9 gennaio 2014
Docente di Letteratura inglese all’Università di Bologna e autrice di numerosi saggi sulla narrativa contemporanea, Silvia Albertazzi coltiva da anni una feconda attività di scrittura “in proprio”.
Dal suo primo volume di versi, abbiamo scelto alcuni testi a cui l’autrice, generosamente, ha voluto aggiungere due poesie prima d’ora non pubblicate.
La casa di Via Azzurra
Lo vedi, esistono sul serio i pettirossi
non ti aveva fregato la maestra
che ti parlava in terza elementare.
E gli alberi mettono foglie a primavera
e fiori nascono così, da un giorno all’altro.
È proprio vero: gli uccelli hanno un nido
e ci tornano alla fine della corsa.
Ci son voluti vent’anni e un po’ d’amore
perché vedessi dal vivo la lezione.
E a tuo figlio quanti anni ci vorranno
per dare un senso alla primavera
che mai vedrà dalla casa di via Azzurra
(casa da servi, con l’entrata sul retro
senza posto neppur per una culla)?
(Aprile 1976)
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Racconti dell’età del jazz
Allora
c’era ancora l’estate
calda
e noi a viverla e a volerla
dopo la rabbia degli esami.
Quanto ti ho amato allora
e quanto tu prima di dirmelo.
I migliori sono morti
– schiacciati da automobili
suicidi in camere putride
devastati dalla vita –
e piove.
Gli anni ci hanno sfiorato
con dolorosa consapevolezza
e ci troviamo a leggerci negli occhi
con la luce accesa nel mattino.
Una tromba, un sax
per svegliarci in camera da letto:
e poi a giorni tornerà Fiacco.
Allora
giorni d’estate davvero
fatti di niente
e noi ad aspettarci e a sognarci
senza mai confessarlo.
Dio come piove!
Anni e cose che la vita non mi ha dato:
l’abito bianco lungo fino ai piedi
un lungo viaggio dove termina il banchetto
la domestica a ore al telefono
in una casa tridimensionale.
Noi dalla festa raggiungemmo a piedi
la casa dove cominciò il prodigio
e si schiudevano alla luce della luna
prime scene della vita di bohème.
Gli anni passati li conservo tutti
e se ne parlo ho paura di sciuparli
perché non c’è parola che li valga.
Una musica ci ossessiona verso sera:
lentamente la confusione ci stordisce
e cancella il rumore della pioggia.
poi al cancello ritroviamo Fiacco.
Allora
conoscevo soltanto versi sparsi
e canzoncine, la sera,
per dormire.
A ogni passo nasceva la vita
e la cultura in una fumosa sala
ne parlavamo sotto i portici al ritorno
– dietro una colonna ci baciavamo piano.
Ho passato la vita a ricominciare da capo
nel versilibrismo di giorni in fila indiana.
Poi da domani ricomincerò a vendermi
a studenti distratti e un po’ ignoranti
finché l’ottobre riaprirà le porte
del sacro tempio della dea cultura
e sarà sempre troppo tardi, ormai
per giocare all’enfant prodige.
La tua musica ripropone antiche pene
piangono di rabbia trombe e flauti.
e Fiacco, stanco, ci aspetta in via Rizzoli.
A Bologna, a Bologna piove sempre
muore un’estate sul lastrico bagnato
conto gli spiccioli che mi ritrovo in tasca
anche per oggi, musica e più niente.
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Precariato, II
Il mio cappotto appeso
a un attaccapanni ciondolante
batuffoli sporchi
di trucco vecchio di un giorno
l’orologio si ferma
sul finir della sera
Jean Gabin si uccide
al levarsi del sole
un libro a metà
e poi pagine bianche
mentre Stefano dorme,
vestito
sul letto.
Domani, di nuovo in istituto
con le tesi ammucchiate sul mio tavolo
con le riunioni da tenersi nel verziere
con gli studenti, quelli che non occupano
e con gli indiani, quelli che hanno fame.
Per oggi non s’è fatta che poesia: tu mi dirai che non ho
fatto niente.
(28 febbraio 1977)
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Riflessione
I vetri alle finestre
recano ancora l’offesa
dei temporali primaverili.
Tu li vorresti ignari
e trasparenti
vergini di ricordi
indecifrabili.
E il pavimento ti piacerebbe specchio
pronto a riflettere
la tua immagine d’oggi.
Niente polvere sopra il tuo letto
non passa il tempo sulla tua coscienza.
La donna che vorresti
ti dovrebbe servire con amore
far risplendere i giorni della lotta
e distruggere i segni di sconfitta.
Invece, sai, io amo circondarmi
dei miti del passato che mi creo
e mi piace che lo sporco me li sciupi
perché non voglio divenirne schiava.
L’altra sera, al cinema, (ricordi?)
ridevo forte e guardavo una stella
che cadeva (ricordi, dieci agosto)
in un cammino di polvere e di luce.
