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11 Luglio 2013 | Racconti d'autore

Via Emilia: 2200 anni in otto tappe

Reportage di Fernando Pellerano, tratto dal “Corriere di Bologna”, 1 e 7 luglio 2013 (quarta puntata)

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Mascia Foschi

11 luglio 2013

Da Piacenza a Rimini sulla Strada Statale 9. Per festeggiare i ventidue secoli della Via che dà metà del suo nome all’Emilia-Romagna, l’edizione bolognese del “Corriere della Sera” ha rispolverato un genere intramontabile: il reportage di viaggio. 
L’autore, il giornalista Fernando Pellerano, tiene sul sito del “Corriere di Bologna” un blog intitolato “Dammi il tiro”, in cui racconta il capoluogo attraverso le sue video-pillole.

1 luglio 2013
Gli ultimi Mutoid di Romagna

Nel cuore della Romagna la via Emilia è tutta un godimento. Uscito da Forlì, il viaggiatore affamato e buongustaio che percorre la SS9 a fine giugno non può non entrare a Forlimpopoli per la “Festa Artusiana”: 150 eventi gastronomici, nove giorni di incontri, degustazioni, concerti, mercatini, riflessioni sul cibo che richiamano e soddisfano, grazie anche all’arrivo di decine di ristoratori, migliaia di persone. Occasione ghiotta: oggi, 30 giugno, finisce la manifestazione e chiudere qui la gita al mare è perfetto. Mare che ancora non si vede, ma si comincia a sentire forte (e con lui l’idea del piacere).
Sulla consolare, che riserva sempre stratificazioni sorprendenti, la storia da raccontare non è però di carattere culinario o ballerino. Il monte Titano, sperone d’altra nazione, è laggiù e ora la SS9 attraversa Santarcangelo. Fra due settimane il paese, sia in alto sia in basso, ricco di piacevoli ristorantini («da noi non esiste la bassa stagione», sciorina un gestore ottimista – finalmente!), si trasformerà in un teatro a cielo aperto (e due).

Nell’attesa che si alzi il sipario sul festival omonimo, deviamo verso il Marecchia per raccontare quella città dentro la città popolata, in un «parco scultura» sulle rive del fiume, dai Mutoid, nomade e artistica comunità inglese (“travellers”: un ibrido fra punk e freak che vivevano anche sulle chiatte dei fiumi), arrivata improvvisamente qui nel 1990 dopo un lungo peregrinare in Europa (negli anni Ottanta furono le politiche repressive thatcheriane a spingerli ad abbandonare l’Inghilterra e a vagare, con la loro arte, nel continente).
«Provenienti da Barcellona, erano stanchi di girovagare coi loro 12 truck [autocarri, ndr] e si fermarono qui, in questa ex cava di ghiaia abbandonata, dopo aver partecipato da ospiti al Festival dei Teatri. E non si sono più spostati», racconta Freddy, l’unico bambino di quella comunità (una trentina di ventenni, «bimbi come me, in fondo») che dopo aver vissuto la seconda adolescenza a Bristol è tornato da un po’ a stare qui («non posso fare a meno di questo stile di vita»), con la fidanzata Pamela, unica romagnola del campo («residente solo da un anno»).

A Santarcangelo tutti conoscono i Mutoid (Waste Company), «abitano sul fiume», artisti del ferro e del fuoco, costruttori e scultori, allestitori, artisti invitati ai festival (successo nei Novanta, calo nei 2000, ora assestati). Le loro figure, molte delle quali riposano nel campo, sono finite nelle piazze, nelle disco, in tanti spettacoli, nei musei. Opere pagate, certo. Opere commissionate o comprate dai visitatori che arrivano in questo spazio quasi postnucleare, privo di segnaletica (trovarlo non è semplicissimo).
Qui c’è tutto quello che serve: poco forse per chi è abituato a vivere in città. Ma da 23 anni, chi dalla prima ora e chi anni dopo, i vari Charlie e Strapper (e la figlia Debbie), Michael, Alex, Niki e la figlia maratoneta Molly di 15 anni e ancora Kenny, Tom e Ruth col bimbo Aaron di 5 anni e poi Sue, ci vivono serenamente, sempre più integrati con Santarcangelo, ma comunque indipendenti da quella mitica estate. Da dodici anni c’è anche il bolognese Tommi Molteni.

