Lo scrittore Gianluca Morozzi, classe 1971, ha già al suo attivo numerosi romanzi e graphic novels. Questo racconto bolognese compare in un’antologia che raccoglie nove storie della quotidiana vita di provincia.
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Spettabile quotidiano, mi presento: io sono l’assassino di via del Fresatore.
Prima di tutto: non sono un mitomane, ma nemmeno uno stupido. Ho scritto questa lettera al computer, nel caso mi si volesse inchiodare attraverso la calligrafia, e ho visto abbastanza telefilm gialli per spedire la lettera senza lasciare impronte.
Vi scrivo soltanto per precisare un punto.
Avete dato molto credito al movente razzista dell’omicidio, a quanto ho letto in questi giorni, essendo la vittima indubbiamente di colore, e avendo trovato arrotolato nella sua bocca un fumetto di Superman. Il che ha scatenato associazioni con il superuomo e il chiaro messaggio di superiorità della razza bianca dato dall’assassino grazie a quel particolare fumetto eccetera eccetera.
Ebbene, sappiatelo: non c’è ombra di razzismo in me. Sono da sempre un uomo di sinistra. Per me non c’è mai stata alcuna differenza tra bianchi, neri, eterosessuali, omosessuali, e così via. Ho sempre votato per il Partito Comunista, prima della svolta della Bolognina, poi per i vari Partito Democratico della Sinistra e Democratici di Sinistra alternati a Rifondazione Comunista, un po’ per il Partito Democratico in chiave anti-Berlusconi.
Ora, dopo aver vagato tra Vendola e Ingroia, sto seguendo questa novità della lista Tsipras con un certo interesse. Non per fare una mappa del mio percorso politico, ma per spiegarvi che con il razzismo non ho niente a che vedere.
Se ho ucciso quel ragazzo con un colpo di cacciavite alla schiena, e poi con un altro colpo alla gola, se gli ho ficcato in bocca quel fumetto di Superman, ho avuto i miei buoni motivi.
Che non vi posso spiegare, naturalmente.
Basta sapere questo: mi va bene passare per un assassino. Ho ucciso un uomo a sangue freddo, del resto.
Ma passare per razzista, io, no.
Razzista, mai.
2.
Qualche giorno prima
Oggi il campo è un sasso al centro e una foresta tropicale sulle fasce, il pallone può rimbalzare imprevedibile sulla pietraia, o andare a morire nell’erba altissima. Per fortuna non ha piovuto, altrimenti sarebbe stato tutto un tirar calci alle pozzanghere.
Anche se io mi esalto, a giocare sotto la pioggia. Mi viene fuori lo spirito da gladiatore, a ramazzare e randellare in mezzo al fango.
E poi mi piace presentarmi al bar del Dopolavoro ferroviario a fine partita, mostrarmi alla Carla prima di fare la doccia con la maglietta coperta di fango, i capelli incrostati, i piccoli squarci sanguinolenti sulle ginocchia. Spero sempre che questa virilità da campetto di Terza categoria la possa in qualche modo impressionare.
La Carla è la figlia della barista del Dopolavoro ferroviario, e spesso affianca sua madre al bancone.
La Carla è alta quasi quanto me. Ha le treccine, le spalle larghe, che a me piacciono molto in una donna, e quel pancino scoperto che mi fa morire. La benedico, questa moda della pancia scoperta.
Dopo le partite faccio sempre sosta al bar. Reintegro i liquidi perduti con la birra spillata dalle sue manine, recupero le forze con i panini confezionati dalle sue ditine d’oro.
Non è stupida, la Carla. Ha capito che vado al bar solo per lei. Non è stupida.
È sfuggente.
La Carla è una ragazzetta con cinque anni meno di me e ancora tante stupide fisime in testa. Sogna il poeta alternativo. Il musicista. Lo sfattone da centro sociale. Deve crescere. Crescerà.
Forse dovevo chiedere ai miei di farmi diverso per piacere alla Carla.
Dovevo dire: «Mamma, per favore, cerca di non morire così presto, se possibile, così non devo andare a lavorare dopo il diploma e posso diventare un poeta alternativo».
