13 maggio 2014
Un bel giorno, stanca di conservare il brodo in un cartoccio, “la Maria” chiede al marito: inventami una macchina che impacchetti il glutammato. Nasce così, a Bologna, il dado da brodo. E nasce così la tradizione del packaging, che oggi cerca di resistere alla crisi. A raccontarci la storia è Marinella Manicardi, attrice e autrice teatrale, che ne ha tratto uno spettacolo appassionante.
Qui dobbiamo far passare qualche anno: sei, sì, forse sei.
Nel frattempo sono cambiate molte cose. Luigi Gozzi, mio marito, maestro, compagno d’arte e di giochi, è morto. Il teatro delle Moline, che avevamo inventato e diretto insieme per più di trent’anni, è entrato a far parte di Arena del Sole, il teatro stabile di Bologna, e il progetto sulla storia economica della città è rimasto in un file del mio computer.
Ma a Paolo Cacchioli, direttore artistico di Arena, con il quale discuto ogni anno lo spettacolo da produrre, l’idea piaceva molto. C’era già stato un mio primo spettacolo sul lavoro, Luana prontomoda, dedicato all’impero delle paglie e delle maglie di Carpi, nella Bassa padana. Da sette anni lo replico, in molte città italiane, anche in Belgio.
Forse adesso era il momento giusto per riparlare di nuovo di lavoro e questa volta il soggetto poteva essere Bologna, rileggerne la storia, soprattutto togliersi di dosso una sensazione di città che sta perdendo il suo orgoglio, la sua dignità, il suo senso civico, il suo futuro.
– Bologna non è più quella di una volta!
– Quando ero giovane io, sì che si stava bene, tutte le sere fuori nelle osterie, di notte.
– Adesso non puoi più girare di notte, ci sono i tossici, i punkabbestia, gli spacciatori.
– Vivere a Bologna costa troppo, e poi è sporca, guarda i muri con tutte quelle scritte.
– Dopo le otto di sera non ci sono più gli autobus, poi tanto non c’è mai niente da vedere.
– Perché non chiudono il centro storico alle auto, come in tutte le altre città?
– Pensa te che vogliono chiudere il centro storico! Va a finire che falliscono tutti i negozi!
– Città di bottegai!
– Città che sfrutta gli studenti, con gli affitti in nero e gli happy hour per ubriacarli.
– Non c’è più il partito che controlla tutto, adesso ci sono le mafie, infiltrate anche in…
E la città con il consumo culturale tra i più alti d’Italia? E l’orgoglio di essere diversi? Rossi e commercianti, tolleranti e organizzati, colti ma poi si va a ballare? E la tenacia che porta tutta la città il 2 agosto da trent’anni davanti alla stazione per chiedere di togliere il segreto di Stato sulle stragi degli anni di piombo? La città che ha tra gli atti fondativi il Liber Paradisus e che ha creato la più antica università del mondo? Va be’, forse la seconda, ma a Carducci possiamo perdonare la bugia.
Sì, forse era il momento giusto per raccontarla, la storia di Bologna.
E la Maria dei dadi da brodo mi sembrò la guida giusta. Chiesi a Federica Iacobelli, una scrittrice più giovane di me, una come me “di fuori”, di costruire insieme questo racconto.
Quando cominciammo a scrivere, pensammo che il nostro racconto doveva essere emblematico, non proprio vero vero, tant’è che non abbiamo intervistato la vera Maria Corazza, il testo del video era già sufficiente per lo spettacolo. Il resto dovevamo inventarlo noi. Documentarci, certo, ma anche mantenere un distacco. Empatia e distacco, ecco, questa era la chiave.
