Si chiama “Gli ultimi giorni di Lodovico Antonio Muratori” il brano che prendiamo da un libro bellissimo di Piero Camporesi, noto storico e docente all’Università di Bologna, che qui racconta, appunto, gli ultimi giorni di vita di Muratori, intellettuale del Settecento al servizio del duca di Modena Rinaldo I d’Este. Gli ultimi giorni di Ludovico Antonio Muratori Chiunque avesse conosciuto il giovane Lodovico Antonio Muratori non avrebbe scommesso un soldo sulla durata della sua vita «tanto era gracile la complessione, tanto infelice la ciera e massimamente nel vederlo indefessamente applicato allo studio». Il tetro pronostico (preconizzato da Gianfrancesco Soli Muratori, nipote e biografo del grande zio) fu abbondantemente smentito. S’irrobustì con le fatiche erudite, si curò con la polvere dei libri, s’immunizzò con il liberatorio sudore della scrittura. Di vista acutissima, di prodigiosa velocità nella lettura, pur fra continue infiammazioni alle palpebre, non ebbe mai bisogno degli occhiali. Diventò cieco, improvvisamente, soltanto negli estremi mesi, ma ormai aveva visto tutto e tutto aveva letto. Quando l’ora lo colse il 25 gennaio del 1750, i suoi occhi non avevano fortunatamente bisogno di altre letture. Arrivò anzi tempestiva e quasi provvidenziale, se non altro per far desistere i medici dalle loro pratiche crudeli e porre fine alle inutili tribolazioni terapeutiche che il fermo e moderato proposto aveva tuttavia accettato con scettica pazienza e cristiana rassegnazione, senza eccessivi turbamenti. Sopportò le loro reiterate sevizie, lui che alla medicina aveva sempre guardato con sorridente compatimento, «invocando solamente il divino aiuto». Altro non poteva fare e con illimitata pazienza accettò che «per tenergli scaricata la testa» gli applicassero i vescicanti alle braccia. Ma non alzò neppure il tono delle preghiere allorché i dolori divennero atrocissimi, quando, perché restassero più lungamente aperte le piaghe prodotte dai vescicanti, <<furono mescolati nell’impiastro, col quale erano curate, dei corrosivi». Forse, durante quegli inutili spasimi, il sereno bibliotecario ducale avrà silenziosamente borbottato quella profana preghiera che l’anno prima aveva affidato alle stampe nella Pubblicafelicità: «Voglia Dio, che in qualche paese tolto affatto si sia da quest’arte [medica] il pericolo di spedire all’altra vita que’ malati che scaz’a1cun recipe da se stessi sarebbero guariti». E mentre vescicanti e corrosivi s’infiltravano nei tessuti rendendogli più penosa l’interminabile agonia, il saggio curato si sarà probabilmente ricordato di quanto lui stesso era solito dire a voce e mcttlft per iscritto: «quando «Ho sempre sentito dire, che ognuno deve morire nel suo mestiere», aveva eletto molti anni prima, l’unica volta che era stato seriamente ammalato, a un celebre medico che lo esortava a moderarsi nelle «letterarie occupazioni». E infatti non era ancora uscito dal letto che aveva già dimenticato quello che il prudente dottore gli aveva ribattuto: «ma non già pel suo mestiere». E per il suo mestiere morì a settantasette anni compiuti, quando i suoi occhi di color ceruleo chiaro si rifiutarono di continuare a posarsi ancora su pergamene e scartafacci. Grande lettore di romanzi in giovinezza e potente sognatore (quando si ammalava i sogni, che di solito arricchivano le sue notti, si dileguavano completamente), l’alacre e indefesso bibliotecario estense era riuscito nell’impresa di risuscitare il Medioevo riesumandolo dai fantasmi di un passato che da solo, con la sua artigianale macchina per montare e rivisitare il tempo, aveva portato alla luce. Lavorando dodici ore al giorno, lui che dalla natura aveva sortito una «debole e poco sana complessione», aveva scovato, raccolto e portato alla luce tutte le fonti storiche dal Cinque al Millecinquecento, descrivendo e analizzando – come amava esprimersi – «la gran fiera del mondo». Con la penna d’oca e alla luce della lucerna aveva condotto in porto un impressionante lavoro che oggi, con tutte le apparecchiature più sofisticate, non sarebbero capaci di svolgere non diciamo i nostri dipartimenti universitari, ma neppure consorzi, fondazioni, enti morali, squadre di cervelli e compagnie associate di ricercatori. Non andò mai in congedo, né mai gli passò per la testa di abbandonarsi a vacanze intelligenti. In contatto epistolare con tutta