9 maggio 2013
Ogni anno, dal 1909, maggio è il mese degli appassionati della bicicletta, tutti chiamati all’appuntamento con il Giro d’Italia. Una lunga corsa ciclistica a tappe che racconta e riflette, nel bene e nel male, la storia del nostro paese.
Ezio Raimondi, illustre studioso della letteratura italiana e decano dell’Università di Bologna, rievoca la sua giovanile vocazione alle due ruote ricordando la prima apparizione del Giro nella sua vita.
La mia prospettiva sarà semplicemente quella di un ciclista. Ha ragione, a questo proposito, Marc Augé quando dice che non si può parlare di biciclette senza parlare di noi stessi, perché la bicicletta fa parte della nostra storia: il momento in cui abbiamo imparato ad andare in bicicletta appartiene agli episodi e ai ricordi speciali della nostra infanzia e della nostra adolescenza.
E io appartengo a una generazione – quella degli anni Venti e Trenta del secolo passato, ormai lontanissimi – per la quale avere la bicicletta rappresentava sempre il conseguimento di un sogno, mentre non possederla significava una grave mancanza in quella tavola di valori che sussisteva anche tra i gruppi giovanili.
Nel mio caso poi la cosa si complicava, perché vigeva in casa mia un veto riguardo alla bicicletta. Quello da cui venivo era un mondo popolare, nel quale la bicicletta era uno strumento di lavoro. E proprio lavorando, mio padre, un bravo calzolaio, aveva avuto un incidente, a seguito del quale aveva tratto le ragioni per escludere per il proprio figlio l’uso della bicicletta.
Quindi per un certo periodo dovetti cercare la bicicletta presso qualche amico, in prestito – non in affitto, perché mi mancavano i danari – e la cosa era difficile perché richiedeva una serie di atti diplomatici, complicati anche dal fatto che, durante il fascismo, occorreva pagare un bollo di circolazione.
Fu così che mia madre capì che, quando parlavo di passeggiate a piedi nei pomeriggi domenicali, in realtà uscivo procurandomi la bicicletta e tornavo in orario per non essere scoperto.
Sta di fatto che io ebbi una bicicletta personale, sportiva, azzurra, addirittura con il cambio, solo alla fine del ciclo magistrale, pressappoco fra i 16 e i 17 anni. Fu acquistata, tra l’altro, presso un meccanico bolognese giunto alla notorietà perché una sua bicicletta era stata usata da un corridore che aveva vinto una gara in pista, e quindi era una bicicletta consacrata da una gloria vittoriosa. E fu per me una conquista straordinaria.
Ma più di questo antefatto, ciò che conta è che cosa accadde quando imparai ad andare in bicicletta. Non fu soltanto l’acquisizione di una virtù, di un’abilità che poi si esibiva nelle evoluzioni, come l’andare senza le mani, e in tutta una serie di piccole cose inventate nelle gare infantili. Più di tutto questo, ciò che mi colpì istintivamente era che andando in bicicletta entravo in un altro mondo. Non era più il mondo corrente di quando camminavo.
Sentivo allora – il termine diventerà di moda, per altre ragioni, tanti anni più tardi – di navigare nell’aria. Avevo il senso delle braccia che premevano sul manubrio come un’entità che a un certo punto poteva essere quasi una sorta di ala. Non era soltanto un navigare, era sentire l’aria, attraversarla, riconoscere il vento nascosto nell’aria naturale, e quindi scoprire un’altra realtà che si aggiungeva a quella quotidiana.
Non avevo letto ancora l’Oriani de La bicicletta, il libro del 1902, per quanto vi fossero – e si è riconosciuto tardi – tutta una serie di intuizioni: quando Renato Serra aveva parlato di quelle pagine vi aveva scoperto tratti singolarissimi, operazioni psicologiche e descrizioni. Soprattutto nella prima parte del libro, nella quale si faceva un’analisi fra sociologica e fenomenologica dell’andare in bicicletta, in un momento in cui tanti fatti non erano ancora diventati evidenti, per una volta l’Oriani riusciva talvolta a smettere il suo linguaggio sublime e a trovare un’espressione più accessibile e più chiara.
Diceva che la fatica della bicicletta “resta un gioco: è piccola, lieve, muta. Vi si è in bilico eppure si cessa di avvertirlo”. E aggiungeva ancora: “la bicicletta è una scarpa, un pattino, siete voi stessi, è il vostro piede diventato ruota, la vostra pelle cangiata in gomma che scivola sul terreno, allungando il vostro passo da settantacinque centimetri a otto metri, cosicché ogni chilometro non è mai più lungo di due minuti”.
Il mezzo è insomma qualcosa che continua il corpo e ne adopra l’energia, “siamo noi”, scriveva sempre Oriani, “che vinciamo lo spazio e il tempo”, con un sentimento in cui il correre è come un volare. Sicché “il piacere della bicicletta è quello stesso della libertà, forse meglio di una liberazione”, di uno sciogliersi dai modi correnti, dal grigio abituale, per cui vi si ritrova la “poesia istintiva di una improvvisazione spensierata, mentre una forza orgogliosa ci gonfia il cuore nel sentirci così liberi”.
