24 settembre 2009
In tempi come i nostri di crisi economica, di degrado ambientale e di mutazione antropologica del “paesaggio umano”, il libro di Simona Vinci che vi proponiamo è un pugno nello stomaco che ci aiuta ad affrontare le nuove realtà. C’è una frase molto illuminante: “Nessuno si vergogna più di essere ignorante, maleducato, cattivo, di essere mediocre, stupido, di essere crudele, incapace di pietà. Nessuna di queste cose fa vergognare. Solo essere poveri. La povertà è la cosa peggiore che possa capitarti”. L’unico metro per misurare un essere umano sono i suoi soldi, da quelli consegue tutto il resto. Come la storia che la Vinci racconta in questo bellissimo romanzo.
C’è una donna che corre lungo la Strada Provinciale 3 che collega Modena a Ravenna. Sola, con un zainetto sulle spalle, calpesta “l’asfalto crepato e ruvido, pieno di mozziconi di sigarette preservativi, piume d’uccello, chiodi, bulloni”; ai bordi della strada, le fabbriche e i camion che sfrecciano feroci. Una donna che fugge e che, dentro di sé, deve trovare ragione della sua fuga. Il fuori di sé è altrettanta malattia. Gas, immondizia, macchine, TIR. Luoghi inquinati. Un paesaggio scompaginato e desolante dove Vera, la protagonista, incontra altrettanta gente ‘inquinata’, ammalata di spavento e di solitudine, di indifferenza. L’anziano Mario, in pensione, che aggiusta vecchie radio, la donna al semaforo che attende le monete, il camionista ucraino Dimà, unico sopravvissuto a un incendio familiare voluto dalla madre, nel quale sono morte le sue sorelle. I tre personaggi si ritroveranno insieme nella casa del vecchio Mario, uniti, pur nella diversità, da un destino comune: sono persone sconfitte, povere, sole, sono i nuovi “ vinti” di una società che non ha tempo, né voglia, di badare a chi non è dentro il gioco del successo e del denaro.
Simona Vinci è nata a Milano nel 1970. Vive a Budrio, in provincia di Bologna. Laureata in Letteratura Italiana Contemporanea all’Università di Bologna con una tesi intitolata Una scrittura del paesaggio. Il suo primo romanzo, Dei bambini non si sa niente (Einaudi – Stile libero, 1997) ha suscitato diverse polemiche, ottenendo un grande successo di pubblico e di critica ed è stato tradotto in quindici paesi, tra i quali gli Stati Uniti, il Giappone e la Cina. Sempre per Einaudi sono usciti la raccolta di racconti In tutti i sensi come l’amore (Stile libero, 1999) e i romanzi Come prima delle madri (Supercoralli, 2003), Brother and Sister (Stile libero, 2004) e Stanza 411 (Stile libero/Big, 2006). Nel 2007 ha pubblicato Rovina, nel 2008 Nel bianco e, infine, Suino pesante padano nella raccolta di racconti gialli Il gusto del delitto, Leonardo Publishing.
Strada Provinciale 3
Capitolo Cinque
Sulla Provinciale 3 a quest’ora non c’è quasi nessuno. È domenica. La luce batte sul vetro posteriore del camion, sul tetto, sta cominciando a calare, tra poco il sole sarà un disco arancione che scivolerà rapido dietro l’orizzonte, sembrerà sciogliersi sulla superficie dei campi, un liquido appiccicoso, troppo denso, che la terra non sarà capace di assorbire.
Dimà guida nei limiti, senza mai forzare. Stringe gli occhi per ammortizzare il bagliore del sole e Vera guarda le piccole rughe che gli incidono gli zigomi e fanno immaginare, nel suo volto di ragazzino, quello dell’uomo che diventerà. Lo guarda fino a quando il suo viso si stampa nella sua memoria, potrebbe chiudere gli occhi e descriverlo nei minimi dettagli: la cicatrice sul labbro superiore, la linea bianca che asseconda la forma della sua bocca, quasi fosse truccata, la barba corta e bionda, rada, più simile a una peluria da adolescente che gli copre una parte delle guance, il naso piccolo e carnoso, il neo azzurro su uno zigomo, l’attaccatura dei capelli, dove il colore si schiarisce fino a diventare quasi bianco. E soprattutto gli occhi, quegli occhi meravigliosi, di un colore mai visto prima e impossibile da descrivere senza lasciare indietro qualcosa di fondamentale.
