Uno storico esperto di battaglie, una scrittrice appassionata di umorismo: dal connubio esplosivo tra Lia Celi e Andrea Santangelo, di casa tra Bologna e Rimini, ecco un ritratto inedito di Giacomo Casanova, in cui l’avventuriero settecentesco assomiglia tanto a un ragazzo di oggi.
C’era una volta… un pezzo di legno, diranno subito i nostri lettori che da piccoli hanno letto Pinocchio e non ci cascano più.
No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un ragazzo italiano. Nato in un Paese che usciva faticosamente da una crisi terribile ma, appesantito da una secolare arretratezza, non riusciva a innescare più che una precaria “ripresina”. Un’Italia a due velocità, con un Nord produttivo e meglio amministrato, pronto ad acchiappare la ripresa economica del resto d’Europa e un Sud arcaico, sottosviluppato e dominato da una élite incapace e da una burocrazia corrotta. Un’Italia dove la Chiesa ha ancora un potere immenso e possiede una grossa fetta del patrimonio immobiliare, dove i cardinali vivono in appartamenti fastosi in cui praticano tutti i vizi. Un’Italia dove gli intellettuali campano solo se compiacciono il potente di turno, l’ascensore sociale è bloccato e per i giovani ambiziosi e di talento c’è una sola risorsa: fuggire. In Francia, in Germania, in Inghilterra, Paesi che sanno valorizzare il talento e dove Italia è ancora sinonimo di arte, stile, cultura.
A questo punto guarderete la copertina del libro chiedendovi se il rilegatore non ha commesso un errore madornale. Che ci fa un saggio sull’Italia contemporanea sotto la copertina di una biografia dedicata a Giacomo Casanova? Nessun errore. L’Italia descritta più sopra è quella del primo Settecento, l’epoca in cui nasce Casanova. Il quale, forse perché non aveva un coro di media che gli ripetevano h24 che il futuro gli era stato rubato, il futuro se lo inventa, valorizzando tutti i propri talenti – compreso quello, strabordante, di seduttore. Eppure, a guardarla con gli occhi di oggi, la vita di Casanova non sembra poi così diversa dal – tetro – futuro che incombe sui giovani italiani del XXI secolo: cervello in fuga, fece mille mestieri, non riuscì mai a metter su famiglia, ebbe rapporti difficili con giustizia e burocrazia, trovò il primo impiego a tempo indeterminato a sessant’anni suonati, e nemmeno in Italia, ma in un Paese emergente. Allora come mai il calvario di questo perdente, anziché una puntata di Piazzapulita o di Ballarò, ispira da secoli musicisti, registi e romanzieri? Come mai le donne, anziché preferirgli bravi ragazzi con il posto fisso e la carrozza comprata a rate, si gettavano a frotte tra le sue braccia? Possibile che ciò che rendeva unico quest’uomo stesse nelle sue mutande, e non piuttosto sotto la sua parrucca impeccabilmente incipriata?
Questo tenteremo di capire nelle prossime pagine, con l’aiuto dello stesso Casanova. Anzi, sarà proprio lui a spiegarlo di persona alle generazioni più giovani, soprattutto a quelle cresciute a pane, YouTube e supereroi. I cosiddetti millennials. I quali, forse proprio per questo, saranno maggiormente in grado di sintonizzarsi con il suo personaggio.
Perché, al netto di tricorno e calzoni al ginocchio, Giacomo Casanova è quanto di più simile a uno degli X-Men abbia mai prodotto l’Italia. Anzi, è un concentrato dei personaggi della saga Marvel. Bello, intelligente, un po’ nerd, sempre ai limiti della legalità, in fuga da tutto e da tutti, coraggioso, temuto, generoso, sentimentale, supersexy e dotato di straordinari poteri. Mangia, fuma e beve in quantità abnormi e si rimette rapidamente da ferite e malattie: è Wolverine. Come alchimista, piega al proprio volere i metalli: è Magneto. Legge i desideri delle persone, così da poterle raggirare o rassicurare: è il Professor Xavier. Sa trasformarsi a piacere, la specialità di Mystica, ed è un baro rubacuori, proprio come Gambit.
