27 giugno 2013
Da Piacenza a Rimini sulla Strada Statale 9. Per festeggiare i ventidue secoli della Via che dà metà del suo nome all’Emilia-Romagna, l’edizione bolognese del “Corriere della Sera” ha rispolverato un genere intramontabile: il reportage di viaggio.
L’autore, il giornalista Fernando Pellerano, tiene sul sito del “Corriere di Bologna” un blog intitolato “Dammi il tiro”, in cui racconta il capoluogo attraverso le sue video-pillole.
17 giugno 2013
Quel Santo nascosto a Reggio
Il passaggio dalla provincia di Parma a quella di Reggio, una volta usciti dalla città ducale, è quasi immediato: solo 7500 metri di Statale per arrivare al fiume Enza e scavallare nel reggiano. In pratica un lungo rettilineo che si piega all’altezza dell’ultima frazione parmense, «Il Moro», dove ci s’imbatte in una delle tante stranezze – e felici scoperte – della bimillenaria via Emilia.
Ebbene, oltre la frazione c’è un normalissimo ponte di confine: se ne attraversano tanti di ponti perché tanti sono i fiumi o i torrenti che dolcemente scendono dall’Appennino per trafiggere, sempre perpendicolari, la SS9; ulteriore filo di una trama astratta disegnata dai Romani, che taglia questa terra a fettine e quadratini.
E allora, perché ci siamo fermati qui? Perché all’inizio del ponte, sul lato nord, c’è una grande statua ignorata dai più e dimenticata da Dio (è un modo di dire, non sia mai…). TIR e auto le sfrecciano accanto senza degnarla di uno sguardo. Individuarla, del resto, è un esercizio difficile perché ormai è coperta e nascosta dalla vegetazione. Eppure è lì dal 1736. Sola, abbandonata, poco conosciuta anche da chi abita a Il Moro. Per osservarla bene bisogna arrivarci a piedi, col rischio di farsi arrotare: siamo sulla via Emilia, bellezza.
La storia della statua è ricca e avventurosa. Il santo è Giovanni Nepomuceno, patrono dei ponti e degli annegati: un santo «nip» (not important person). Boemo di nascita, Giovanni N. pare sia stato gettato giù dal ponte di San Carlo di Praga, infilato dentro a un sacco, su ordine dell’imperatore Venceslao IV.
Il motivo? Come spesso accade c’è di mezzo una donna: sembra infatti che si fosse rifiutato di comunicare a Venceslao i peccati rivelati in confessione dall’imperatrice. E com’è finito qui lo sconosciuto Giovanni? La statua la fece costruire nel 1736 un certo Ludovico, vonte di Kevenhuller, arrivato nel Ducato con 300 ussari, inviato dagli Asburgo per cacciare gli spagnoli (che avevano già razziato il razziabile). Il monumento, posto al confine del possedimento per celebrare l’impresa bellica, è assai simile a quello ancor oggi esistente sul ponte praghese.
Qui sull’Enza da quasi tre secoli, con le frasche sul volto e un mazzo di fiori (veri) al posto della palma del martirio (caduta, persa, trafugata?), Giovanni Nepomuceno merita un saluto affettuoso. Dall’altra parte ecco Sant’Ilario e poi Reggio nell’Emilia. Anch’essa colonia romana che deve il proprio nome ai suoi fondatori, che, in omaggio a Marco Emilio Lepido, la chiamarono Regium Lepidi. La precisazione «nell’Emilia» è settecentesca, aggiunta per chiarire che non siamo in Longobardia (la cui conquista si arrestò a un centimetro dalle sue mura).
