Piero Camporesi (nato a Forlì nel 1926, morto a Bologna nel ’97), è bravissimo a scrutare i sintomi della nostra brutale contemporaneità attraverso il filtro di una memoria erudita e volutamente inattuale.
Così, partendo da molto lontano, ne “Il governo del corpo” si parla dell’edonismo di massa, della paranoia delle diete, della decadenza dell’olfatto, della religione del corpo, delle incerte vie del sesso liberato, dell’inquinamento dell’aria, dello sterile consumo delle ore notturne.
Il Postinferno
Le mappe dell’inferno sono ormai illeggibili. Non solo non si sa come raggiungerlo, ma non è nemmeno più chiaro dove si trovi. Né se sia ancora aperto. Un prestigioso teologo poco tempo fa ha affermato, non si sa sulla base di quali informazioni, che l’inferno esiste ma probabilmente è vuoto. Alcuni suppongono che si debba intendere come un non-luogo, altri ne parlano malvolentieri, con qualche imbarazzo, come di una logora metafora.
Dominatore della scena cristiana, punto di riferimento indispensabile all’Europa medievale e moderna, protagonista ancor prima di Costantino il Grande d’innumerevoli drammi spirituali, potente macchina di condizionamento continuamente perfezionata e aggiornata durante i secoli, questo grande collettore di terrori e di spasimi, inesauribile deposito di angosce e di incubi, si sta tranquillamente dissolvendo nella coscienza e nell’inconscio della gente.
Si può ormai con qualche fondamento affermare che l’inferno è finito, che il grande teatro dei tormenti è chiuso a tempo indeterminato, che lo spettacolo dopo quasi due mila anni di rappresentazioni agghiaccianti non si replica più. La lunga trionfale stagione, è terminata. Sembra che rimanga il diavolo: signore della materia. Ma, come un sovrano deposto, come un re in esilio, chiusa la porta del doloroso regno, non ha più né una reggia, né una corte, né città, né castelli. Campa stentatamente di rendita con i pochi spiccioli di quelle cattive azioni che la sua industria metallurgica, una volta fiorente, gli aveva assicurato. Bancarottiere senza molto credito, fa ancora qualche affare in alcune tristi città, fiorenti nei tempi beati della meccanica pesante.
Né si può seriamente pensare che il rilancio di Satana, riproposto nel ferragosto dello scorso anno (1986) ai fedeli del terzo e quarto mondo, possa avere un ulteriore seguito. Siamo entrati – bisogna che ce ne rendiamo chiaramente conto – nel postinferno, con tutti i problemi che questa svolta porterà certamente con sé. Nel postmoderno e nel postindustriale non c’è più spazio per i suoi urlanti magazzini criminali. Avevano funzionato a lungo, quasi per un’eternità, quando gli uomini lavoravano la terra, meditando con curiosità ansiosa su quello che nel sottoterra si rinchiudeva. Oggi però la vertigine dello spazio cosmico ha soppiantato quella dell’abisso. Sta anzi prendendo corpo un nuovo fantasma scientifico, il «sopramondo». Una paura millenaria è stata rintuzzata. I viaggi verso l’alto (non sempre tranquilli e sicuri, per la verità) hanno reso desuete e inutili le discese verso il basso.
Parallelamente a questa inversione di marcia, anche i miti ctonii sono stati rimossi. Sogni, incubi, deliri di culture agrarie, inutili ciarpami folclorici di coltivatori, residui ingombranti d’incomprensibili culti dei grani e dei semi, vaneggiamenti liturgici di rozzi adoratori del pane e del vino (specie nelle quali un Dio potente si offriva nascosto), allucinanti, temporanee parusie ed epifanie traumatiche, questi sogni d’infermi e fole di romanzi sembrano sopravvivere solo nel terzo mondo dei visionari sottoalimentati.
«La storia può essere indipendente dalla teologia», ha riconosciuto recentemente Jeffrey B. Russell, demonologo a tempo pieno, «ma la teologia non può essere indipendente dalla storia». Tutto ciò che è stato costruito dalla meditazione religiosa è soggetto all’ineluttabile logoramento dei secoli, tributario della più tragica invenzione disumana, quella del tempo silenzioso e inafferrabile. Gli dèi invecchiano, decadono, muoiono, sbriciolati dalla polvere degli anni. Nella casa di Adamo riesce a penetrare, travestito da scheletro, solo il tempo. Ascendit mors per fenestras.
