30 gennaio 2014
Tra i 6 milioni di ebrei uccisi nei lager nazisti c’era anche Arpad Weisz, l’allenatore ungherese che nel 1936 e nel ’37 guidò la squadra di calcio del Bologna alla conquista di due scudetti. Nel 1938, a causa delle leggi razziali di Mussolini, fu costretto a dimettersi e fu dimenticato dalla città che lo aveva adottato. Morì ad Auschwitz, come la moglie Elena e i figli Clara e Roberto, di 8 e 12 anni.
Il giornalista Matteo Marani, direttore del “Guerin Sportivo”, ha ricostruito la sua vicenda.
Soltanto pochi mesi prima non sapevo nulla di Weisz e ora conoscevo con assoluta certezza che era morto realmente ad Auschwitz, che aveva avuto una famiglia e nel frattempo avevo pure scoperto che era autore di un libro importante, rintracciato in una biblioteca di Bologna e fotocopiato con venerazione. Ma ora avevo soprattutto un luogo fisico nel quale immaginare la loro vita. Come vedermeli davanti, i Weisz, seguirne le orme in un giorno qualunque. Saranno passati da questa strada o avranno scelto quest’altra? Mi sono immedesimato in loro.
Ho passato sere a camminare davanti all’abitazione, a contare i passi sino allo stadio, cercando di parlare con il proprietario del palazzo, nonché figlio di colui che costruì quell’edificio settant’anni fa. Eppure non mi bastava. Questa storia meritava di essere arricchita con ulteriori elementi. Ho frequentato per giorni l’Archivio storico del Comune di Bologna, trovandovi dei curiosi carteggi originali dell’epoca. E, subito dopo, mi sono spostato a quello di Stato. In mezzo ci sono stati l’Archiginnasio e la Fondazione della Cassa di risparmio di Bologna per l’emeroteca.
Purtroppo ho scoperto quanto i documenti siano oggetti difficili da difendere: gran parte dei fascicoli della Prefettura degli anni bolognesi di Weisz, specie quelli relativi al «Riservato di polizia», fu bruciata dai tedeschi in ritirata e da tutti coloro che avevano interesse a cancellare qualche foglio compromettente. Stessa cosa dicasi per quello della Casa del Fascio, dove aveva sede il Bologna. Nulla di più ha potuto offrirmi la Questura, comunque coinvolta nella ricerca.
Tra i contrattempi, pur tuttavia determinato a proseguire, cercavo di sviluppare parallelamente la parte sportiva. Studiare quegli anni, capire che cosa Weisz avesse fatto davvero dal punto di vista professionale. E scoprire, con crescente incredulità, che si trattava di uno sperimentatore audace, di un tecnico all’avanguardia, di quelli che – come si dice in gergo – hanno fatto storia. Senza che però nessuno glielo avesse riconosciuto.
Ci si poteva fermare?
In questi sessant’anni dalla fine della guerra, tanti che hanno vinto meno di lui e lasciato tracce assai meno visibili, come detto, hanno ricevuto l’onore di interviste, speciali tv e ogni tipo di attenzione. Non Weisz, ucciso due volte. Dai nazisti e da troppa superficialità. Ogni qual volta raccontavo a un interlocutore che si trattava del tecnico che aveva conquistato uno scudetto con l’Inter, prima di aggiudicarsene due con il Bologna, lo sguardo si accendeva. Sì, Weisz aveva vinto così tanto.
Ma torniamo al viaggio. Detto che era impossibile raccogliere testimonianze dei giocatori rossoblu, l’ultimo ad andarsene è stato infatti Puricelli nel 1995, ho virato sulla vedova Sansone, donna colpita da troppo dolore. Qualche ragguaglio, specie sull’atmosfera attorno alla squadra, me l’ha fornito Dino Ballacci, che era stato uno dei ragazzi del vivaio rossoblu negli anni di Weisz.
