Dalla prima raccolta di racconti di Renata Adamo, scrittrice e traduttrice originaria di Merano, bolognese di adozione, abbiamo scelto il pezzo che si è aggiudicato il premio “Andersen” per la più bella fiaba inedita. Una “favola non favola”, capace di parlare sia ai bambini che agli adulti. Ringraziamo per la lettura Amalia Cosi e l’associazione “Legg’io”.
Il treno per Bolzano doveva arrivare a breve sul secondo binario. Era già freddo quell’anno, a novembre. Una piccola folla di viaggiatori si era raccolta nell’atrio della stazione per trovare riparo. Un gruppo di ragazzi congedati quel giorno dal servizio di leva aveva ammonticchiato i bagagli a fianco della biglietteria e vi si era seduto sopra. I giovani ridevano nell’attesa di dire addio per sempre a Merano.
In un angolo vicino all’ingresso una signora elegante teneva per mano una bimba di circa otto anni e parlava al telefonino. La bimba portava sulla testa un cappellino rosso e si guardava intorno con aria impertinente.
Fuori soffiava forte il vento. I rami dei tigli che fiancheggiavano il viale davanti alla stazione scricchiolavano come se dovessero spezzarsi, producendo un suono simile al gemito inascoltato di un fanciullo. Le ultime foglie gialle turbinavano nell’aria limpida del primo pomeriggio e s’incollavano addosso ai passanti. Le cime più alte dei monti, bianche di neve, brillavano di luce fredda, eco di luoghi distanti e di spaventosi silenzi.
L’altoparlante annunciò un ritardo del treno di circa trenta minuti. Dal gruppo dei congedati si levò un grido di protesta.
La donna accanto alla bambina lanciò un’imprecazione quindi compose un nuovo numero. La bimba si liberò dalla sua stretta e si mise a gironzolare per l’atrio. Si avvicinò ai giovani soldati seduti sui bagagli.
«Ciao bella bimba» le disse uno di loro, «come ti chiami?».
Lei lo guardò: era il caso di approfondire la conoscenza del ragazzo oppure era meglio fare la signora? Le signore, aveva detto la mamma, non parlano con gli sconosciuti. Era la prima volta che le capitava un’occasione come quella, dunque decise di non rinunciarvi.
«Mi chiamo Elena» si limitò a rispondergli e si allontanò altera. Fece finta di guardare l’orario ferroviario appeso a pannelli girevoli. I pannelli non erano fatti a misura di bambino: svettavano sopra la sua testolina obbligandola a stare sulle punte dei piedi per riuscire appena a sbirciarli. Non che fosse importante: lei non capiva un’acca di quello che vi era scritto sopra. Gli orari ferroviari erano un mistero noiosissimo, un confine che separava i grandi dai piccini. Chi li sapeva leggere faceva parte dei grandi come il papà, la mamma o il nonno, chi invece non ci capiva niente – ed era il suo caso – rientrava nell’orbita dei bambini.
Si allontanò di nuovo. Non c’era nulla di divertente da fare e sua madre non la smetteva di parlare al telefono.
Si avvicinò alla porta a vetri e vi premette il naso contro. Spalancò le fauci come una piccola tigre e alitò sul vetro. Quindi prese a fare disegnini: un pesce, una mela, un uccello dalla lunga coda. Gli uccelli erano la sua passione, le aquile in particolare. Avrebbe voluto allevarne una ma non c’era stato verso di convincere sua madre.
«Le aquile sono le regine del vento» aveva detto la maestra, «non si possono addomesticare».
La bimba tornò ad alitare sul vetro. Stava per disegnare un gatto quando si arrestò con il dito sollevato per aria. Scrutò attentamente da dietro la vetrata la figura che si stava avvicinando. Era una donna alta, con lunghi capelli neri. Indossava un mantello scuro che le svolazzava intorno. Aveva gli occhi rotondi, il naso simile al becco di un rapace: un’aquila, non c’era dubbio. Elena aveva studiato il comportamento delle aquile sull’enciclopedia dei ragazzi, dunque sapeva tutto di loro. Ma c’era di più. C’era molto di più.
Quella donna dai lunghi capelli neri e dal mantello svolazzante era Maharaba, la regina degli uccelli.
Dunque la signorina Camilla, l’attrice che aveva assunto le sembianze di Maharaba in uno spettacolo per i bambini della sua scuola, aveva ragione. «Chiunque di voi» aveva detto, indicando uno a uno i bambini seduti sulle poltroncine del teatro, «può incontrare Maharaba. Ella può assumere l’aspetto che le pare. Preferibilmente quello di una donna. Ora vi faccio vedere». E la signorina Camilla si era trasformata davanti ai loro occhi: aveva indossato una parrucca dai capelli neri, si era avvolta in un lungo mantello e aveva camminato sul palco a passi lenti e leggeri.
«Maharaba» aveva detto ancora l’attrice, «è una predatrice infallibile e spietata. Ma quello che più importa è che appare solo a chi lo merita. Non è facile incontrare Maharaba, la regina. Ella governa i cieli e impone la legge e la giustizia tra gli uccelli».
Elena non era riuscita a comprendere bene l’ultima frase, quella che riguardava la giustizia, ma non era il caso di mettersi a fare domande o a disturbare. Aveva seguito a bocca aperta la figura di Camilla – ora regina Maharaba – trattenendo il fiato.
Maharaba. Un nome difficile da ricordare che però lei si era stampato bene in testa nella speranza che alla fine la regina le sarebbe apparsa.
Maharaba infatti le doveva qualcosa: Elena si era battuta per lei. All’uscita dal teatro, il giorno dello spettacolo, l’aveva difesa contro i maschi che prendevano in giro la figura della grande aquila sostenendo che erano tutte fandonie.