Dovevo dire: «Papà, cerca per favore di non cadere da quell’impalcatura, che dopo ti tocca stare a casa con la pensione d’invalidità e io non posso diventare un musicista che si fa le canne e filosofeggia sui massimi sistemi. Vi seccherebbe molto non morire e non cadere dalle impalcature, per piacere?».
Forse la Carla sarebbe più attratta da mio fratello piccolo, che con la testa tra le nuvole ci è nato.
Mio fratello ha sempre sognato di scrivere fumetti. Aveva riempito con i giornalini la sua metà di camera, e ogni tanto tentava di allargarsi nella mia.
Ora ci lavora, finalmente, nei fumetti. Non nel senso che li scrive o li disegna, no. Lui fa il lettering. Cioè, mi ha spiegato, scrive il testo dentro le nuvolette e le didascalie, facendo attenzione a non uscir fuori dai margini. Un lavoro anche quello.
Sopravvivenza.
Comunque li leggo anch’io, ogni tanto, i fumetti in cui fa il lettering. Specialmente Superman, che mi piace più di tutti. Abitiamo vicini. Qualche volta vado a trovarlo, e di nascosto mi porto a casa degli albi di Superman. Mi piace pensare che sia il mio fratellino, a far parlare Superman nelle nuvolette.
Ma non glielo dico, a mio fratello, che leggo i suoi fumetti.
Mi sembra un po’ stupido, alla mia età.
3.
Dicevo della Carla. Sì, insomma, è una ragazzetta con tante fisime in testa, ma le passeranno, un giorno, quelle fisime.
Capirà che fare un lavoro come il mio è solo un modo come un altro per portarsi a casa uno stipendio. Che aggiustare le centraline telefoniche non è uno stile di vita ma sopravvivenza. Che quando sogno ad occhi aperti, vedo il pub che aprirò quando avrò vinto al Superenalotto o al Gratta & Vinci. Il pub che metterò su in società con due o tre amici fidati, dove potrò fare l’oste simpatico dietro il bancone e far suonare dei giovani musicisti blues nel palco che farò costruire.
Lo aprirò, un giorno, il mio pub.
Io gioco difensore. Maglia numero cinque. Sempre nei bassifondi del pallone, un po’ in Seconda categoria, ma più che altro in Terza. Questa è la mia dimensione. Mica mi lamento.
Oggi è una domenica mattina di mezza primavera, col centrocampo duro come il ferro e le fasce morbide d’erba rigogliosa. Come pubblico abbiamo le mogli dei giocatori e i pensionati, che hanno già comprato il giornale e fino all’ora di pranzo non hanno niente da fare se non vederci trotterellare nelle maglie giallonere.
È metà primavera, ma nei muscoli ho ancora tutto il freddo dell’inverno. Ho il polpaccio destro che sembra una fibra limacciosa, sembra sughero. Ho fatto mezz’ora di corsa e di scatti solitari prima della partita, ma non mi si è mica sciolta, la poltiglia schifosa nel polpaccio.
L’allenatore Bottazzi ha una rosticceria che l’ufficio d’igiene ha fatto già chiudere due volte. A inizio stagione si è innamorato della difesa a tre, ha deciso che la difesa a quattro è roba da Mesozoico, «Ormai fanno tutti la difesa a tre» ha detto, e io che ho sempre giocato al centro della difesa mi sono adattato a fare il centrale di destra. Da quando ho iniziato a giocare, un secolo fa, non ho mai discusso le scelte dell’allenatore: è un codice di autodisciplina che mi sono imposto.
Devono esserci delle regole in una squadra, e una delle regole è: quel che dice l’allenatore si fa, anche quand’è un cretino integrale come Bottazzi, anche se non sono a mio agio a fare il centrale di destra, se l’allenatore dice che devo giocare a destra io gioco a destra. Poco convinto, certo, ma le riserve le tengo per me. L’importante, in una squadra, è avere un’organizzazione. Anche se è un’organizzazione del tutto idiota, bisogna che ci sia.
4.
Oggi giochiamo contro la Lokomotiv Caserme Rosse, la squadra del mio nemico giurato.
Zatterone.
Lo chiamiamo così, nell’ambiente, per via di quegli enormi piedi appiccicati in appendice a due ridicole gambette storte.