Quando l’inferno si chiude, anche il paradiso entra in liquidazione. Il basso ha senso solo in rapporto all’alto, come la luce ha realtà nella prospettiva delle tenebre. Tale è la logica ineludibile dei sistemi dualistici come quello cristiano cattolico costruiti sopra l’equilibrio degli opposti. Se il paradiso è luce, serenità, sapienza, potenza, l’inferno dovrà necessariamente presentarsi al negativo, così come inquieto e dilaniato, oscuro e impotente è l’inconscio nei confronti del superconscio. Locus inquietissimus, l’impero del male non può conoscere l’armonia del bene, l’ineffabile grazia della consolante serenità. Nullus ordo, laggiù, soltanto confusio. Regno del chaos, non conosce i celesti concerti che deliziano i beati, ma solo rumore, grida strazianti, lamenti e bestemmie, dissonanze spietate e musiche insopportabili, come in uno charivari selvaggio.
Anche i classici protagonisti dell’inferno sono quasi tutti scomparsi. Per i nuovi peccatori emergenti invece ci vorrebbe un ergastolo infiammato più largo della stessa terra. La pIace locale del nuovo tartaro non potrebbe essere collocata da nessuna parte. L’epulone purtroppo non c’è più (tranne qualche nababbo levantino ingrassato da lucrosi traffici d’armi) o è in via di rapida estinzione. E comunque non sarebbe forse il caso di seppellirlo per l’eternità nell’inferno. II fast food, il cibo svelto che non fa sognare e non induce in tentazione, il cibo senza piacere (e senza peccato), insieme alle diete salutiste e alla eubiotica vegetariana, ha da parte sua notevolmente contribuito a liquidare le riprovevoli intemperanze d’una volta. La paura delle calorie in eccesso è ormai più forte del terrore della fiammeggiante, infame cucina infernale. Pernici e beccacce, capponi e pasticci, storioni e murene, falerni e malvasie, strumenti infernali di perdizione, sono fortunatamente scomparsi e non è ragionevole supporre che possano essere i panini alla cipolla o altre diavolerie del genere a portare alla dannazione. L’altro mondo, quello rovesciato delle fosse eterne, prosperava quando questo mondo era (per i ricchi) colmo di piacevoli seduzioni, dolce da viversi, gustoso ad assaporarsi: ora l’inferno è qui, alla portata di tutte le borse. È qui nei vini avvelenati, nei pomodori al temik, nelle carni gonfiate da ormoni cancerogeni, nelle primizie degli orti sature di pesticidi, nelle belle mele senza vermi, ancora seducenti ma dai succhi avvelenati (potenza della tradizione!), nelle sogliole al mercurio, nell’acqua all’atrazina, nell’aria pesante di tetraetile di piombo. L’inferno del ventre non è più metafora letteraria ma dura realtà chimica quotidiana. Sempre più rara l’agostiniana ventris ingluvies, sempre più improbabile la gerolimiana epularum largitas, che corrompevano, simultaneamente, l’anima e il corpo. Se l’anima ai nostri giorni può essere moderatamente tranquilla, non così può dirsi per il corpo afflitto e minacciato.
Pensava san Girolamo (e non era il solo) che semper saturitati iuncta est lascivia. Ma oggi il canale genitale non è più così intimamente legato a quello orale e, di certo, non più tanto frequentato. «Vicinia sunt igitur venter et genitalia», osservava il dotto Padre. «Pro membrorum ordine, ordo vitiorum». Anatomicamente, si capisce, continuano ad essere contigui, ventre e membri genitali, ma spiritualmente non aderiscono più come prima. Separati in casa. Fortunatamente la disappetenza porta all’incremento della virtù. Sant’ Ambrogio può essere ora ragionevolmente tranquillo: «Fames amica verginitati est». Un inferno per un popolo di paninari francamente sarebbe sprecato. Per questa società posterotica un postinferno è proprio quello che ci vuole. Il sesso ormai è più che altro un vizio dell’occhio, AIDS adiuvante. E il «sesso sicuro» (il sesso futuro che occhieggia livido come le melanzane sotto cellophane dei supermercati) non è il più indicato per peccaminose passeggiate negli orti di Venere.
Sprecato sarebbe l’inferno anche per i prodighi e i dilapidatori di sostanze. Il risparmio delle famiglie, che da tempo non esercitano più l’antica virtù-peccato della largitas conviviale e della signorile ospitalità preferendo investire in bot, fondi e rendite finanziarie, ha estinto questa cattiva abitudine largamente praticata nell’Europa cristiana. Quanto all’inferno del naso, non c’è più da preoccuparsi. I fetori della cloaca sotterranea, il lezzo dei corpi dannati e i miasmi della carne corrotta dal peccato non possono atterrire i nasi perduti di gente che inala quotidianamente, con palese soddisfazione, letali dosi di ossido carbonico e di anidride solforosa. Abbiamo formidabili deodoranti e possiamo ignorare sia i pericoli dell’invisibile sia quelli della contaminazione inavvertibile. Si può dunque vivere tranquilli. L’inferno dei cinque sensi non è più laggiù sepolto in corde terme. E se si è trasferito quassù, fra noi, neppure ce ne accorgiamo.
“Corriere della Sera”, 24 maggio 1987.
Lettura di Fulvio Redeghieri.