Cosa accadde quella volta che l’agente segreto più famoso del mondo mise piede in un bar di Campogalliano? Lo racconta, divertendosi alquanto, Edmondo Berselli, l’indimenticato giornalista e scrittore che, in questa città della pianura modenese, ha mosso i suoi primi passi.
James Bond aprì con un gesto deciso la porta a vetri del bar della parrocchia di Campogalliano. Nebbia fuori e fumo dentro, pensò appena entrato, sfregandosi le mani intirizzite dal freddo umido della pianura. Si diresse verso il bancone e diede un’occhiata intorno, facendo passare lo sguardo fra i tavoli di formica verde dove si giocava qualche briscola non proprio animata. Poi entrò nella sala grande a fianco, domandò permesso con un cenno, e ricevuta una muta approvazione dagli astanti si sedette alla lunga tavola, coperta da un tappeto rosso, dove una dozzina di avventori giocavano accanitamente a gilè.
Le informazioni che aveva richiesto all’archivio del Servizio erano state esaurienti e abbastanza aggiornate, grazie anche alla collaborazione, per una volta, degli americani. Nel perimetro della piazza c’erano tre caffè a loro modo specializzati. C’era il bar dei comunisti, dove nessun democristiano, nessun occidentale, nessun cattolico degno di questo nome avrebbe mai messo piede. Anche le figure umane che lo frequentavano erano particolari: fazzoletti rossi usati come pochette, capannelli che discutevano di politica durante la messa domenicale delle undici, qualche imprecazione di troppo ai tavolini da tressette, oltre a molte sigarette e a potenti dichiarazioni contro il governo e il fascismo che secondo valutazioni correnti sembrava prossimo a tornare.
A due passi di distanza, nel bar dei laici, degli agnostici, moderati socialisti, pallidi liberali, saragattiani non proprio convinti, gente insomma che in genere non si scaldava per gli schieramenti politici, né per il bianco né per il rosso, il clima era più blando, le imprecazioni più moderate: ma c’era pur sempre un atteggiamento di sufficienza rispetto alle cerimonie religiose così come uno scetticismo naturale per i comizi dei rossi.
Qualcuno trovava sempre il modo di sorridere ironicamente allorché dalla chiesa parrocchiale di sant’Orsola uscivano le note degli inni religiosi. Mentre osservava il gioco padano del gilè, diretto, veloce e affascinante come un poker contadino, anche l’agente segreto Bond non poteva fare a meno di sorridere nell’udire l’eco delle pie donne che si esercitavano negli acuti dedicati a Maria Vergine:
Bella tu sei qual sole
bianca più della luna
e le stelle più belle
non son belle al par di te…
Quella sera le monete passavano di mano rapidamente. Facile vedere una coppia di cinque che sbancava il tavolo; o un punteggio alto di carte spaiate dello stesso seme che veniva battuto ironicamente da una coppietta di scartine. «Come dite voi le carte di piccolo valore?», chiese Bond. «Flinghe», rispose uno dei Ranghieri, senza togliersi la cicca dall’angolo della bocca e intascando velocemente una vincita. Piccole fortune si accumulavano e si scioglievano a grande velocità, mentre nella stanza accanto, accostati ai biliardi, con i grembiulini d’obbligo per chi non voleva logorarsi il davanti dei pantaloni, i patiti delle boccette giocavano secondo le vecchie regole: non si colpisce d’acchito quando il pallino blu è “basso”, ovvero sotto la linea mediana del biliardo.
Nell’osservare le semplici ma efficaci smazzate di gilè, accompagnate dalle esclamazioni dei perdenti e dalle risate dei vincitori, e senza sentirsi disturbato dal rumore sordo delle bocce sul tappeto del biliardo, Bond non riusciva a non ripensare alla sua vecchia missione in quel pezzetto semisconosciuto di Emilia.
Erano passati poco più di dieci anni. Bisognava riandare all’aprile del 1945: una parte delle truppe alleate che avevano liberato Modena avevano deviato verso quel paese piccolo, immerso comodamente nella pianura, dove i partigiani avevano fatto sapere che i tedeschi se n’erano andati in furia ma senza combinare guai. Il comando angloamericano aveva avvertito: dovrà esserci un segno di non ostilità, un lenzuolo bianco esposto in ogni casa. Bond e gli uomini del servizio americano erano sopraggiunti la notte prima, per poi informare il reparto operativo. Quasi tutto tranquillo, ma prudenza. Non si sa mai: in qualche paese vicino era successo che i tedeschi avessero lasciato dei cecchini, forse per guadagnare un po’ di tempo nella ritirata.
Eravamo ragazzi allora, si disse Bond, mentre Ivan Codeluppi intascava un magnifico piatto grazie a una puntuale, ben assortita coppia di assi. Di mattina i carri armati alleati erano arrivati alla strettoia che immette nel paese, nella curva dove i pullman quasi si fermavano azionando rumorosamente il clacson, e dopo un controllo a vista avevano proseguito con grande strepito di cingoli verso il centro del paese. Tutto in pace, niente da segnalare, avanti verso la piazza. Solo quando erano arrivati nel centro del paese qualcuno si era accorto che verso la piazza Castello c’era la facciata di una casa che non esibiva il lenzuolo bianco richiesto dal comando angloamericano.
Bond aveva indicato la casa strizzando gli occhi e alzando il mento. Il tank aveva fatto ruotare la torretta, perché gli ordini sono ordini, e in guerra non conviene discutere: e con un solo colpo aveva aperto nella casa una voragine spaventosa. Dal pianterreno erano uscite quasi di corsa due vecchie, nere e spaventate. Qualcuno aveva addirittura applaudito, come se quella dimostrazione di potenza un po’ insensata appartenesse anch’essa alla festa della liberazione, della guerra che finiva. Solo un attimo dopo, dal tozzo campanile della parrocchiale un cecchino tedesco aveva sparato. La folla che si era raccolta a ricevere le sigarette e la cioccolata degli americani si ritrasse precipitosamente verso le case, dentro i portoni.
Una pattuglia di soldati americani salì in silenzio sul campanile. Il tedesco si arrese senza nemmeno provare a resistere. Evidentemente l’avere sparato era stato un atto dimostrativo, un segnale in codice: sono qui, venite a prendermi, la guerra è finita.
«Posso giocare?», chiese l’agente segreto, con il suo accento marcatamente anglosassone. La sua domanda fu accolta da occhiate interrogative. «Bond», disse. «Il mio nome è James Bond». Un paio di mani gli fecero segno che c’era posto. «Sapete giocare a gilè?», chiese uno dei Brevini, convinto che evidentemente il «voi» si addicesse agli stranieri. Bond fece un gesto di sufficienza. Mise in tavola una manciata di monete da cinquanta e da cento lire. Le carte ripresero a girare.
Poco dopo mezzanotte, dopo avere contemplato per qualche istante la sua porzione di tappeto, dal quale tutte le sue monete si erano volatilizzate, Bond si alzò dalla sedia, e disse: «Signori, è tardi». Aveva perso, con una certa dignitosa allegria, diciottomila lire. I giocatori si alzarono e lo videro allontanarsi nella piazza, verso una strana automobile, le mani ficcate nelle tasche dell’impermeabile.
Uno dei giocatori disse: «Mi sbaglierò, ma io quello l’ho già visto».
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