Tra il 1825 e il 1826 il poeta di Recanati soggiorna nel capoluogo emiliano, dove vive una stagione particolarmente operosa per la sua scrittura ma anche movimentata da incontri e relazioni nuove. Come raccontano le sue lettere.
A Gian Pietro Vieusseux
A Firenze, con il suo Gabinetto letterario e scientifico e la sua “Antologia”, Vieusseux è un attivissimo organizzatore culturale. Ha invitato Leopardi a fargli visita e gli ha proposto di collaborare alla rivista con il ruolo di “eremita degli Appennini”: colui che dal suo rifugio solitario critica “i nostri pessimi costumi, i nostri metodi di educazione e di pubblica istruzione, tutto ciò infine che si può flagellare quando si scrive sotto il peso di una doppia censura civile ed ecclesiastica”.
Bologna 4 Marzo 1826
Signor mio gentilissimo, pregiatissimo e caro.
Vi ringrazio dell’onore che avete fatto ai miei dialoghi di pubblicarli nel vostro Giornale, benchè io m’avvegga di non aver saputo spiegare a Giordani il mio desiderio in questo proposito, e benchè mi abbiano un poco umiliato i molti e tremendi errori che sono corsi nella stampa (tali che spesso nel leggerla non m’intendeva io stesso), e l’ortografìa barbara che vi regna. […]
Ma soprattutto io vi debbo ringraziare e vi ringrazio sinceramente e caldamente della vostra amorosa lettera. Alle vostre espressioni graziose e cordiali, rispondo che da gran tempo io vi stimo altamente e vi amo con tutto il cuore come uomo prezioso all’Italia, della quale io direi volentieri quello che Agamennone diceva dell’esercito greco in proposito di Nestore, che ella sarebbe a miglior partito se avesse dieci vostri pari. Ed aggiungo che o vedendo Giordani o scrivendogli, io non ho mancato mai di pregarlo che vi salutasse per mia parte affettuosamente.
Vengo al cortese invito di scrivere per cotesto Giornale, che io predico sempre, non solo come l’unico Giornale italiano, ma come tale che in molte sue parti ha l’onore di non parer fattura italiana. Credetemi che quel poco (veramente poco) che io posso, lo spenderei volentieri tutto in servizio dell’Italia e vostro, aiutandovi in cotesta impresa secondo le mie forze, e che conosco ed apprezzo l’onore che voi mi fate giudicandomi capace di esservi utile. Ma vogliate credere ancora che presentemente io ho tali impegni librarii con Milano e con altre parti, che mi occupano tutto il tempo che io posso dare allo studio; di modo che senza voler mancare alla mia parola e al mio debito, non posso prendere altri assunti; tanto più che io non sono niente buono a far molte cose in un tempo. Questo è un ostacolo occasionale e che può passare. Ma quello che voi mi proponete di divenir vostro collaboratore regolare, credo che sarà sempre incompatibile col mio stato, perchè la mia salute, che certo non è per mutarsi, non si vuol sottomettere a nessuna regola del mondo, e non comporta che io mi obblighi a tempi determinati. Basta: se la stessa maledetta salute non me l’impedisce, io voglio questa primavera dare un salto a Firenze, e allora a voce potremo discorrere e risolvere di questi particolari.
Intanto, perchè io non so e non ho saputo mai sopportare di esser creduto da più ch’io non sono, o atto a quello che io non so fare, permettetemi di soggiungere. La vostra idea dell’Hermite des Apennins, è opportunissima in sè. Ma perchè questo buon Romito potesse flagellare i nostri costumi e le nostre istituzioni, converrebbe che prima di ritirarsi nel suo romitorio, fosse vissuto nel mondo, e avesse avuto parte non piccola e non accidentale nelle cose della società. Ora questo non è il caso mio. La mia vita, prima per necessità di circostanze e contro mia voglia, poi per inclinazione nata dall’abito convertito in natura e divenuto indelebile, è stata sempre, ed è, e sarà perpetuamente solitaria, anche in mezzo alla conversazione, nella quale, per dirlo all’inglese, io sono più absent di quel che sarebbe un cieco e sordo. Questo vizio dell’absence è in me incorreggibile e disperato. Se volete persuadervi della mia bestialità, domandatene a Giordani, al quale, se occorre, do pienissima licenza di dirvi di me tutto il male che io merito e che è la verità. Da questa assuefazione e da questo carattere nasce naturalmente che gli uomini sono a’ miei occhi quello che sono in natura, cioè una menomissima parte dell’universo, e che i miei rapporti con loro e i loro rapporti scambievoli non m’interessano punto, e non interessandomi, non gli osservo se non superficialissimamente. Però siate certo che nella filosofia sociale io sono per ogni parte un vero ignorante. Bensì sono assuefatto ad osservar di continuo me stesso, cioè l’uomo in sè, e similmente i suoi rapporti col resto della natura, dai quali con tutta la mia solitudine, io non mi posso liberare. Tenete dunque per costante che la mia filosofia (se volete onorarla con questo nome) non è di quel genere che si apprezza ed è gradito in questo secolo; è bensì utile a me stesso, perchè mi fa disprezzar la vita e considerar tutte le cose come chimere, e così mi aiuta a sopportar l’esistenza; ma non so quanto possa esser utile alla società, e convenire a chi debba scrivere per un Giornale.
