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4 Maggio 2010 | Archivio / Lo sguardo altrove, storie di emigrazione

Dai liquori ai ricami: un emigrato col fiuto per gli affari

Arturo Marchesini amava l’opera e le macchine sportive

A cura di Claudio Bacilieri.

4 maggio 2010

Cari ascoltatori, una docente del Dams di Bologna, Elena Tamburini, ci ha raccontato la storia interessante del prozio, Arturo Marchesini, che raggiunse il successo negli affari dopo la sua emigrazione a New York nel 1902. E’ questa la storia che vi proponiamo oggi.

Il mio prozio Arturo Marchesini è nato a Rimini nel 1886 da un capostazione di origini venete e dalla ravennate Virginia Fiorentini. Mostrò sin da piccolo un’intelligenza precoce e un carattere volitivo. Tuttavia, lo spirito ribelle gli impedì di emergere dal punto di vista scolastico: finì le elementari a nove anni, ma poi ripeté tutti gli anni scolastici superiori, anche più volte.
Nel 1902, sedicenne, raggiunse in America i fratelli, che vi erano emigrati in precedenza e vi avevano impiantato una fiorente fabbrica di liquori. Arturo raccontava con orgoglio che, giungendo a New York, aveva visto dalla nave la scritta luminosa Marchesini Brothers.
Cominciò con entusiasmo la sua vita americana, impegnandosi a fondo nel suo lavoro. Tra i suoi amici più cari c’era il pratese Baldassarre Mazzoni, che con il padre aveva avviato una fortunata attività di negozi di generi alimentari e un ristorante, e che per questo si serviva dei liquori dei fratelli Marchesini. Nel 1906, accompagnando l’amico a ricevere la sorella Cordelia che arrivava dall’Italia, se ne innamorò. Anzi, diceva di essersene già innamorato dalla sua fotografia che aveva sottratto al fratello Baldassarre per scriverci sopra “Ti vidi e ti amai”.
Arturo e Cordelia si sposarono nel 1908 nella chiesa di St. Patrick. Subito dopo, contrasti con i fratelli spinsero il giovane Marchesini a trasferirsi a Chicago, seguito a breve dal cognato Baldassarre, il quale vi aprì il suo Grand Opera Restaurant. Anche ad Arturo gli affari andavano bene: con un nuovo socio ebreo, Umberto Muggia, aveva intrapreso una redditizia attività di rappresentante di liquori, per la quale non temeva di affrontare lunghi viaggi anche in terre impervie e pericolose.
Grazie alla sua intelligenza vivace e duttile, negli anni 1910-12 scrisse per vari giornali italoamericani, e pare anche per il Corriere della Sera, recensioni degli spettacoli d’opera di Chicago, che avevano per protagonisti cantanti del calibro di Caruso, Bonci, Pertile.  Con il cognato le uniche violente discussioni riguardavano la lirica, perché Baldassarre parteggiava per Caruso, e Arturo per il romagnolo Bonci. Si trattava, com’è noto, di due scuole di orientamento diverse, che dividevano gli italiani d’America come oggi le squadre di calcio in Italia. L’opera era una gloria per gli emigranti, e la passione era in Arturo vera e profonda, tanto che, tornato in Italia, alla morte di Puccini fu a Milano a sentire, entusiasta, la prima della Turandot.
Nel 1920 il proibizionismo sugli alcolici e soprattutto le insistenze della moglie, disperata per la prematura morte, di febbre spagnola, dell’amato fratello Baldassarre, lo indussero a tornare in Italia. Dapprima si stabilì nella sua Rimini, dove incaricò uno dei più importanti architetti attivi in città, Addo Cupi, di costruirgli una villa per l’estate. Marchesini fu tra i primi a pensare al tema architettonico della villeggiatura estiva al mare. L’edificio, ultimato nel 1924, esiste ancora in parte, e se pure non era, come lui sosteneva con orgoglio, “la più bella villa della città”, sicuramente è uno dei più importanti esempi di architettura déco.
Arturo avrebbe potuto continuare a vivere dei suoi cospicui guadagni americani, ma il suo spirito d’iniziativa non poteva restare inattivo. Nel 1923 si trasferì a Firenze dove, valendosi dell’aiuto della vedova di Baldassarre, Rina Vellutini, che era una valente ricamatrice, cominciò tre anni dopo una fortunata attività di produttore e commerciante di ricami fiorentini. I ricami, creati da un gruppo di lavoranti nella sua casa-laboratorio di via Dupré, venivano da lui venduti negli Stati Uniti, in Francia e in Inghilterra. Quando ci fu la svalutazione della sterlina, nel 1930, si racconta che egli riuscì a consegnare la merce allo stesso prezzo e che per questo la ditta fu valutata la cifra astronomica di 25 milioni.
Non fu mai iscritto al fascismo, ma è certo che, come molti, era uomo d’ordine e di lavoro, dopo aver visto il disordine e la miseria; ed era solito raccontare di come il buon nome d’Italia fosse cresciuto nella considerazione degli americani.
Nel 1920 possedeva una macchina Ford. Nel 1925 comprò a metà prezzo da un sanmarinese, per 45 mila lire, una bellissima Alfa Romeo che tutti si fermavano ad ammirare. Morì a Firenze nel 1944 per una cannonata dei tedeschi, mentre cercava di aiutare la cognata Rina, colpita a sua volta a una gamba. Fu l’ultima cannonata dei tedeschi. Il suo nome è scritto nella lapide affissa nello stadio fiorentino che ne ricorda le vittime.

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