La donna che tu vuoi, lo so,
la tua “compagna”
non dovrebbe aver tempo per le stelle.
Tutta presa a leggere Lenin
ti dovrebbe accompagnare sulle piazze
preparando con te rivoluzione
e magari darti un figlio
per portare a compimento la tua lotta.
Ma a me piacciono ancora le poesie
e aspettare i Godot del quotidiano:
fare un figlio, se voglio, per me stessa
quando i tempi sembreranno a me maturi.
Poi, lo so, non la vorresti scialba
la compagna della lotta d’ogni giorno.
Già li vedo i suoi seni rotondi
gli occhi chiari, i capelli biondi.
Poiché il mio petto è piccolo e infantile
e i miei occhi scuri e un poco miopi,
ti chiedo, allora, accettami così
o lascia perdere e vivi per te solo.
Tanto lo sai, per piacere all’uomo,
neanche il colore cambierò dei miei capelli.
(16 agosto 1977)
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Domenica
Che ci faccio, stamane, in una chiesa?
Fuori, neve color caffelatte
rare automobili schizzano
passanti incappucciati.
Vorrei essere, a volte, quella che ero:
sulla strada di casa
verso sera
parlando di miracoli e porte strette.
Poi l’amore fu l’unico miracolo
e il sesso infranse un’altra
porta stretta.
Ma anche allora
alla luce dei lampioni
cercavo neve bianca
senza orme.
(10 febbraio 1991)
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Oggi
Mi riconosci?
Sono quella che
Ronsard
invitava a cogliere
la rosa
la verginella che
Ariosto
vedeva appassire
sullo stelo
ci provò anche
un cantante
molto tempo dopo:
lui voleva farmi cogliere
una mela.
Guardami oggi
e indovina
se gli ho dato ascolto
(marzo 2000)
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Quadri dal sottosuolo
1. La poltrona di David Hockney
Il tempo mi rincorre,
mi tormenta,
mi soffoca
e blandisce.
Va avanti,
la vita,
e poi ritorna indietro.
E fermarla, magari per mezz’ora?
È sempre vuota
la poltrona
poggiata contro la finestra
spalancata sul mondo,
sempre le tende vaporose,
sempre l’invito a tornare
sui quei cuscini –
o abbandonarli per fare altre scoperte.
Ma il tempo passa,
non parto e non ritorno.
Un tè profumato
– no sugar no milk –
la poltrona di Hockney.
Nessun futuro
in questo presente;
nessun passato
che me lo distrugga.
Lasciatemi in cantina ancora un po’.
2. La visita di Silvestro Lega
Sul letto di Flori
due ragazze dallo scialletto nero
baciavano la padrona di casa,
sulla porta del cascinale,
in un grigio meriggio d’autunno.
A seconda dei giorni e delle lune,
l’altra donna, più anziana,
che le seguiva distante
– forse la madre, o una parente
quasi spuntata dalle nebbie
e dai colori mesti di stagione –
bruni, marroni, grigi, verdi spenti, ocra –
mi attirava
o mi inquietava,
o forse solo m’infastidiva
Credevo le due giovani
fossero mia nonna e una sorella,
in visita a qualche zia ormai defunta,
accompagnate,
in lontananza,
dalla loro madre,
quella bisnonna Augusta
che mi spaventava
per la sua magrezza.
Ho poi sognato di essere io
una di quelle giovani,
che mi parevano
così belle,
sottili,
eleganti
nei loro vestiti ottocenteschi.
Nonna Teresa diventava
la donna in lontananza,
le somigliava persino
qualche volta.
Avrei voluto far parte
di quel mondo,
leggere all’aperto,
cucire tra le rose,
sorbire il tè sotto il pergolato,
o stare al fresco,
tra il verde,
a sorvegliare i bimbi addormentati,
come in un quadro di Silvestro Lega.
Ho finito col diventare un’altra donna,
un animale da città,
che non ha mai provato
le gioie di quel gineceo
ottocentesco.
Sono la donna
che arriva ultima,
quando le altre hanno smesso ormai
i saluti
testimone che guarda,
ritrae e si ritira,
senza prender parte attiva alla scena.
Ma col suo sguardo ferma
quel momento,
perché non diventi vita non vissuta
una vita che passa inosservata.
(25 luglio 2013 / inedita)
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All Yesterday’s Parties
Oggi la città odora
d’incenso.
In via Rialto,
più che incenso,
cera.
Ma in San Mamolo
s’è rovesciato
un turibolo
gigante.
Crepuscolo di martedì.
Novembre.
Vigilia del mio compleanno.
L’aria ha sfumature
di viola.
Rincaso a piedi
guardando i lampioni
che s’accendono uno alla volta
come in un quadro di Magritte.
L’impero delle luci.
Adesso
in alto, sul mio capo,
il cielo è un velluto
color ciclamino.
Rest in Peace, Lou Reed,
mentre io ricordo
– ma senza rimpianti –
tutti i vestiti delle feste passate.
(12 novembre 2013 / inedita)