L’importante, in ricerche come queste, è non demordere mai. Ed essere convinti che ogni strada, persino la più assurda, possa aprirne di nuove. Vale tentare. E così, se non ho trovato gli elenchi telefonici dell’epoca, quando ancora cercavo l’indirizzo dei Weisz, o se non ho ricevuto soddisfazione dalle foto della Cineteca di Bologna, per le quali devo comunque un ringraziamento ad Angela Tromellini, la strada della scuola è stata decisiva.
A un certo punto, benché stessi ampliando le nozioni sul Weisz allenatore e cercassi di farmi un’idea sul clima sociale e politico di quegli anni, continuavo a mancare di elementi che mi avvicinassero alla famiglia. Dall’Ungheria, malgrado l’eccellente e generoso sostegno del giornalista Tamas Misur, scaturiva poco. All’archivio del Comune di Parigi, città in cui si sosteneva che Weisz avesse lavorato, non risultava che avesse preso la residenza, anche qui nonostante la cortesia del personale.
Dicevo: la chiave è stata la scuola. O meglio, ho ragionato sul fatto che Roberto Weisz, essendo nato nel 1930, avesse frequentato la prima e seconda elementare a Bologna. Il punto era stabilire però dove, in quale istituto: attraverso uno stradario dell’epoca, reperito nel solito Archivio di Stato, ho potuto individuare le scuole Bombicci, sentiero poi risultato giusto. Quando ho chiesto di visionare gli archivi, tuttavia, mi è stato risposto di richiamare dopo sei mesi. Dispiaciuto, sì, ma pure molto fortunato, perché quanto cercavo non stava in quel posto e ho guadagnato tempo nel cambiare meta.
Tutti gli elenchi delle classi elementari di Bologna sino agli anni Sessanta, con nomi e cognomi degli allievi, sono sepolti in una cantina di un edificio periferico, alle scuole Giordani, come neanche immagina il Provveditorato agli studi interpellato in via preventiva. Il vantaggio di avere una sorella insegnante mi ha permesso di mettermi in contatto con colleghe e bidelli gentilissimi. Li ringrazio.
Una mattina, sempre di buon’ora, sono stato lasciato nella polvere di quei registri, dopo essermi visto aprire una porta chiusa da chissà quanti anni. Tra i tomi, con il battito accelerato, ho individuato quelli del 1936 e del 1937. E all’interno, compulsando i nomi con ansia, quello di Roberto Weisz. Che dire? A quel punto mi rimaneva solo il compito di trascrivere i nomi dei compagni di classe di Roberto. Vuoi mai sperare che…
Ho incrociato i nominativi del registro e l’elenco telefonico, per vedere se scaturiva qualcosa. L’elemento a mio favore è stato che si trattava di una zona stanziale, in cui molti sono rimasti a vivere, la sfortuna è che diversi di quei bambini del 1930 non ci sono più. Dopo quattro o cinque telefonate infruttuose, è successo quello che non mi scorderò mai.
Dall’altra parte c’era Giovanni Savigni. Alla mia domanda se il nome di Roberto Weisz gli ricordasse qualcosa, ha esitato un attimo. Il tempo di riprendere fiato e di raccontarmi che era stato il suo amico d’infanzia, che da settant’anni cercava qualcuno in grado di raccontargli la fine del compagno di gioco. Che aveva pure sollecitato i figli a fare delle ricerche per suo conto, accanto ai libri inutilmente sfogliati alla ricerca di qualcosa che nessuno aveva mai raccontato.
Mi sono proposto di svelargli il seguito della storia, a condizione che avesse avuto voglia di sentire un racconto tragico. Ha accettato e in cambio mi ha ricevuto a casa sua, con una moglie deliziosa che mi offriva tè e biscotti mentre lui estraeva dal passato ricordi e pensieri. Poi mi ha mostrato alcune fotografie di Roberto e Clara Weisz e le lettere inviate dalla Francia e dall’Olanda.
Giuro: da brividi.
No, di più. Ho sentito caldo e freddo. Ho capito che stavo entrando nel secondo tempo della partita, nella parte decisiva della storia. Non parlavo più solamente di nomi scritti su carta, ma di fatti vissuti, di emozioni reali. Segno del destino, in quelle ore mi arrivavano dall’ufficio storico dell’anagrafe di Bari data e luogo del matrimonio di Weisz, oltre ai nomi dei genitori e dei suoceri.
