Scrittrice, poetessa e pittrice, Carla Sautto Malfatto fa parte del “Gruppo Scrittori Ferraresi“. Abbiamo scelto questo suo racconto, breve apologo della forza silenziosa di cui è dotata la parola letteraria, per onorare la “Giornata mondiale dello scrittore in prigione”, promossa ogni 15 novembre dall’organizzazione non governativa “PEN International“.
Avevamo deciso di far tagliare l’abete, quello di destra, interrato dal precedente proprietario della casa, a due metri dalla cancellata prospiciente la strada, argine del Po di Volano – pessima posizione.
Bello, era bello, l’abete: maestoso, almeno dieci metri, almeno trentacinque anni, con i rami sfrangiati e un profumo di resina montana. Ma, ormai, tutto secco – poteva schiantarsi da un momento all’altro – quindi pericoloso. Troppi inverni, a sorreggere il peso della neve, che sfaldava a lembi e a tonfi; troppe bufere, a oscillare greve, come il pennone di un veliero squassato dal nubifragio; troppe tempeste, a scorticare il legno dolce; troppe estati a boccheggiare, lui, il re dei boschi, ad ansimare il refrigerio delle notti umide e appiccicaticce; troppe nebbie e troppe gelate, in un clima malsano di pianura, che marciva e annodava i tendini, a un tiro di schioppo dal grande fiume.
Gli avevamo già amputato i rami più bassi e frondosi, larghi come coperte piegate in due, che impedivano la visuale sulla curva al nostro vicino di casa, quando usciva con l’auto. Era stato come spezzare un osso, uno schiocco secco e doloroso, senza eco – e uno sbruffetto di linfa.
Poi, pian piano, s’erano fatte fulve anche le altre braccia. Un riverbero del sole al tramonto, volevo credere… No, era proprio seccume. Piovevano gli aghi – e qualche pigna: passavi la mano e ti restava nel palmo un pugnetto di aghi secchi e bruniti.
– Ti tagliano, se continui così, vedi di riprenderti, – gli dicevo, sotto le fronde dondolanti, dando colpetti al tronco, come pacche sulle spalle a un amico malato. Quando me ne uscivo, lui mi passava le unghiette tra i capelli, intrigandosi tra le ciocche, lasciandomi qualche ragnatela, imbrattandomi di gocce ambrate.
Sbrigammo dunque le pratiche e ottenemmo il nulla osta per tagliarlo – gli scattammo anche delle foto: certo, da giovane, era più bello…
Prendemmo accordi con un tipo (potatura e abbattimento in arrampicata, cell., telefonare ore pasti: aveva lasciato il suo biglietto nella buchetta delle poste, durante una ricognizione, notando l’insecchirsi dell’albero).
– Lo conosci? – chiesi a mio marito. – No, ma chiede meno degli altri. – E se combina un disastro? – Più che tagliarlo… – E se casca, lui con l’albero? – Avrà un’assicurazione, no?
Venne, in un pomeriggio di settembre.
Entrò con l’auto, scese, si presentò. Aveva un naso piccolo, sproporzionato al resto della faccia. Parlava sottovoce, educato.
Diede un’occhiata all’abete e sentenziò che era cosa facile, veloce, ma noiosa. Gli piacevano le querce, diceva, quelle larghe come stanze matrimoniali, per potersi appendere e lanciare da un ramo all’altro, come Tarzan – a me, sembrava tutto matto e per di più schizzinoso. Io, questo, avevo – volevo dirgli – un vecchio abete, e se non gli andava, quella era la porta – sembrava che volesse farci un favore…
Aprì il baule dell’auto ed estrasse gli arnesi: con calma si cambiò le scarpe, s’imbracò, legò la sega elettrica a una fune e l’altra estremità della fune alla cintola, legò anche la piccola sega a mano alla cintola, calcò l’elmetto, mise i guanti, si portò sotto l’abete e iniziò.
Recise i rami più bassi con la sega a mano, saggiò la consistenza dei monconi e salì, tagliando, valutando, issandosi, ruotando intorno al tronco, metodico, costante, devastante, come qualcosa d’insano, un tumore, che ammorba un pezzo alla volta, in lenta agonia.
Rientrai in casa, uscii di nuovo, nervosa.
– Tutto bene? – gli gridai, fingendomi preoccupata.
– Sì, signora, – rispose giusto per cortesia o per abitudine, come si mette un piede davanti all’altro, un respiro dopo l’altro.