Non so neanche perché io ha chiesto a te venire… adesso pensa ha fatto male…
La guarda di sfuggita, come se si aspettasse di essere confortato, rassicurato, ma lei non risponde, il suo viso resta impassibile, bianco come un foglio.
O forse ha fatto bene, se io mi addormentava era guaio… ma io ha portato te per parole, tu deve parlare, così io resta sveglio, capisce?
Vera volta la testa a osservare un boschetto di pioppi illuminato dal riflesso rosso sangue del tramonto. File dritte e sottili di tronchi infuocati, tremolanti. Poi all’improvviso, la sua voce bassa e scura riempie l’abitacolo del camion.
Non volevo più parlare. Ho pensato che potevo non parlare più con nessuno, mai più.
Perché poi tu ha parlato, allora?
Vera gira di nuovo la testa a guardare i campi e il colore carta da zucchero del cielo che comincia a scurire.
Avevo fame.
Prima ci sono stati quindici giorni. Un tempo infinitesimale, in realtà, rispetto alla sua decisione iniziale. Eppure, a ripensarci adesso le sembra davvero un tempo molto lungo. Per quindici giorni, trecentosessanta ore, ventunomilaseicento minuti, un milione duecentonovantaseimila secondi, e chissà quanti battiti del suo cuore provato, la sua bocca è rimasta immobile, le corde vocali non hanno vibrato, nessun suono si è formato nella gola ed è scivolato sulla lingua per poi battere contro i denti. Niente. Un silenzio assoluto, vuoto assoluto. Certo, non è mai stata una persona particolarmente socievole o incline alle chiacchiere, le sue giornate libere le ha sempre passate in silenzio, da sola, e non ha mai patito per questo, né desiderato sollevare la cornetta del telefono per parlare del più e del meno con qualcuno. Le parole pronunciate le sono sempre sembrate faticose, anche quando era bambina. C’era un gioco che facevano con gli altri ragazzini della sua classe alle elementari: «se dovesse succederti di», era un gioco tremendo, basato sulle catastrofi più terribili che potessero capitare a un essere umano, tipo diventare cieco o perdere una gamba. Lei sceglieva sempre, come male minore, essere, o diventare sordomuta. A volte, nel suo letto, prima di dormire, pensava a come sarebbe stata la sua vita da bambina sordomuta e la immaginava come una vita di beatitudine perfetta. Sarebbe stata come una vongola adagiata sul fondo del mare, avrebbe percepito soltanto le fluttuazioni del mondo, le spinte, qualche brezza improvvisa, mai più ci sarebbe stato il rumore dei camion sulla Statale che correva di fianco alla casa, il suono orribile delle unghie sulla lavagna, la voce cupa di suo padre che le intimava di rimettere a posto la stanza, le urla di sua madre, l’ululare dei cani nelle notti d’estate. E soprattutto, non avrebbe più dovuto rispondere a nessuna domanda, argomentare, spiegare, avrebbe potuto cavarsela con un cenno della testa o una smorfia della bocca. Si, no, forse. Una vita semplicissima, essenziale, ridotta all’osso, tutte energie risparmiate da dedicare alle cose che allora per lei contavano davvero: disegnare, osservare gli insetti, costruire casette di legno e piccoli mobili in scala da sistemare in stanze poco più grandi di una scatola di fiammiferi. Non ci aveva piú pensato fino ad ora, chissà perché.
Forse, pensa adesso, smettere del tutto di parlare è impossibile. Le parole saltano fuori dalla bocca senza che tu neanche te ne accorga, a un certo punto, come le monete magiche di una fiaba, l’unica è sputarle fuori, e condividerle, se non vuoi soffocare.
Tu da piccolo a cosa giocavi?
Si è voltata verso Dimà che adesso sta fumando una sigaretta e canta sottovoce sopra la musica che esce dall’autoradio, un pezzo hip-hop con voci sovrapposte appoggiate sopra una melodia classica, al violoncello. Prima di rispondere scrolla la sigaretta nel posacenere e sbuffa una nuvola di fumo verso il finestrino aperto.