Tutti abili a trasformare in opere rifiuti ferrosi (Gambettola è la capitale degli sfasciacarrozze: una pacchia), ma anche a inventarsi altre attività (magliette, corsi di riciclo, uncinetto; Shona ora è apprezzata chef a Santarcangelo). Sempre in un’atmosfera pacifica. Una vita all’aria aperta, un piccolo locale come spazio comune, i bagni nel fiume, qualche rara festa, grandi fuochi in mezzo al campo, roulotte o capanne rifinite come case, grandi sculture che si spostano da un angolo all’altro. Una vita diversa, certo, ma apprezzata dai romagnoli, amministrazione compresa, che ha sempre concesso loro quella permanenza/convivenza. Un’esperienza abitativa singolare, un condominio orizzontale fondato su nuclei di collaborazione (tipo compagnia teatrale) che verrà raccontata da Zimmerfrei (Anna de Manincor, Massimo Carozzi, Roberto Beani) nel documentario Il Campo, incentrato su questi aspetti, in programma al Festival di Santarcangelo il 20 luglio.

Durante la nostra visita gli ultimi ciak e subito dopo la brutta notizia della richiesta di sgombero dell’area (per riportarla allo stato di ex cava abbandonata) arrivata alla fine di una annosa diatriba legale avanzata da un solo residente che ha fatto ricorso al TAR, mai rassegnato alla loro presenza (che più che illegale – un permesso comunale fino al 2019 c’è – soffre di un vuoto legislativo). Dopo 23 anni la storia dei Mutoid potrebbe interrompersi. Loro, che adesso si trovano ospiti del Festival di Glastonbury, in Inghilterra, temevano l’atto, ma sono pronti a ribattere.
Seguiranno quindi inevitabili schermaglie giudiziarie, siamo solo all’inizio. C’è un ordine demolizione, ma anche 60 giorni di tempo per fare ricorso che scadono a metà agosto. L’amministrazione vorrebbe preservare quel patrimonio immaginario e immaginifico. I Mutoid sono ormai santarcangiolesi (seconda generazione). Occorre creare un corredo normativo per quel tipo di inedito «collocamento» abitativo. E magari il riconoscimento del Campo come «bene comune», artistico e culturale. Nessuno (a parte quel cittadino) vuole vedere avviarsi quella comunità (ancora così english, eppure romagnola) in fila indiana, con i propri mezzi, di nuovo sulla SS9, sulla via Emilia.

7 luglio 2013
Rimini, il primo ponte con l’Emilia

Adesso, in cima a Santarcangelo, ai piedi del Campanone, sì che si vede il mare. Dal paese in basso, accanto alla Rocca Malatestiana, si avverte e si sente, ma vederlo da lassù è un’altra storia. A questo punto è chiaro che il nostro viaggio a ritroso lungo la via Emilia sta giungendo al termine: siamo alle porte di Rimini. L’ultimo tratto della SS9, più o meno 15 chilometri, diversamente dai precedenti 250, ha addosso l’idea del mare, della sabbia, della piadina, del divertimento.
Elementi gioiosi e destinati al piacere (vacanze, vacanze!) che stonano assai con la persistente (e purtroppo concreta) sensazione di crisi e dismissione che si avverte percorrendo, dal dolce Po piacentino al salato Adriatico riminese, la consolare voluta da Marco Emilio Lepido 2200 anni fa.