E per la verità io mi sentivo libero, soprattutto perché mi sottraevo al controllo affettuoso di mio padre. E la seconda liberazione era questa apertura dei sensi, un vedere le cose in modo nuovo, che mi porterò dietro per tutta la vita, un paesaggio che muta, qualche cosa che diventa diverso, una nuova percezione, come compresi poi in seguito quando ebbi il primo incontro materiale con il Giro d’Italia.
C’era, nell’andare in bicicletta, una sorta di novità, un andare insieme con altri, un’amicizia che diventava gara, ma gara pacifica. Non ci si scontrava, ci si superava. Quasi sempre le cosiddette escursioni finivano in una sorta di volata finale in cui vi erano un vincitore e un perdente, che però subito dopo si ritrovavano a bere l’acqua o, quando andava bene, una gazzosa.
È inevitabile a questo punto che il Giro arrivasse sino ai ragazzini, che gareggiavano fra loro con la bicicletta, ed esibivano orgogliosi, come una sorta di arma privilegiata, il commutatore, il cambio. È difficile dare il senso di quegli anni, dove le cose più semplici diventavano ragioni straordinarie, e, anche senza aver letto i grandi scrittori, la mitologia era in atto, veniva dall’istinto, come osservava lo stesso Oriani.
Ho ancora il ricordo – la memoria è fatta di piccole immagini disperse in una sorta di buio totale, che inventa e che invita alla fantasia e quindi alla falsificazione – ho ancora il ricordo di un giorno alla Montagnola, la collinetta di fronte a piazza VIII Agosto a Bologna, che ai primi del Novecento era stata luogo di corse in bicicletta, un giorno in cui si fece un Giro d’Italia di resistenza, che consisteva nell’andare a piedi, percorrendo giri su giri.
A ciascuno toccava un ruolo preciso: e a me toccò di impersonare Giuseppe Martano, uno scalatore che aveva preso parte a diverse edizioni del Giro, in un caso arrivando addirittura secondo. L’imitazione del Giro arrivava fino agli aiutanti, che si riducevano a questa opera: ritiravano il fazzoletto, non so quanto pulito, del corridore, – che però andava a piedi, in quel caso, e quindi l’operazione era già simbolica – lo immergevano nell’acqua e lo consegnavano di nuovo al corridore, che lo metteva in bocca e riprendeva la sua volata.
È significativo che fosse un giro di resistenza e non di velocità. Indicava il legame stretto della bicicletta, e di ciò che essa rappresentava, con il lavoro di una società povera, ancora largamente rurale. E infatti probabilmente si potrebbe dire che attraverso la bicicletta i ragazzini entravano nel movimento di modernizzazione che cominciava allora, nei processi di trasformazione di un mondo rurale con le vecchie abitudini, anche se in questo caso la tradizione si immergeva nella sua rappresentazione simbolica, che era la gara.
Non ricordo bene come si definisse il nostro rapporto con il Giro. Non c’era bisogno dei giornali, anche se nel mio mondo arrivavano “Il Corriere” e “La Stampa”. Ma l’esperienza diretta, direi la vita vissuta, prevaleva sulla cultura, era un altro modo di essere che si aggiungeva a, e perfezionava, quella che era la maturazione personale. In fondo è vero quando si dice che la bicicletta rappresentava un momento importante nella formazione dell’identità giovanile. Come avrebbe detto Augé, con la bicicletta ognuno di noi cominciava ad avere un rapporto diverso col corpo, ne conosceva certe qualità che aveva ignorate, acquistava un senso potenziato di sé stesso, tanto più se vi si aggiunge l’esperienza dell’aria, della densità, della vita circostante.
Ma – ancora più importante, almeno nella mia piccola storia personale, la storia di un ciclista, una storia ordinaria, come avrebbe detto Renato Serra – la bicicletta era anche un modo per entrare in rapporto con il mondo del Giro. Una mattina – non ricordo più esattamente se la scuola era finita prima proprio per questo – un piccolo gruppo della classe fu portato nella circonvallazione dove passava il Giro.
Era la prima volta che incontravo, nella realtà concreta, il Giro, che consisteva nel passaggio del gruppo dei corridori ancora riuniti – svoltavano poi per la strada di Modena – e seguiti dalla carovana pubblicitaria. Non c’era applauso da parte della piccola folla riunita, c’era invece, dalla mia parte, una sorta di stupore per una novità: somigliava, a istinto, a quello che provavo quando arrivavano, solitamente tedeschi, i grandi circhi e trovavano alloggio in piazza VIII Agosto.
Ma la cosa che più mi colpì fu il mondo dei colori in movimento, le biciclette che sgusciavano scivolando in una sorta di silenzio, il flusso in avanti, l’andare quasi in un altro mondo, in un altrove: non tanto il risultato, la fine del viaggio, quanto il movimento, il corso, la durata. Istintivamente sentivo di trovarmi di fronte a quello che è il flusso del vivere.