Non aveva tempo giocare. E prima, prima che non aveva più tempo, non ricorda più.
Restano entrambi in silenzio, la strada scivola dolce sotto le ruote del furgone.
Are you really really ready? Continuano a ripetere le voci dalla radio. Davvero pronti per cosa? Si domanda Vera mentre guarda i campi alternati alle piccole aziende agricole, ai capannoni sprangati e muti sotto il cielo. Di colpo si sente leggerissima, quasi felice, è una sensazione che non provava più da un tempo incredibilmente lungo. Le è sempre piaciuto viaggiare con qualcuno. Il silenzio dentro l’abitacolo dell’auto che sigilla i viaggiatori in uno spazio perfetto, autonomo, e quella sensazione sospesa di tempo e spazio che corrono veloci, così veloci da sembrare immobili. Si sistema sul sedile allungando le gambe davanti a sé e si volta a guardare il ragazzo.
Non ti ho neanche chiesto cosa c’è lì dentro, dice, facendo un gesto con il pollice a indicare il cassone dietro di loro.
Verdura.
E che verdura?
Dimà scoppia a ridere.
Perché tu vuoi sapere? Ti piace verdura?
Così, non c’è un motivo preciso. Per saperlo e basta. Ah, ok, c’è… come si chiama quella rapa rosso scuro… Ci fai zucherro.
Zucchero, con due c e con una r sola.
Sí, zucherro.
Ma l’hai ridetto uguale!
Vera scoppia ridere, e anche lui ride, la bocca aperta, i denti un po’ rovinati che luccicano tra le labbra schiuse. Sembrano due bambini, fratello e sorella nella loro stanza da soli, quando anche la più grande può mettere giù la maschera, e tornare a fare la bambina.
Adesso sta’ attenta che ti faccio vedere una cosa. Che cosa?
Una cosa, di qua, da questa parte devi guardare, dice Dimà agitando la mano sinistra e picchiettando il finestrino con le nocche.
Tieni gli occhi di qua e stai attenta, vedi una cosa bianca tra un po’, molto grande, laggiù.
Una cosa bianca?
La campagna è a perdita d’occhio, la strada corre dritta e larga in mezzo a due piani immensi. Campi di grano, e poi segale, orzo, avena, qualche casa colonica e ora una rotonda con cartelli segnaletici che indicano nomi di paesi, nomi che non evocano niente in lei, sono soltanto sillabe da scandire ad alta voce, suoni, caratteri bianchi disegnati su uno sfondo azzurro scuro: S. Antonio, Medicina, Villafontana.
Dimà svolta a sinistra e in lontananza Vera intravede una strana forma bianca, una specie di fungo, e dietro il fungo un forchettone gigantesco, più basso e lunghissimo, con decine di rebbi incurvati, puntati verso il cielo.
E cos’è? Un’astronave?
È un teliscopio, per guarda cielo, per ascolta cielo. Bellissimo, vero?
Telescopio, lo corregge sottovoce.
Neanche si volta a guardarla, ha le mani strette attorno al volante, e la testa girata a sinistra, Vera riesce a intravedere solo la curva della sua guancia liscia e abbronzata, e una piccola piega le dice che sta sorridendo.
Vera continua a guardare, Dimà ha rallentato l’andatura, le rare macchine sulla strada li sorpassano senza lampeggiare.
Perché ti piace tanto?
Mah, non so… credo perché io pensa mio paese. Mia città tutta bianca, c’era centrale davanti casa dove stava. Centrale bianca grande, no così… altra cosa, veramente grande, tutto diverso… ma qui, non so perché lo stesso io pensa a mio paese… anche se io non vuole mai pensare questo, lo stesso se passo qui, io pensa e pensa anche cose belle, cose prima, prima tutto, quando era piccolo…
Fa una pausa, si concentra sulla strada, un’Audi fa un sorpasso azzardato per superare un trattore dall’altra parte della carreggiata, Dimà sfanala con gli abbaglianti, suona il clacson, batte le mani sul volante.
Coglione. Ci sono troppi coglioni in giro, domenica brutto giorno.. ieb vas…
Quando pensa a mio paese io pensa a vesna nostra ultima vesna, c’era kvitka… fiori… e pensa a tatko, ancora à, mio tatò in nostra casa da solo…
Tatò?