Supereroi a parte… Casanova è, soprattutto, uno che non si piange addosso. Mai. Gli manca il gene dell’autocommiserazione. Eppure, ve lo assicuriamo, era un italiano purosangue. E allora sorge un dubbio: che Casanova fosse sul serio un mutante? O non sarà che, rispetto ai suoi tempi, siamo mutati noi italiani?
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Lo spregiudicato figlio di attori sa benissimo che è innanzitutto l’abito a fare il monaco, e pure il soldato. Il suo primo passo nella carriera militare, risalendo l’Italia da Roma, è fermarsi a Bologna e investire una consistente parte del suo Tfr da assistente segretario d’ambasciata in un’uniforme che possa credibilmente «rappresentare un discepolo di Marte», non tanto sui campi di battaglia quanto nelle hall degli alberghi di lusso, sotto i portici del centro e nei caffè petroniani alla moda.
Lui lo fa perché è un giovane e ambizioso cialtrone con qualche soldo in tasca, ma in questo periodo in tutta Europa inventarsi la divisa è la regola. Gli ufficiali, in genere di nobile origine, si sentono autorizzati a personalizzare lussuosamente un abbigliamento sul quale non esistono ancora regole stringenti, almeno per i gradi superiori, e conti, baroni e marchesi vanno in battaglia carichi di pizzi, sbuffi e passamanerie d’oro e d’argento tipo ballo a Versailles (“guerre en dentelles”, in merletto, verrà chiamata all’epoca). Solo verso il 1750 i sovrani, per motivi di disciplina, praticità ed economia, imporranno a tutti i livelli della gerarchia un giro di vite che distinguerà definitivamente l’abito civile da quello militare e renderà quest’ultimo più semplice e lineare – ma ancora oggi supercool, tant’è che la redingote smilza e gallonata è un must nel guardaroba delle popstar, da Michael Jackson a Mika.
Nel 1744 si può ancora essere creativi, ma Casanova, che non è nobile, ma in fatto di abbigliamento, sia maschile che femminile, ha un gusto più infallibile del mitico conte Nuvoletti, non si fa prendere troppo la mano. Nelle migliori botteghe sotto le Due Torri il proto-dandy veneziano palpa campioni di stoffa, sfoglia i modelli più attuali e si fa confezionare uno sciccosissimo outfit da ufficiale settecentesco, che comprende: classica camicia bianca, calzoni bianchi al ginocchio completati da ghette, una tunica pari-collo con tasche, abbottonata davanti e lunga a metà coscia, e per finire il capospalla, detto giustacorpo, un soprabito di taglio simile alla veste, ma con falde più lunghe. Giacomo se lo fa realizzare in blu, colore adottato dalle truppe più trendy dell’epoca, quelle francesi e prussiane, nonché dalle guardie del duca di Savoia, e ci aggiunge preziose rifiniture in cordoncino dorato per spalline e spada. Completano il look l’imprescindibile cravatta inamidata, utile a conferire un portamento eretto, oltre che a nascondere gli antiestetici bottoni della camicia, scarpe con tacco e fibbia, e un tricorno di feltro da cui sporge un codino infiocchettato.
Il tocco di realismo sarebbe appuntare sulla falda del cappello una coccarda con i colori nazionali, usanza che si va diffondendo fra i vari eserciti. Sì, ma i colori di quale nazione? Giacomo, prudentemente, sceglie di lasciar fare a quella divisa indefinibile e all’immaginazione di chi lo incontra sul suo cammino. Infatti, «chi lo piglia per francese, chi lo piglia per spagnolo», come Ninì Tirabusciò. Lui non conferma e non nega, per non compromettersi, e il suo silenzio viene scambiato per maschia riservatezza da uomo d’armi.