Saliva calmo, sicuro, efficiente. Le braccia frangiate dell’abete si distaccavano come ciglia stanche. La luce del tramonto, non più impedita dall’ostacolo, iniziava a frangersi sulla facciata della casa, a entrare dalle finestre – non ero abituata.
I miei figli erano seduti in giardino, naso all’insù, gli sguardi calamitati verso l’acrobata, senza parlare. I rami cadevano uno sull’altro, soffici, quasi senza rumore. Mi chiedevo quanto tempo occorresse ancora.
Per strada passò il solito furbone in bicicletta. Incuriosito, si fermò, mise un piede a terra e, dopo dieci minuti, indicando il ragazzo sull’abete, domandò: – Sta tagliando l’albero?
Sibilai di sì.
L’abete era ormai un tronco senza più rami, una spina dorsale priva di costole.
Il ragazzo si fermò e iniziò, oscillando, a guardare lontano, prima da una parte, poi dall’altra, come volesse filmare qualcosa, imprimersi un particolare, registrare un’emozione.
– È stanco? – feci, come m’importasse qualcosa.
– No, sto guardando il panorama: è bellissimo.
– Cosa vede? – domandai (e non me ne poteva fregare di meno).
– Oh, ci fosse meno foschia, vedrei il mare… – rispose.
Rimase così, in contemplazione, per diversi minuti. Poi issò la sega elettrica, l’azionò e, rapido, decapitò il pinnacolo estremo.
– Bravo! Bravissimo! – feci io, battendo le mani, sperando che la soluzione si facesse ora più rapida.
Il ragazzo iniziò la discesa.
Incideva il tronco da una parte, poi compiva mezzo giro, incideva di nuovo, quindi spingeva con forza, sino a quando il moncone si staccava, crepitando – a volte rimanendo per un attimo penzoloni, aggrappato a qualche fibra – schiantandosi di sotto.
Alla fine, reciso l’ultimo segmento, scese a terra e lungamente infierì per tagliare il ceppo, e la larga base, e ancora, per livellare questa al terreno. Quindi, segò a metà le lunghe sezioni di tronco.
Per strada passò il secondo furbone in bicicletta. Incuriosito, si fermò, mise un piede a terra e, dopo dieci minuti, indicando i ceppi sparsi dappertutto, domandò: – Avete tagliato l’albero?
Sibilai di sì.
Il giardino era un putiferio, disseminato di resti e di schegge. Una luce innaturale tracimava copiosa dalla fenditura aperta, una ferita tra l’ulivo e la magnolia. Ora eravamo in pasto al mondo e il mondo s’era fatto visibile nella sua mestizia – un argine rattoppato, un capannone in disuso, bassi condomini, la vita piatta di un paese.
Prima, quando il grande re impediva la vista, vagheggiavamo ogni sorta di sogno e d’illusione – la frescura dei boschi, l’ombra delle montagne. Era un muro sbrecciato che filtrava il sole a riverberi, un velo fitto che ondeggiava come il respiro – il suo e il nostro, assieme – un cappello fatato, un manto che proteggeva… Ed eravamo senza esserci – viaggiatori del tempo, osservatori stranieri – seduti sotto le sue fronde, su vecchi legni ricoperti di funghi, tra le tortore, i passeri e le formiche, ad appendere parole e silenzi, a fissare senza guardare, oltre – lontani anni luce – una vita che non ci apparteneva.
– Solo un bicchiere d’acqua, grazie, – rispose educato il ragazzo alla mia premurosa domanda.
Guardai l’infame. Ancora odorava di doccia schiuma, con quel suo piccolo naso, il respiro tranquillo, nemmeno scomposto dalla fatica, nemmeno arrossato, le braccia toniche, il sorriso pacato. Osservava compiaciuto il lavoro ultimato, e me, qualche volta. Io ero vecchia, afflosciata e stanca – voleva tagliare anche me?
Lo guardai di traverso.
– Non taglio alberi sani, – diceva. – Mi rifiuto di farlo, quando me lo propongono. Ho un’etica anch’io, anche se questo vuol dire rinunciare a dei soldi. Il vostro abete era completamente secco, morto.
Scrutai i suoi abiti. Non aveva aghi addosso. Non odorava di resina, nemmeno di sudore, era perfetto, fresco come una rosa.
Quando se ne andò, il giardino smise di rabbrividire.
Incominciammo a trascinare i rami in fondo al campo, per bruciarli. Fu poi la volta dei pezzi di tronco, da accatastare in legnaia, per il camino, in inverno.
A sera, quando mi ravviai i capelli, avevo ancora aghi tra le ciocche.
“Morto”, diceva… E di chi era, allora, quell’ultimo canto?