La via Emilia entra a Reggio come un coltello nel burro: prima di entrare in città, un tratto è dedicato ai Fratelli Cervi, poi la consolare manterrà sempre il nome di Emilia accompagnato ora da San Pietro, ora da Ospizio e poi ancora Santo Stefano, all’Angelo e così via. Visto dall’alto il centro storico di Reggio è un esagono diviso a metà dalla SS9. Geometria quasi perfetta. La consolare è un punto di riferimento costante: di qua piazza Prampolini (nome ricorrente nella storia della città, con quelle sue idee rivoluzionarie – terra ai contadini! – invise ai marxisti ortodossi), di là l’immensa piazza Vittoria. E poi quegli splendidi chiostri – in primis quello di San Pietro e poi San Domenico e ancora della Ghiara – che hanno ospitato in questo periodo, insieme ad altre decine di location, l’ottava edizione di “Fotografia Europea”, la manifestazione che caratterizza culturalmente Reggio (a Modena la filosofia, a Mantova la letteratura e così via): aperta il 3 maggio con 904 opere esposte in spazi on e off, la manifestazione di carattere internazionale che davvero illumina il volto della città si chiude proprio questa sera dopo cena: cogliete l’occasione al volo, imboccate la Via Emilia e abbandonatevi alla mille immagini di Reggio.
Sullo sfondo di questa eccellenza europea, le parole fotografate da Ghirri, le immagini raccontate da Zavattini. Due sguardi eccezionali, figli di questa pianura ricca di pieghe e di risvolti. Guardare, vedere, riconoscere. I due maestri reggiani hanno indicato una strada e la città ha finalmente riconosciuto il messaggio. La perfezione però non esiste e allora non possiamo non segnalare al lettore che la spettacolare manifestazione spalmata in ogni angolo della città e della periferia non vive sette giorni su sette, ma solo dal venerdì alla domenica… (soluzione inedita, molto poco europea). L’handicap è pesante, ma almeno scriviamolo a caratteri cubitali che le foto si vedono solo 3 giorni su 7. Comunque imperdibile.
Uscire da Reggio percorrendo la piacevole via Emilia San Pietro significherebbe a un certo punto ritrovarsi davanti alla Mauriziana, edificio del ’400 che ospitò Ludovico Ariosto, un figliol prodigo (reggiano di nascita) ma ingrato, definendosi sempre ferrarese. Ma oggi, salutando Reggio (dopo il quesito sulla «r» parmense, non abbiamo cercato risposte al detto «reggiano testa quadra»), non si può non deviare verso l’autostrada per ammirare il nuovo simbolo periferico della città: il ponte sull’A1 di Calatrava e da poche ore anche la stazione intermedia dell’Alta Velocità.
Uno sguardo e via, di nuovo sull’amato superdecumano emiliano verso Modena. Due svincoli, due rotonde, un errore e ci si imbatte in Sesso, comune di 4500 anime, ovviamente ricco di cartelli strani tipo «Scuole dell’infanzia comunale “Martiri di Sesso”». Ma questa è un’altra storia. Niente Sesso, torniamo sulla diritta via.
22 giugno 2013
A Fossoli, sei ettari di memoria
Uscendo da Reggio la via Emilia si mantiene stabile sul suo asse principale est-ovest, ma a Rubiera una prima volta e a Cittanova una seconda eccola inclinarsi verso l’alto per raggiungere Modena, che i romani nel 183 avanti Cristo – quattro anni dopo la realizzazione della consolare che stiamo percorrendo a ritroso – chiamarono Mutina (l’origine è però etrusca).
Il nostro «superdecumano» è quindi (visto sulla cartina) una splendida diagonale parallela alla catenina appenninica ma con qualche eccezione, improvvise svolte, imprevedibili ripiegamenti. E allora anche noi optiamo per una deviazione: un errore voluto (e non sarà l’ultimo).
Nulla contro “Mòdna”, come la chiamano i modenesi, ricca di storia e di monumenti, con il Duomo, la Ghirlandina e Piazza Grande dichiarate Patrimonio dell’umanità dall’UNESCO e la via Emilia che nel centro storico continua a chiamarsi esattamente così, Via Emilia! Il fatto è che le eccellenze in questo tratto di consolare sono talmente tante che si sarebbe rischiato di fare torto a quelle non trattate.
Perciò, invece di entrare nel capoluogo puntiamo a nord, verso Carpi, e poi oltre, in piena campagna, di fronte a un «quasi nulla», in un recente passato abitato da mille genti, quasi sempre sofferenti: Fossoli, piccola frazione carpigiana, il più grande centro di smistamento italiano di ebrei, prigionieri, detenuti politici e tanto altro durante la Seconda guerra mondiale.