Dal tesoro che mi aveva dato Savigni, apparivano chiare due cose: Weisz non aveva mai lavorato a Parigi, bastava infatti leggere le lettere della moglie per rendersene conto, e al contempo bisognava spostare la ricerca sull’Olanda.
Ho accantonato i libri sul calcio francese dell’epoca e un pomeriggio ho invece telefonato agli uffici della squadra di calcio del Dordrecht, i cui numeri ho puntualmente trovato su Voetball International, bibbia locale del football. Mi auguravo che almeno lì Weisz avesse lavorato e non ci fosse arrivato da profugo, come capitava alla maggioranza degli ebrei d’Europa nel 1939. Mi ha risposto Olaf Ouwerkerk, direttore generale del club, con il quale avrei avviato un fitto scambio di contatti.
Alla mia domanda se conoscesse Weisz, mi ha fatto rimanere un attimo in attesa e ha ripreso un attimo dopo a parlare: «Ha detto Weisz, giusto? Sto vedendo qui una fotografia della formazione del 1939 e c’è anche lui». Due settimane dopo, in automobile, stavo entrando tra le strette vie di Dordrecht.
L’Olanda ha significato tanto, perché mi ha permesso di chiudere questo libro. Fino a quel punto non avevo mai parlato con nessuno che avesse avuto modo di conoscere da vicino Weisz. Qualcuno che avesse scambiato qualche parola con colui che era ormai diventato il mio obiettivo. Quando l’anziano dirigente del club, Wim Verzyl, ha iniziato a raccontarmi di Arpad e della moglie, del fatto che si ricordasse benissimo dei due figli, gli stessi che io avevo visto fotografati a meno di mezzo chilometro da casa mia, ho provato qualcosa d’intenso. Ascoltavo in religioso silenzio.
Poi Olaf Ouwerkerk, che è stato un cicerone insostituibile, mi ha fatto il regalo più grande: ha provato dall’ufficio della sede a chiamare Nico Zwann, uno degli ultimi giocatori allenati da Weisz. Non cancellerò mai dalla mente quegli attimi: «Sono stanco, non sto bene, ma sono tanti anni che non sento il nome di Arpad Weisz. Dica al giornalista italiano di venirmi a trovare, gli parlerò volentieri». Sono finito a casa sua, ospitato nel salotto con la moglie, i ricordi. Una strana solidarietà tra di noi.
La stessa tensione che ho avvertito visitando Westerbork. Mentre ero impegnato a scrivere questa biografia di Weisz, sono tornato a vedere le foto della guida, mai tradotta dall’olandese perché forse parlano di più le immagini. In vita mia non ero mai stato così vicino al male. Lì, nella saletta dedicata alla memoria, aperta generalmente ai parenti delle vittime, un impiegato mi ha mostrato, con la sensibilità di chi è abituato a convivere con la sofferenza altrui, gli elenchi dei deportati ad Auschwitz, fino a ritrovare l’esatto numero di treno dentro al quale furono sospinti i quattro componenti della famiglia Weisz.
A proposito di questo, in Olanda ho pure scoperto l’ultimo dei tasselli. Ho sciolto il rovello per cui non mi davo pace. Come mai Elena Rechnitzer o Elena Weisz, nome da sposata, non rientrava nella lista dello Yad Vashem, al contrario del marito e dei figli? Anche qui avevo fatto una serie di congetture sbagliate: che fosse sopravvissuta? Che magari fosse stata banalmente a comprare il latte quando arrivarono le SS a prelevare gli occupanti della casa? Nulla di tutto ciò, purtroppo. Semplicemente, Elena era registrata in Olanda con il suo nome originale, Ilona. Un paio di lettere che non hanno cambiato l’esito della vicenda.
Proprio a lei, Elena o Ilona, è legata la mia ultima, irrisolta curiosità. Riuscire a vederne una fotografia, visto che è l’unica di casa rimasta senza un volto. Sono pronto a battere altre piste per scovarla, ma chiedo già aiuto a voi che leggete.
[fine]