Questo discorso, che del resto sarebbe stato molto fuor di proposito e molto poco importante, potrà servire a determinare la vostra opinione circa la mia capacità, e circa il genere e il grado di utilità che voi potreste aspettarvi da’ miei scritti, per la vostra intrapresa.
Vedete che io non vi ho parlato con minore schiettezza di quello che voi abbiate fatto a me. Credo anzi di avervi superato in questo, come facilmente mi accade. Mi auguro il piacere di riverirvi e, se me lo permetterete, di abbracciarvi presenzialmente, e desidero ancora che non tralasciate di favorirmi e rallegrarmi di tempo in tempo coi vostri caratteri.
Vostro devotissimo servitore ed amico cordiale
Giacomo Leopardi
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A Paolina Leopardi
Lontano dalla famiglia, Giacomo mantiene i legami anche attraverso il cibo che proviene dalla sua casa. Alla sorella che gli ha scritto: “Ora già ti diverti più che mai; sei in mezzo al gran mondo! – Oh qu’heureux que tu es!“, risponde descrivendo la città in cui vive e l’onnipresente passione per la musica.
[Bologna] 1mo Maggio 1826
Cara Paolina. Ho ricevuto il pacco, la scatola e la tua lettera dalla buona Bosi, ch’è stata da me due volte. Ringrazia tanto e poi tanto Mamma e Babbo dei formaggi, e Babbo poi in particolare della molto bella scatola, che ho messa subito in uso. Babbo mi scrive di proccurar qui un poco di musica per Luigi. È vero che io sto in casa di due Ex-Cantanti, già famosi, che al loro tempo hanno girata mezza Europa; ma presentemente non pensano più alla musica, e certo non hanno niente a proposito per Luigi, perchè alla musica istrumentale non hanno atteso mai, conservano pochissime carte, e che a quest’ora sono antiche. Nondimeno io mi trovo veramente tra la musica, perchè qui in Bologna, cominciando dagli orbi, tutti vogliono cantare o sonare, e c’è musica da per tutto. Facilmente troverò qualche cosa da poter mandare a Luigi perchè la ritenga, e non già per copiarla e poi rimandarla, che questo sarebbe impossibile, giacchè qui ciascuno è geloso della sua musica come a Recanati. Ma intanto bisognerebbe sapere se Luigi desidera delle sonate per flauto a solo, o per flauto con accompagnamento di uno o più flauti, o di pianoforte, o d’orchestra piena ec. Mi specifichi il genere delle sonate, ed io ho qui chi m’insegnerà il modo di servirlo alla meglio. Le cose ch’io ti mando insieme con questa mia, le mando per non saper che mandare, non avendo ancora niente di quello che si stampa a Milano del mio. Darai a Carlo i due manifesti del Cicerone, e lo saluterai carissimamente per parte di Gaetano Melchiorri, che mi comparve l’altro giorno in camera all’improvviso. Già s’intende che lo saluterai senza fine per parte mia, e così Luigi e Pietruccio, e che bacerai la mano per me a Babbo e a Mamma. Salutami anche il Curato e Don Vincenzo. Se io ti voglio più bene? che domanda! Domandami piuttosto se ti posso voler più di bene. Qui non è Maggio ma Gennaio, e già da quindici giorni io son ritirato dal mondo, maledicendo Bologna e chi l’ha inventata. Oh qu’heureux que je suis! non ti pare? Addio addio.
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A Carlo Leopardi
Al fratello Carlo è riservato il racconto di una amicizia amorosa che da qualche giorno sta illuminando la vita di Giacomo. La contessa Teresa Carniani Malvezzi, poetessa e traduttrice, anima uno dei salotti bolognesi più frequentati dagli intellettuali. La liaison con il poeta finirà in modo piuttosto brusco di lì a qualche tempo (pare su iniziativa di lei), confermando in Leopardi il pessimismo radicale sulle umane vicende.
Bologna 30 Maggio 1826
Carluccio mio. Paolina mi dice che tu hai delle critiche da fare ai miei Manifesti del Cicerone. Perchè non me le scrivi? Ti lagni ch’io non ti abbia mandati i versi fatti per l’Accademia. Sappi che li avevo messi già nell’involto; poi li cavai, perchè non avrei voluto che capitassero in altre mani che tue e di Paolina, del che non potevo esser sicuro. Ti mando per la posta le mie cose stampate nell’Antologia. Ma non voglio che sieno vedute se non da Paolina e da te. Leggendole, capirai la ragione. Scrivimi dunque un nome immaginario, sotto il quale io le possa diriger costà. Fammi il piacere di dare a Babbo l’acclusa cartina, e di dire a Mamma che Angelina mi fece sapere che Don Rodriguez era da qualche tempo allettato, e mostrava di voler campar poco. Ieri poi mi mandò a dire che era peggiorato assai, e che in camera sua non entrava più nessuno. Se saprò altro di nuovo, lo scriverò subito.