Un esempio: un giorno, entrando in un negozio, sento una signora che racconta qualcosa ai due commessi. Per me, lo confesso, è irresistibile ascoltare i discorsi degli estranei, tanto più se le parole sono precise, pausate, dette con la padronanza di chi le ha già limate, misurate, ripetute molte volte fino a raggiungere un equilibrio perfetto. È come quando guardando le mani di un violinista o di un falegname esperto capisco che non c’è nessun gesto superfluo, nessuno spreco, ogni tensione inutile è stata eliminata, resta solo il piacere di eseguire una musica o un intarsio, sapendo esattamente come condurre l’archetto, lo scalpello, il racconto.
– E pensi che io non andavo spesso a ballare, ma quella sera lì chissà, era destino, si vede. Fa una mia amica: “Andiamo alla sala Sirenella, stasera? Ballano il bughi-bughi…”. Ho detto: “Va bene, andiamo pure”. Entro nella sala, c’era gente ma neanche tanta, vado su in galleria, prima voglio dare un’occhiata dall’alto per vedere la mossa, chi c’è chi non c’è. A un certo momento vedo due che ballano, lui un più vago figurino! Mo che ballava d’un bene, d’un bene! Ho detto, ma questo chi è? Mo dio come balla! Un’eleganza, una signorilità! E lei, quella che ballava con lui, una piuma: ahia, ho detto, è sposato! Però, come balla bene… A un certo momento lei gli fa un gesto come per dire: “Che male ai piedi!”. Ho detto, allora arrivo io. Sono andata giù in sala, ho guardato dove era seduto, sono andata al bar, ho ordinato un Martini, io non bevo mai, ma ho detto: stavolta devo tirarmi su e poi volevo passargli davanti, cosa passo con un’aranciata? Quando lo vedo lo guardo. Lui mi guarda. Faccio un giro per tornare verso il bar. Lui arriva e dice: “Scusi signorina, sa ballare?”. Mi sono voltata verso il barista, gli ho ridato il Martini: “Bevilo te, a me non serve più”. Se sapevo ballare? Siamo rimasti insieme quarant’anni!
Il racconto era finito, i due commessi affascinati e io con loro. In fondo tutti vorremmo vivere un incontro come questo: incontrare un uomo o una donna che ci affascinano, temere ostacoli al nostro desiderio, decidere che niente e nessuno ci fermeranno. E dirsi, quarant’anni dopo, che quell’intuizione era giusta.
Quando succede, se succede, si può solo ringraziare la vita per questo regalo.
Può succedere anche nel lavoro, o in teatro: senti che l’azione da compiere, l’unica azione da compiere, è quella. Non c’è spiegazione razionale, quella arriverà dopo, forse, ma in quel momento devi seguire il lampo, la scintilla, lo sbuzzo si dice nella Pianura Piatta, mai disgiunto dall’usta.
Sbuzzo (sostantivo maschile) = pancia, involucro; sbuzzare (verbo transitivo) = aprire, sventrare, far uscire il contenuto.
“Avere sbuzzo, ci vuole sbuzzo” significa nella Pianura Piatta avere il coraggio di non fermarsi all’involucro, far emergere il nucleo interno e pulsante.
Usta = origine incerta, forse avvertire odore di bruciato, oppure sentire l’odore della selvaggina.
Nella Pianura Piatta “avere usta” è possedere tecnica manuale e capacità di osservazione visiva. Ma anche non compiere azioni avventate.
Tornata a casa mandai subito una mail a Federica: “Trovato l’incontro tra Maria e suo marito Natalino. Allego file. Baci. M”.
Era inventato? Poco importa, era perfetto!
Proprio perché la storia della Maria dei dadi non era identica a quella di Maria Corazza, non avevamo pensato di invitarla allo spettacolo, anche nel timore, devo dirlo, di veti o intromissioni. E poi la nostra storia doveva essere emblematica, simile a quella di tante altre Marie. E comunque la Maria vera non abitava più in via Mascarella, aveva compiuto novant’anni, non viveva più da sola.
Però, sapevo che ogni tanto il suo ragazzo la accompagnava ancora a Venezia.