Giorno dopo giorno, Casanova si accorge che il suo carattere si sta camaleonticamente adattando all’abbigliamento: il galante Cherubino si trasforma in un guerriero schienadritta-pancia-in-dentro-petto-in-fuori. E quando torna a Venezia e il suo tutore, l’abate Grimani, dubita della veridicità delle sue peripezie romane, in Giacomo scatta uno sdegno da ufficiale ferito nell’onore che, lo ammette lui stesso, non avrebbe mai provato se fosse stato vestito da umile chierico. Questo sì che è calarsi nella parte, altro che metodo Stanislavskij.
Sapete quale film ha raccontato meglio il mio giovanile periodo “militare”? No, nessuno di quelli con “Casanova” nel titolo. Per strano che possa sembrarvi, la risposta è Barry Lyndon di Stanley Kubrick, quello che i cinéphiles meno amanti della sofferenza ricordano soprattutto per la durata biblica, le scene poco illuminate e la colonna sonora invadente. A prima vista nessuno potrebbe assomigliarmi meno di quel giovinastro irlandese, eppure nel suo bell’aspetto, nella sua ingenua spudoratezza, nella sua determinazione a farsi strada con ogni mezzo, nel suo adattarsi alle circostanze e alle compagnie, anche le meno raccomandabili, potete ritrovare qualcosa della mia avventurosa gioventù.
Senza contare che il film e il romanzo di William Thackeray da cui è tratto danno un quadro piuttosto fedele di quel che era un esercito europeo, anche “moderno” come quello prussiano, ai tempi della guerra “en dentelles”: al comando di ufficiali di origine nobile in codini incipriati e polsini di merletto, c’era una caienna di uomini di ogni provenienza e risma, spesso coscritti o rastrellati col ricatto da reclutatori fuorilegge, dediti alla distruzione, alla razzia e allo stupro, come del resto tutti i soldati di questo mondo.
Al tempo della Guerra dei Sette anni, nell’esercito di Federico il Grande, il “re filosofo” nonché mio futuro amico, in molti reggimenti la brutalità degli ufficiali era così intollerabile, in pace ancora più che in guerra, da trasformare i soldati in veri e propri psicopatici. Si narrava che i disperati che non avevano il coraggio di uccidersi da soli (il suicidio era considerato un delitto) trucidassero un bambino piccolo solo per farsi condannare a morte; essendo innocente, il bimbo sarebbe comunque andato in Paradiso, il che li faceva sentire meno colpevoli. Il sovrano, pur inorridito da questo barbaro espediente, per reprimerlo non trovò di meglio che negare agli assassini l’assistenza spirituale di un ecclesiastico prima dell’esecuzione. Ma la prospettiva di morire senza i conforti religiosi non spaventava chi l’inferno l’aveva già sperimentato in vita.
Come la carriera ecclesiastica, anche quella militare, sia scelta volontariamente che per costrizione, offre ai giovani delle classi meno favorite l’opportunità di uscire dal proprio paesello, specie a quelli che preferiscono la prospettiva di uccidere ed essere uccisi a quella di applicarsi allo studio e rinunciare alle donne. «Arruolati e visiterai il mondo!» diceva una vecchia pubblicità per il reclutamento nella Marina militare italiana. E in effetti c’era del vero in quello slogan, e c’è ancora oggi, anche se la crociera può presentare degli imprevisti non sempre piacevoli, tipo venire trattenuti per quattro anni in India per un’accusa di omicidio non provata. All’epoca di Casanova il mestiere della guerra (fino alla fine del secolo è affidato quasi esclusivamente a professionisti, la leva militare verrà introdotta su larga scala solo con il regime napoleonico) è un’occasione per confrontarsi in modo, diciamo così, scoppiettante, con il diverso, e per vedere luoghi e genti che altrimenti sarebbero stati irraggiungibili. Peccato che il compito di un soldato sia raggiungerli soprattutto con dei proiettili.