Sono tredici anni che odio Zatterone. Lo odiavo agli esordi, quand’ero un difensore giovane e reattivo e lui un centravanti rapido e guizzante, e lo odio adesso, dopo tredici anni di botte, calcetti, gomitate, di duelli sul filo del fuorigioco, vinti un po’ da me e un po’ da lui. Adesso che siamo tutti e due vecchi, lenti e a fine carriera, adesso che siamo ridotti ad arrangiarci, a giocare d’esperienza, non è cambiato proprio niente. Ci disprezziamo sempre come il primo giorno, Zatterone ed io.
Nei primi minuti di partita l’ho incrociato un paio di volte, ci siamo sputati addosso non visti dall’arbitro, ci siamo tirati un paio di stecche dolorose, sibilando gli insulti che ci regaliamo da tredici lunghi anni, ma più che altro Zatterone si è incrociato con Marangoni e con lo slavo.
Marangoni gioca al centro della difesa.
Il nostro slavo dal nome impronunciabile gioca sulla sinistra.
Zatterone tende a partire dalla sua fascia destra per convergere verso il centro, per cui se lo sono accollati loro due.
Io, da centrale di sinistra, ho dovuto rintuzzare gli attacchi del numero sette.
Il ragazzo nero della Lokomotiv.
Il nero della Lokomotiv Caserme Rosse è alto come una pertica e gioca seconda punta, di quelle seconde punte che partono da lontano, prendono velocità, erompono in area rapide come un pendolino, di slancio.
I giocatori alti sono lenti, in genere, con quelle leve lunghe che si ritrovano. Questo, invece, sfida le leggi di natura. Appena ha un metro di spazio comincia a turbinare quelle sue gambette secche da trampoliere, e in un attimo schizza sull’erba come una motofalciatrice.
E io ho sempre questo polpaccio rigido.
Questo cartone schifoso nei muscoli.
Al ventesimo minuto Zatterone fa il suo giochino preferito. Ovvero: va addosso a Marangoni e poi si lascia rimbalzare all’indietro, cade in area e finge di aver subito fallo. Ora sta strillando come un’aquila in ginocchio, per impietosire l’arbitro e farsi regalare un patetico rigore. Ha le mani giunte, gli occhi spalancati, i lineamenti stravolti dalla sua fasulla indignazione.
Un grandissimo caratterista, il buon vecchio Zatterone.
Un signor attore.
Non ho ancora finito d’insultarlo, di gridargli in faccia che fa schifo, che fa pena a guardarlo, che il sette arpiona un pallone sulla fascia con le sue gambe lunghissime e riparte come un proiettile.
Ha un sacco di spazio davanti a sé. Sta prendendo velocità. Calibra la falcata per saltare come un birillo il difensore che ha davanti.
Che sarei io.
Io, che che con gli anni sono diventato sempre più lento e macchinoso. Che ho questa brutta sensazione di muscoli a fine carriera, di polpacci stufi marci di scivolate, calcioni e tacchettate.
Io, che mi preparo ad affrontare il numero sette che sta arrivando come un ciclone.
Lo aspetto con le braccia lungo il corpo, il bacino all’indietro, pronto a far passare o lui o la palla. Non tutti e due insieme.
È un attimo.
Il ragazzo nero mi punta come se fossi un tordo. Finge di aggirarmi a sinistra. Allungo la gamba per intercettare il pallone o, al limite, il suo stinco.
Ma il pallone non c’è più.
L’avversario nemmeno.
Ci metto un secolo a girarmi, stordito dalla finta.
Il sette mi ha superato, ed ora sta affrontando il nostro portiere in uscita disperata. Marangoni corre a coprire la linea di porta.
Il sette guarda Marangoni, l’ultimo disperato scudo umano tra lui e il gol.
Finge di tirare.
Invece mette il pallone in mezzo.
Dove Zatterone si è rialzato dopo la patetica sceneggiata.
Ed è lì, immobile, idealmente ghignante, al posto giusto nel momento giusto per approfittare del pacco dono e ciabattare il pallone nella porta vuota.
Per poi esultare come un bambino di sei anni, correndo per tutto il campo pugni al cielo.
Il deficiente.
Brani
Change Of Season
Madan – Salif Keita
Ragazzo Di Strada – I Corvi
O Dolce Vita Mia – The King’s Singers
Indaco Dagli Occhi Del Cielo – Zucchero
In The Midnight Hours – The Commitments