«Vuoi mettere questa Maharaba con uno Stuka?» le aveva detto Fausto, un ragazzino magrissimo, sempre arrabbiato, deridendola per la sua ingenuità.
«Chi sarebbe questo Stuka» gli aveva chiesto. E non solo Fausto ma tutti i maschi presenti si erano scompisciati dal ridere. Anche Luca, il suo migliore amico, si era messo a sghignazzare.
«Cosa fa questo Stuka?» aveva insistito Elena, mettendo nella voce tutta la grinta possibile. «Governa forse i cieli e gli uccelli come la regina Maharaba?».
«Sei solo una femmina!» le avevano buttato lì, guardandola con un sorrisetto sprezzante, come se fosse stata un insetto, per giunta un po’ schifoso.
«Uno Stuka» le aveva spiegato Luca con degnazione, «è un aereo da combattimento della prima guerra mondiale. Un mostro di potenza con la pancia piena di bombe».
«E allora?» aveva ribattuto Elena, «cos’avrebbe di speciale il vostro Stuka? È solo una macchina, una stupida macchina che vola!».
«Ma va’ là» avevano ribattuto i ragazzini e si erano allontanati. Luca era andato con loro senza voltarsi neppure una volta.
Da quel giorno lei gli aveva messo un muso lungo due metri. Non gli aveva più prestato i numeri di Topolino che gli mancavano. Luca, a sua volta, si era vendicato non invitandola più a casa sua per la merenda. La madre di Luca, la signora Aldina, sapeva fare squisite frittelle di mele. Una delizia cui Elena aveva rinunciato.
Sì, Maharaba le doveva davvero qualcosa.
La donna spinse la porta con entrambe le mani e trascinò all’interno una grossa valigia a rotelle. Il mantello nero strisciava quasi a terra, dalla spalla pendeva una borsa a tracolla di pelle morbida guarnita, ai bordi, da lunghe piume azzurre. Si avviò verso la biglietteria passando davanti ai giovani congedati.
La bimba si allontanò dalla porta a vetri e prese a gironzolare intorno alla biglietteria. La donna parlava con l’impiegato e intanto tormentava con la mano le piume azzurre della sua borsa. La bimba osservò le sue unghie: erano lunghe, ricurve e laccate di rosso. Gli artigli di Maharaba.
«Elena, torna subito qui!» le gridò sua madre.
Elena ubbidì.
«Non allontanarti più senza il mio permesso» le disse afferrando la sua piccola mano.
La donna alta e bruna aveva fatto il biglietto e si era avvicinata alla porta a vetri che delimitava l’accesso ai binari. Un giovane soldato dopo aver parlottato con i compagni si era staccato dal gruppo piazzandosi a pochi passi da lei. I compagni seguivano le sue manovre di corteggiamento dandosi di gomito e ridacchiando.
Lei aveva acceso una sigaretta e osservava il panorama dei monti. All’improvviso gettò via la sigaretta e uscì sul piazzale. Il giovane fu tentato di seguirla ma poi ci ripensò: fuori era troppo freddo.
La donna camminava sulla pensilina, il viso illuminato dal sole, gli occhi rotondi che spaziavano fino all’orizzonte. Le piume azzurre della sua borsa si torcevano al vento come una preda appena catturata.
Il soldato che la osservava fece uno sbadiglio.
Elena non l’aveva persa di vista neppure per un istante. Sfilò la mano da quella di sua madre e uscì sul piazzale. Si calcò il berretto rosso sulla testa per impedire al vento di portarselo via e si avvicinò alla donna che le voltava le spalle. Allungò la mano sulle piume azzurre e le toccò.
La donna volse lo sguardo su di lei.
«Elena!» gridò sua madre aprendo la porta per metà. «Vieni subito dentro!».
Elena non le diede retta.
«Tu sei Maharaba…» disse con un filo di voce. «La signorina Camilla ci aveva detto che prima o poi qualcuno di noi bambini avrebbe potuto incontrarti…».
La donna si chinò su di lei. I lunghi capelli neri le scivolarono sulle guance.
«Was sagst du?» [«Cosa dici?»] le disse con dolcezza.
La faccenda si complicava. Maharaba si era messa a parlare in tedesco ed Elena sapeva solo poche parole in quella lingua.
Ma c’erano le piume azzurre. Le lunghe piume attaccate alla sua borsa. Dovevano appartenere a un uccello che Maharaba aveva dovuto giustiziare perché non si era comportato bene. Elena indicò le piume. Avrebbe voluto accarezzarle.
Il vento sollevava cumuli di polvere che ricadevano intorno a loro come una cascata di pagliuzze d’oro.
L’altoparlante annunciò l’arrivo del treno.
La donna prese la borsa tra le mani e lasciò che la bimba accarezzasse le piume. Il treno stava entrando in stazione. Volse gli occhi rotondi sul convoglio e poi di nuovo sulla bimba. Staccò le piume azzurre dalla borsa e le mise a una a una tra le sue piccole mani.
«Cosa ti ha dato, quella?» le chiese la madre prendendola per un braccio mentre la donna bruna si allontanava.
«Sai che non devi accettare nulla dagli sconosciuti» disse avviandosi al binario.
«Ma lei non è una sconosciuta!» esclamò Elena, «lei è Maharaba!».
«Cosa?» fece sua madre, «chi sarebbe?».
«Lei è Maharaba!» insistette la bimba ma fu interrotta dal telefonino che aveva ripreso a squillare.
Maharaba era salita sul predellino e si era girata verso la bimba facendole un breve cenno di saluto.
Elena sorrise e sollevò in alto le piccole mani chiuse a coppa dalle quali spuntava la lunga coda azzurra di un uccello esotico appena predato.