l’Italia e l’Europa colte, non sentì mai il bisogno del lavoro d’équipe. Non vide mai il mare o, se lo intravvide, non pensò mai di sdraiarsi al sole sulla sabbia e tanto meno di bagnarsi. Non volle mai fuoco nella camera da letto né nello studiolo alla biblioteca estense. Nei giorni in cui la tramontana soffiava più pungente, negli umidi geli del polare inverno padano, si limitava a proteggere le mani con grossi guanti di lana e ad infilare i piedi dentro una pelle d’orso. Quando, intirizzito, non riusciva a tener più la penna in mano, per scongelarsi discendeva quei novantasei gradini che continuò a salire anche negli ultimi anni ritenendolo esercizio giovevole al corpo. Si alzava immancabilmente da letto due ore prima che il sole si levasse. Seduto al tavolino aspettava, leggendo o scrivendo, le prime luci dell’alba: appena il sole spuntava recitava il mattutino e le laudi. Scendeva poi in chiesa a celebrare la messa. Terminato il sacro ufficio, il coriaceo prevosto (attivissimo anche nelle opere di carità) si affrettava a raggiungere la biblioteca ducale dove si rinserrava a lavorare fino a mezzogiorno in punto. Ritornato subito a casa, finiva di recitare le ore della mattina e passava poi alla tavola dalla quale, appena terminato il pranzo, si levava per salire lestamente in biblioteca. Solo d’estate si concedeva, dopo desinare, un’ora esatta di riposo. Si nutriva con «cibi ordinari» accompagnati da vino leggero. Non ignaro che «la vite produce tre uve: la prima del piacere, la seconda dell’ubriachezza, la terza del dolore e della pazzia», cercò sempre di tener lontano «questo troppo amato e dolce diavolo». «Veleni saporiti e ben preparati» erano per lui le «vivande squisite», i «liquori gagliardi» e le «tante salse, saporetti e invenzioni del gran sapere degli Apici de’ nostri tempi che si pregiano d’aver superato l’arte cucinatoria di tutti i vecchi». Si teneva lontano dalle vivande speziate e disprezzava le carni di maiale, salsicce, cervellati, braciuole, lonze, mortadelle nonché i salami dai sinistri riflessi rossastri (<<omnes sperno brasollas, / sulzizamque finam, cervellatos potentes, / et mortadellas, lonzas, rossosque salamos» confessò in un momento di vena macheronica). Nato a Vignola, nel circondario di Modena, aveva in parte voltato le spalle al cibo etnico e al folcIore gastronomico della sua terra. Aveva però anche lui le sue debolezze: andava tanto matto per le frittelle (<<sola fritella placet, solas mangiare fritellas opto») che si lasciò andare a scriverne una elaborata e sontuosa ricetta in versi folenghiani, il modus jritellizandi. Frittelle dolci di ricotta, uva passa, farina, cannella, fritte nel burro e, tolte dalla fiamma, cosparse di miele, medicina principe per ristorare le forze perdute: … tantis languoribus aegri Haec medicine fuit: nam mox fecere valentem Ritornare virum bravoque vigore godere. Apprezzava in sommo grado il pane e tutto ciò che dal frumento si poteva utilizzare e ricavare, le sfoglie e le paste e i dolci in tutte le loro innumerevoli versioni: torte, tortelli, tortellini, gnocchi, crescentine, lasagne, tagliatelle, vermicelli, pasticci, spongate, ofelle, sfogliate, stiacciate, borlenghi, tutta la doviziosa cornucopia emiliana che aveva sciorinato nel Farinae elogium iuxta dapes ex ea confectas. Rispettava però rigorosamente i digiuni comandati e le vigilie di precetto, mangiando nella modestissima refezione serale soltanto pane e uva secca, oppure della semplice insalata. Si purificava immancabilmente nel mese di maggio, privandosi della solita modesta razione di vino e bevendo solo acqua. Esercitava su se stesso uno strenuo controllo, mai dimenticando che «niuno è proprio pel Reame de’ Cieli, se non chi sa fare violenza a se stesso», e ricordando a sé e ai suoi parrocchiani il detto dei vecchi modenesi che «colla voglia cresce la doglia)). Strenuo lavoratore, applicava alla lettera l’ammonimento dei Santi Padri: «fa che il diavolo ti truovi sempre occupato» e l’altro, parallelo: «chi fatica è tentato da un Demonio, chi sta in ozio da mille)). Aborriva l’ozio e diffidava delle forze oscure che s’insediavano nelle «immaginative illuse)), agitando e perturbando i «movimenti dell’anima)), guidandola nel paese delle illusioni dove splendevano i «fantasmi delle cose». «Perciò», ammoniva nella Filosofia morale, L‘applicazione allo studio delle