Si tratta di 15 ettari di terra che ha vissuto tante vite diverse nel breve giro di soli 28 anni, dal 1942 al 1970: quindi non «solo» un campo di prigionia, ma, dopo la guerra, anche rifugio per comunità di orfani e poi una cittadella di profughi giuliani.
Stratificazioni importanti che hanno strappato via, uno dopo l’altro, quasi tutti i simboli e i ricordi dello strazio più crudele perpetrato dai nazisti. La visita al Campo di Fossoli, trasformato in Parco della Memoria nel 1996, può forse deludere (si fa per dire) il visitatore perché le efferatezze del passato sono poco visibili.
E invece il viaggio sarà importante (senza aspettare il prossimo 27 gennaio, Giornata della Memoria), basta ascoltare le spiegazioni degli «Amici del Museo Monumento» (che per primi lavorarono al recupero di quel pezzo di terra) sulle mille storie concentrate in questi pochi ettari (oltre ai 6 del campo attuale ce n’era un altro di 9, dismesso subito dopo la guerra) ora ridotti a vialetti di prati verdi con baracche (quelle per gli ebrei) assalite dalla natura e ormai cadenti e una sola torretta di guardia. Sopravvissuta. Bisogna sforzarsi a immaginare il dolore e le violenze vissute su queste zolle di terra e dentro alle baracche.
Ma insomma, qui cosa successe? Nel maggio ’42 l’esercito italiano rinchiude i prigionieri di guerra inglesi provenienti dall’Africa, ma nel gennaio ’44 sono le SS a gestire il campo e a radunare gli ebrei italiani per poi deportarli nei campi di concentramento (col prezioso aiuto dei fascisti di Salò). In soli 7 mesi saranno 5000 gli ebrei diretti nei lager, fra questi anche Primo Levi, che ricorda il suo passaggio da Fossoli nel suo Se questo è un uomo (il giorno prima della partenza ci si prepara nelle baracche): «… Ognuno si congedò dalla vita nel modo che più gli si addiceva. Alcuni pregarono, altri bevvero oltre misura, altri si inebriarono di nefanda ultima passione…».
Per questioni di sicurezza, nell’agosto ’44 il campo viene trasferito a Bolzano, ma subito dopo la guerra viene utilizzato per raccogliere tutti gli sbandati europei e per non mostrarli, tanto erano mal messi, si costruisce un muro di mattoni (prima «solo» filo spinato e bandiere nere e fucilazioni sommarie e…) che verrà abbattuto un anno dopo. Ora uno degli ultimi tratti rimasti è caduto con il terremoto che ha danneggiato anche le ex baracche riadattate per i visitatori…
Il campo continua a vivere dal ’47 al ’52 con la comunità cattolica del carpigiano Don Zeno e la sua “Nomadelfia” (poi sfrattata in Maremma) con i bambini abbandonati e orfani di guerra. Una piccola città. Si eliminano i ricordi del passato: ora non sembra più un ex campo di smistamento delle SS. E ancor di più avverrà con l’arrivo dei profughi giuliani-dalmati e del loro “Villaggio San Marco” che ritrasforma il tutto in un centro abitato ma chiuso (con negozi, asili scuole, chiesetta).
Nel 1970 finisce la storia del campo «vissuto» e dopo 3 anni nasce a Carpi, nel Palazzo dei Pio, il Museo Monumento del Deportato, con le sue sale tappezzate delle scritte dei condannati a morte e le opere (in realtà sono riproduzioni) di artisti come Guttuso, Cagli, Picasso, Léger… All’ingresso il Cortile delle Stele. Un altro luogo da visitare.
Campo e Museo sono, in termini numerici di visite, facendo riferimento all’intera provincia di Modena, secondi solo al Museo della Ferrari: dove si trovano in vetrina supercar, auto di lusso, la bellezza e l’armonia su quattro ruote e anche la rinascita economica, il sogno e poi le vittorie. Tutta un’altra storia, completamente. Eppure siamo sempre qui, in questa terra che corre abbracciata alla via Emilia.