Mio papà. Vedi com’è? Cosa strana, quando io pensa mio paese, io viene di parlare in mia lingua. Cosa è successo a tuo padre?
Lui è tornato a casa, noi più saputo niente, mama dice che tatò non può lasciare sua fattoria suoi animali, ma vuole noi stare bene in Kiev, che noi curati in ospedale e poi stare bene. Mama dice che tatò non stare bene in sua testa e dice: voi dimenticare lui.
Fa roteare l’indice accanto alla tempia, lo sguardo sempre fisso sulla strada buia, l’altra mano incollata al volante.
Cosí fa mia mama quando parla di tatò, sempre così con mano.
Ma come si chiama il tuo paese?
Pripyat, tu conosce sicuro… Chernobyl.
Vera ha un brivido involontario. Si sente stringere la gola. In testa le esplodono immagini, e ricordi che neanche sapeva ci fossero, nascosti dentro di lei. Come oggetti rotolati in fondo a un cassetto. Vede dei bambini dentro spoglie stanze d’ospedale dipinte di verdino pallido, le teste a punta, pelate, gli occhi troppo grandi, le labbra bianche, sottili, gli arti deformi, la pelle a chiazze.
Chernobyl quella del disastro nucleare?
Dimà fa un cenno affermativo con la testa, senza parlare. La sua faccia si è chiusa, gli occhi sono stretti come due fessure, si capisce che non ha più voglia di dire niente, e Vera rispetta il suo silenzio, d’altra parte, neanche lei ne ha più voglia, di parlare, ricordare, far uscire il dolore dai tagli. Meglio lasciarlo li, non affannarsi a schiacciare, premere, lasciare che coli per conto suo e si secchi come pus da una ferita.
Girata verso il finestrino, le gambe piegate, il mento appoggiato a una spalla, guarda le basse linee di casette a schiera che sfilano davanti ai suoi occhi, piccoli cubi bianchi rosa e giallini, i colori della pittura a malapena distinguibili in questa ombra che cresce, illuminati dalle luci dei portici e dei giardinetti. I cani che abbaiano al passaggio delle macchine. Gli alberi tutti uguali. Le finestre accese dietro le quali proprio adesso si consumano le cene alla luce azzurrata dei televisori accesi sui Tg. La tristezza siderale di quelle vite all’apparenza tanto ordinate, precise, studiate e organizzate come un progetto steso su carta millimetrata la investe come uno schiaffo. Gli orari, i movimenti, la disposizione dei corpi nello spazio a una data ora del giorno e della notte, corpi in piedi a fare colazione, corpi in bagno, davanti allo specchio a lavare denti, schiacciare pustole, pettinare capelli, truccare occhi, corpi a cena, suono di forchette e di piatti, di denti che masticano, di bambini che si lamentano, corpi distesi dentro letti matrimoniali alla medesima distanza di sicurezza, corpi che si cercano per poi subito allontanarsi perché domattina bisogna svegliarsi presto, l’anta del frigorifero aperta e richiusa, la valigetta con i documenti, la cartella di scuola, lo zaino con i libri, la cassetta degli attrezzi, il porta-pranzo con dentro i panini imbottiti di frittata da portare in cantiere, aprire la porta, chiuderla, mettere in moto la macchina, spalancare il cancello del cortile stando attenti ai gatti, al cane che non vuole essere lasciato solo, lì inchiodato alla catena tutto il giorno, sotto il sole, poi tornare, parcheggiare nello stesso rettangolo delimitato da una striscia di vernice bianca che ogni primavera viene ripassata, e le siepi, potate alla stessa altezza, anno dopo anno dopo anno. La sicurezza di una vita fatta di gesti sempre uguali, di preoccupazioni sempre uguali, di parole sempre uguali. Solo gli oggetti cambiano e su questi oggetti – la cucina in legno massello, il divano di pelle ecologica, la macchina, il grill da giardino – si investono tutti i soldi – spesso quelli che non si hanno – le preoccupazioni, le discussioni, le aspettative. Un giorno dopo l’altro, un mese dopo l’altro, un anno dopo l’altro.
Anche lei aveva una vita cosí, prima.