lettere, a i lavorieri, a i leciti affari e l’abbandonare per poco anche la solitudine, se questa mai servisse ad eccitare e nudrire immaginazioni sconce, riuscirà antidoto insieme e rimedio alla fantasia delirante, perché oziosa. Infaticabile e metodico tanto da fare invidia a Kant, misuratore delle ore e dei minuti come un perfetto orologio, maestro perfetto nell’impiego del tempo, detestava in egual misura e i nobili che si applicavano al «delizio8o mestiere del non far nulla» e i falsi mendicanti, i falsi bonIoni, i falsi poveri, gli oziosi, i poltroni e i vagabondi dediti alla «dolce professione del questuare». «Ho veduto», confessava nel Della puhhlicajelicità sferzando chi «a motivo solamente di birbanteria porta il bordone», cioè i falsi pellegrini, «la prigionia e il pane e l’acqua far de’ mirabili effetti di conversione … ». Gli spiaceva a tal punto la «vita molle e disoccupata» che quando andava in villeggiatura, ospite di qualche ricco amico, «per l’ordinario non faceva che leggere i libri sempre in gran copia portati, o scriver lettere, ovvero comporre gl’indici dell’opere che aveva sotto il torchio». Frutto di questi ozi di villa furono, fra l’altro, le Osservazioni sopra le rime del Petrarca. Nel 1713, mentre si godeva sulle colline modenesi i «deliziosi soggiorni e le grazie del marchese Filippo Coccapani», trovò il tempo di scrivere fra la passeggiata del mattino e quella della sera (suoi massimi passatempi) il poderoso trattato sui «tre governi» della peste immergendosi nei più turpi orrori, dimentico delle dolcezze del paesaggio e delle raffinatezze dei suoi nobili ospiti, tutto calato in quei desolati paesaggi di morte e di sfacelo quando, al dire di Gaspare Bugati, «non bisognava in sì fatti accidenti rimedio più opportuno che le tre lettere di F: cioè ferro, fuoco e forca». Uomo dalla maniera di vita rigorosamente controllata fin nei più minuti particolari, lucidissimo esploratore dei bui meandri del passato, razionale dominatore di ogni sregolata e spropositata fantasia e delle sue «incoerenti, slegate e ridicole commedie», quando si abbandonava al sonno veniva trasportato quasi ogni notte nel «maraviglioso paese» in cui si stipavano le «stravaganti peripezie del cerebro umano», là dove «ci par di volare e di passare sopra fiumi a piede asciutto», o di «veder persone note a cavallo corbettare per l’aria». Il disordine notturno si prendeva la rivincita sull’ordine diurno di chi aveva sempre cercato di legare la «matta di casa», la incontrollata fantasia, e di esorcizzare i suoi sfrenati fantasmi. Spesso, in sogno, gli pareva di non riuscir a ritrovare nel suo ordinatissimo studiolo la sacra scrittura. Si aggirava allora per l’immensa biblioteca dilatatasi in labirinto e andava cercandola «in certa sala colonnata, da me non mai veduta, e in certe scanzie a me affatto ignote». Ma soprattutto il vecchio dottore innamorato in gioventù delle antichità greche e romane tradite in seguito per lo studio dei «secoli bassi e rozzi» si abbandonava a spropositate fantasie piranesiane in cui campeggiavano immensi edifici termali dove acque tiepide aprivano i pori della pelle, la mondavano con delicate carezze e con una intensa sudoraziorre tenevano in meraviglioso equilibrio e perfettamente purificati i fluidi del corpo umano. Il cristianissimo erudito che «amava ancor di sudare nelle stagioni calde per purgare i vasi capillari della cute e la stessa massa del sangue» sognava il ritorno blasfemo alla balneazione pagana o addirittura, preso da deliranti visioni d’Oriente indegne di «una potenza ragionevole», volava sul Bosforo fantasticando d’immergere la sua fragile e cagionevole carne nelle preziose, arabescate vasche della Sublime Porta.
Considerato il padre della storiografia italiana, Muratori è indagato nei rituali della sua vita quotidiana da questo altro grande storico che fu Camporesi (nato a Forlì nel 1926, morto a Bologna nel ’97), bravissimo a scrutare i sintomi della nostra brutale contemporaneità attraverso il filtro di una memoria erudita e volutamente inattuale.
Così, partendo da molto lontano, ne “Il governo del corpo” si parla dell’edonismo di massa, della paranoia delle diete, della decadenza dell’olfatto, della religione del corpo, delle incerte vie del sesso liberato, dell’inquinamento dell’aria, dello sterile consumo delle ore notturne.
Lettura di Fulvio Redeghieri.