A metà aprile, alla fine di una replica dello spettacolo al teatro delle Moline, come spesso succede, si fermano alcuni spettatori. Stringo mani, ringrazio per le lodi, rispondo a domande e mi accorgo che dietro tutti, ferma in piedi, c’è una signora con una blusa ghepardata, collane e orecchini sicuramente costosi, l’aria severa, quasi dura. Escono tutti. Rimaniamo sole nel retropalco del teatro: “Mi riconosce?”. La voce è ancora più perentoria dello sguardo. Annaspo, non mi piace non riconoscere le persone, so che tutti, anch’io, vogliamo essere ricordati, possibilmente per sempre. Sfoglio velocemente la memoria dei visi, poi il tono della voce, il corpo grassottello ma sodo, il taglio dei capelli: “Certo lei è la figlia di Maria Corazza! L’ho riconosciuta subito!”. “Sono io, sì, sono venuta a vedere lo spettacolo”. Pausa. Trattengo il fiato. In pochi secondi che si dilatano come ore, penso alle conseguenze di un suo giudizio negativo. Penso: se non le è piaciuto, può bloccarci lo spettacolo? Penso: sono stata imprudente, ho messo a rischio non solo il mio lavoro, ma quello di Federica, di Daniele, di Davide, di Pierluigi e Vincenzo, di Paolo: so già cosa dirà Paolo, che è colpa mia, che ho rovinato tutto… “Mi è piaciuto moltissimo. Sono commossa, è proprio la storia vera dei miei genitori e di tutta l’industria del packaging a Bologna”. “Be’, abbiamo inventato qualcosa, la sala Sirenella…”. Mi è tornato il fiato. “Come inventato? I miei genitori si sono davvero conosciuti lì, è tutto vero!”. Questo è un vero colpo di scena e a sipario chiuso! “Voglio portare la Maria”. È sua madre, ma anche lei la chiama la Maria. “Però ci sono anche i nostri amici. Quanto costa comperare tutti i posti del teatro?”. Sessanta posti: per amici, ex e attuali dipendenti Corazza, l’autista e ovviamente lei, la Maria.
La domenica successiva, seduta davanti a me in prima fila c’è Maria Corazza, la Maria vera, mentre io in scena mi gioco La Maria dei dadi da brodo. Credo sia successo a poche attrici di trovarsi di fronte non un personaggio pirandelliano, ma una persona vera di cui si interpreta il ruolo.
Ho sempre pensato che l’attore, l’attrice, tutti gli artisti abbiano una grande responsabilità, perché manipolano una materia fatta di fascinazione, persuasione, seduzione mista a tecnica, intelligenza, conoscenza. Materia incandescente o lieve, distruttiva o assolutoria, che ti scava baratri dentro o ti apre gli occhi su qualcosa che cercavi, che era lì, ma non vedevi. Lo so, ci sono duemila anni di storia e teoria del teatro su questi argomenti. Mi fermo.
Preferisco raccontarvi lo sguardo tra l’incredulo e il divertito della Maria durante lo spettacolo. A me sembrava una gatta curiosa che vede la sua immagine nello specchio e non capendo, o non fidandosi, vorrebbe sporgersi per vedere qual è il trucco.
Fino a sciogliersi negli applausi, festosi, ripetuti, diretti a me e a Daniele, in scena, e contemporaneamente a se stessa e ai suoi amici in platea. Grande emozione e grande buffet, dopo, per stemperare la tensione.
Anche dopo lo spettacolo Maria Corazza mi osserva a lungo, la sua attenzione non è sempre lucidissima, ora. Prima di andarsene però mi tocca un braccio, vuole che guardi il suo anello, non il brillante, no, sotto, sotto l’anello d’oro, mi mostra un piccolo cerchietto di ferro. “Vedi” dice, “questo me l’ha regalato Natalino, non aveva i soldi per comperarmi l’anello di fidanzamento, allora l’ha fatto lui, con un chiodo, in officina. Ce l’ho sempre con me”.
[fine]