenarono una gran confusione. Appena fummo spintonate dentro la camera dei nonni tornai bambina e mi tuffai nel gioco che facevo sempre, ogni mattina, quando mi svegliavo. Correvo ai piedi del letto dei nonni, sollevavo lesta le coperte e mi infilavo sotto chiudendo gli occhi. Poi restavo lì nascosta fino a che mia mamma veniva a chiamarmi per la colazione, facendo finta di scoprirmi. Quando sollevava le coperte cominciava un nuovo giorno.
Ero viva? Ero morta? Non riuscivo a capirlo, non c’era nessuno a dirmelo. Avevo la gola in fiamme, una spada nel petto, un uncino nella spalla. Ero sotto le lenzuola dei miei nonni. Sentivo i loro corpi come sacchi inanimati intorno a me. Ero sola. Nel mio vestitino di velluto nero.
Il mio ricordo è confuso dal terrore, dallo sgomento, dal dolore, dal non sapere cosa fare, dal non avere nessuno a cui chiedere. Tre pallottole avevano scherzato con il mio corpo, accontentandosi di danneggiarlo. Mi avevano fatto sentire la loro promessa di dolore, urlato nelle orecchie la loro voglia di morte. Tre pallottole mi avevano risparmiato.
Ero in un letto di sangue, il letto dei miei nonni, il sangue della mia famiglia. Il fuoco si stava divorando la mia casa, la mia mamma, i miei nonni, i miei ricordi, i miei giochi, la mia miseria. Tutto quello che ero, tutto quello che avevo.
Sotto il buio delle lenzuola arrivarono da lontano i rumori dei soldati. Ordini secchi, passi pesanti che andavano e venivano, qualche ansimare di chi fa uno sforzo. Sotto il buio delle lenzuola sentii lo scrosciare della benzina, prima sul pavimento, poi come una frustata fredda sul mio petto e sulle lenzuola. Si ruppe il silenzio e parlò il fuoco.
Quando il buio divenne rosso, quando il calore divenne ustione, quando l’aria divenne veleno, emersi dal mio nascondiglio. Ero sola, in compagnia di tre cadaveri. La stanza era una scatola di fuoco. Bruciava tutto, tranne la finestra. La finestra no. La finestra che si affacciava sul retro della casa, nel cortile che portava al fiume, era libera dal fuoco.
Mi misi a correre. Incosciente di ciò che mi aspettava fuori. Incurante delle fiamme che si allungavano verso me. Tre passi per raggiungere il davanzale, un salto per raggiungere la vita.
Anche il fuoco fu benigno con me. Mi lambì con la sua carezza incandescente, ma lasciò sgombro un passaggio, traballante ponticello fra due montagne di fuoco. Ci montai sopra con l’incoscienza della disperazione e mi misi in salvo per la seconda volta.
Fu un salto di cinque metri. Potevo morire, cadere su un attrezzo da lavoro, su un tronco d’albero. Caddi invece nell’erba alta. Il salto di cinque metri si risolse con una caviglia rotta. Come una zappa abbattuta sopra il collo del piede. Il buio mi aveva colpita, colpita duro alla gamba, ma mi aveva graziato. Un dolore tremendo, ma sopportabile. Un’ingiuria meno grave della frattura di una gamba o del bacino. Una frattura che mi permise di trascinarmi verso il Crostolo che scorreva dietro la casa. Anche lui compagno di gioco in tempo di pace, ciambella di salvezza in tempo di guerra.
Con l’energia del terrore mi trascinai a colpi di braccia verso il fiume. Andavo a caso, serpente che striscia cambiando pelle nell’erba alta mezzo metro. Il crepitare delle fiamme nella casa, l’urlo lontano della locanda, a volte duro a volte soffocato, mi diedero la direzione giusta. Alle mie spalle c’era la morte, dalla parte opposta la vita. La mia vita.
La voce del torrente si fece più forte. Era un suono antico, le prime parole che sentivo dopo quelle ascoltate in casa mia: “Al muro! Al muro!”. Il fiume mi parlò, mi disse di riposarmi, che ormai ero salva, che avrebbe pensato lui a me, mi avrebbe cullato nelle sue acque, che da sempre scorrono e che scorreranno sempre, qualsiasi cosa facciano gli uomini.
Erano le parole che sentii e che volevo sentire. Chiusi gli occhi e, sfinita, persi i sensi.
[…]
Alba
Fu un raggio di sole a svegliarmi. L’alba lo mandò a bussare gentile sulle mie palpebre abbassate.
Aprii gli occhi di scatto. Vidi il cielo, annusai il profumo dell’erba lacrimata di rugiada, toccai la terra, ascoltai nuovamente il borbottio del fiume. Non c’erano altri rumori. Il silenzio era tornato a contendersi l’aria con il risveglio dei grilli.
La seconda sensazione che sentii fu dolore. Ero sporca del mio stesso sangue. Sentivo come un coltello infilato nella gola. Il morso di una grossa bestia nella spalla. Un buco nel petto. E come una martellata sul piede.
In mezzo al cielo saliva una striscia di fumo grigio, come la traccia di un aereo precipitato, che andava a ingrassare una nuvola nera. Segnali di fumo che annunciavano che la tragedia era stata consumata. Ma io ero viva. Viva. Il corpo bucato, sfregiato, vilipeso, imbrattato. Il cuore straziato, l’anima strappata. Ma ero viva. Paralizzata dalla paura e scoperta dal sole.
La morte si ripresentò con la faccia di una suola. La suola di uno scarpone militare. Della Wehrmacht. Spuntò all’improvviso dall’erba. Silenzioso, inaspettato, minaccioso. Scavalcò il mio recinto d’erba, il mio rifugio verde, e mi vide.
Era uno di loro. Anzi, era l’ultimo, probabilmente. Incaricato di fare la scopa, l’ultimo giro di perlustrazione per controllare che tutto fosse a posto, che tutto fosse morto. “Uccideteli tutti” aveva comandato Nicolaiev.
La suola si ritrasse immediatamente. Tornò indietro di scatto, come la testa di un serpente che prende la carica per il suo morso mortale. Sentii dei rumori confusi, mani che stringono il ferro, agitazione di chi, sorpreso, sta per passare al contrattacco, di chi sta per alzare la canna della sua mitragliatrice. Poi sentii il silenzio. Un respiro, come di sollievo.
Senza dire una parola, senza emettere il minimo suono, senza fare il più piccolo dei rumori, il soldato disarmò, si chinò e mi passò il braccio intorno alla vita. Mi sollevò e si mise a camminare. Dopo qualche passo, mi adagiò dolcemente sul ciglio della strada. Poi, senza dire una parola e senza voltarsi mai, se ne andò rapidamente su per i tornanti.
Due occhi di soldato avevano scoperto due occhi di nemico.
Due occhi di uomo avevano incontrato due occhi di bambina.
Com’era apparso, così se ne andò. Mi lasciò scivolare lungo il corpo con misurata lentezza. Quando toccai terra, il mio viso si ritrovò a tu per tu con lo scarpone. Ma questa volta finse di non vedermi. Senza alcuna incertezza guadagnò la distanza dai miei occhi calpestando l’asfalto verso il monte. La figura del soldato divenne sempre più piccola fino a scomparire dietro la curva. Non proferì nessuna parola. Mi salvò la vita in silenzio e poi fuggì, prima che il sole potesse svelare il nostro segreto.
[continua]