Quanti edifici, capanoni, laboratori, piccole imprese con le finestre chiuse o murate, i piazzali vuoti (anzi pieni solo di erbacce), i cartelli vendesi o affittasi appesi lì fuori da settimane, mesi. Lo scenario si ripete chilometro dopo chilometro, provincia dopo provincia. Raccontarlo in ogni tappa sarebbe stato troppo deprimente, ma fra le mille trasformazioni subìte dal bimillenario decumano, quella in corso è una delle più tristi e pesanti. È un po’ come se un lembo di gioia emiliano-romagnolo si fosse definitivamente strappato.
Rimane comunque tanto altro. Immutati rimangono – se non trasformati in cemento e asfalto da erronei piani regolatori: il territorio è un bene finito e non infinito… – i campi coltivati, e in particolare i frutteti, che cingono la SS9. Peschi e albicocchi continuano a fiorire e a offrire i loro frutti a prescindere dallo spread, sensibili solo alle leggi della natura e non a quelle della finanza (poi è vero che ci vuole chi quei frutti li raccolga…).

Per ammirare in tutta la sua bellezza la centuriazione romana – geometrici appezzamenti di terreno per i coloni, tutti distribuiti lungo la consolare, strada militare ma anche commerciale – bisognerebbe volare in alto come un uccello. Oggi ci viene in aiuto la tecnologia e Google Earth e così scopriamo anche tutte le altre ibride «vie emilie» aggiunte nei secoli e nei decenni: ferrovie, autostrade e una miriade di circonvallazioni.
I cittadini ormai non sopportano più il traffico automobilistico, e in particolare quello pesante dei camion, che prima del boom economico rappresentava fonte di ricchezza (bar, trattorie e non solo) e anche cartolina di un’Italia curiosa e pronta a darsi una mossa. Oggi è solo puzza, inquinamento, rumore, pericolo.
Dopo Santarcangelo si entra a Santa Giustina, un paese costruito sulla SS9 in lotta con l’amministrazione e che chiede a gran voce la realizzazione di una circonvallazione (approvata in consiglio comunale il 27 gennaio 2011). Non 1, non 10 e neppure 20, ma molti molti di più gli striscioni di protesta affacciati sulle case della via Emilia: un chilometro di proteste che non riguardano solo auto e tir. «Depuratore, biogas, traffico, complanare: non ci fate mancare nulla», «Basta traffico e smog: circonvallazione», «Ci siamo rotti i… polmoni». In lotta anche la parrocchia, anche lei affacciata sulla SS9: «Laudato sei mi signore per Sora Aria».
Ma a circonvallazione costruita, quel tratto della via Emilia diventerà come altrove un bel corso pedonale? Speriamo di sì.

Pedonale e ben vissuto è lo storico decumano di Ariminum, nel cuore del centro storico, che collega il trionfale arco di Augusto, punto di arrivo della via Flaminia (precedente all’Emilia), al ponte di Tiberio, punto di partenza della consolare che si caratterizza anche dal fatto che non parte da Roma. Un tratto di strada che ricuce un pezzo di storia. Storia che non tutti, in particolare i giovani, conoscono. Domanda al volo: «Mi sapete indicare dove inizia la via Emilia?», «mmh… massì, dalla rotonda dell’Obi», «cos’è l’Obi?», «il centro commerciale che c’è in circonvallazione». Si finisce sempre lì, sulla circonvallazione. O al centro commerciale.
Invece noi andiamo sul ponte di Tiberio, trafficato in un senso (ovest-est), con le sole bici al contrario, come ai tempi dell’Impero. Costruzione di cinque arcate e di vita infinita. Nel cartello informativo, in una riga, si racconta che qui iniziavano le vie Emilia e Popilia (verso Ravenna e poi Aquileia): è già qualcosa rispetto ad altri siti storici incontrati lungo la consolare, privi di segnalazioni.

E qualcosa di più dell’epoca romana il visitatore, che non ha l’ansia di raggiungere immediatamente il mare, potrà ammirare visitando il Museo della città e la Domus del chirurgo, dentro le mura di Rimini, in piazza Ferrari, che presenta una ricchissima sezione archeologica che racconta con dovizia di particolari e di reperti la vita ad Ariminum ai tempi di Augusto (così come prima e dopo).
Di questo passato Rimini farà (e ha fatto) bene a non dimenticarsi. E se è diventata quello che è – insieme a tutte le consorelle costruite in fila come perle di una stessa collana – è grazie a questa immortale linea affatto immaginaria che risponde al nome di via Emilia. Qualcosa di più di una semplice strada.

Brano corrente

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