Che fai, Carluccio mio caro? Come mi ami? Parlai tanto di te con Gaetano Melchiorri, che ti vuol proprio bene, e ti compatisce veramente di cuore. Sfogati di quando in quando con me, mio caro e sventurato. Io sarò costì fra due o tre mesi immancabilmente, se pure la mia salute non me lo rendesse impossibile affatto.
Sono entrato con una donna (fiorentina di nascita, maritata in una delle principali famiglie di qui) in una relazione, che forma ora una gran parte della mia vita. Non è giovane, ma è di una grazia e di uno spirito che (credilo a me, che finora l’avevo creduto impossibile) supplisce alla gioventù, e crea un’illusione maravigliosa! Nei primi giorni che la conobbi, vissi in una specie di delirio e di febbre. Non abbiamo mai parlato di amore, se non per ischerzo, ma viviamo insieme in un’amicizia tenera e sensibile, con un interesse scambievole, e un abbandono, che è come un amore senza inquietudine. Ha per me una stima altissima; se le leggo qualche mia cosa, spesso piange di cuore, senz’affettazione; le lodi degli altri non hanno per me nessuna sostanza, le sue si convertono tutte in sangue, e mi restano tutte nell’anima. Ama ed intende molto le lettere e la filosofia; non ci manca mai materia di discorso, e quasi ogni sera io sono con lei dall’avemaria alla mezzanotte passata, e mi pare un momento. Ci confidiamo tutti i nostri secreti, ci riprendiamo, ci avvisiamo dei nostri difetti. In somma questa conoscenza forma e formerà un’epoca ben marcata della mia vita, perchè mi ha disingannato del disinganno, mi ha convinto che ci sono veramente al mondo dei piaceri che io credeva impossibili, e che io sono ancora capace d’illusioni stabili, malgrado la cognizione e l’assuefazione contraria così radicata; ed ha risuscitato il mio cuore, dopo un sonno anzi una morte completa, durata per tanti anni.
Dì a Luigi che m’ingegnerò di servirlo della musica. Saluta fervidamente Babbo e Mamma, Paolina, Luigi, Pietruccio. Scrivimi, anima mia, e credi che se io vengo ricuperando della mia potenza di amare, altrettanto cresce di giorno in giorno la forza e la sensibilità dell’amore smanioso ch’io ti porto, e che per tanto tempo è stato l’unico segno di vita dell’anima mia.
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A Francesco Puccinotti
Scrivendo all’amico medico di un’altra poetessa emergente, Caterina Ferrucci Franceschi, Leopardi si esprime con forza a favore di una scrittura diversa: una prosa più “europea”, moralmente e civilmente impegnata contro la tirannia. E alla fine, rimanendo in tema, gli confida la preoccupazione che la censura impedisca la stampa delle sue attese Operette.
Bologna 5 Giugno 1826
Mio caro Puccinotti. Credi a me che se nell’ultima lettera ti trattai col voi piuttosto che col tu, fu senza deliberazione, e perchè così mi sarà venuto alla penna; e se non sottoscrissi il mio nome, fu propriamente per segno di confidenza, e perchè così soglio fare cogli amici intrinsechi, stimando che a loro non bisogni la sottoscrizione per riconoscermi. Come stai del tuo mal di capo? Come va la lettura del Byron? veramente questi è uno dei pochi poeti degni del secolo, e delle anime sensitive e calde come è la tua. Le Memorie del Goethe hanno molte cose nuove e proprie, come tutte le opere di quell’autore, e gran parte delle altre scritture tedesche; ma sono scritte con una così salvatica oscurità e confusione, e mostrano certi sentimenti e certi principii così bizzarri, mistici e da visionario, che se ho da dirne il mio parere, non mi piacciono veramente molto. […] Io parlo qui spesse volte e sento parlare della Franceschi, che ha mossa di sè un’aspettazione grande. Se i tuoi consigli possono, come credo, nell’animo suo, confortala caldamente, non dico a lasciare i versi, ma a coltivare assai la prosa e la filosofìa. Questo è quello che io mi sforzo di predicare in questa benedetta Bologna, dove pare che letterato o poeta, o piuttosto versificatore, sieno parole sinonime. Tutti vogliono far versi, ma tutti leggono più volentieri le prose: e ben sai che questo secolo non è nè potrebbe esser poetico; e che un poeta, anche sommo, leverebbe pochissimo grido, e se pur diventasse famoso nella sua nazione, a gran pena sarebbe noto al resto dell’Europa, perchè la perfetta poesia non è possibile a trasportarsi nelle lingue straniere, e perchè l’Europa vuol cose più sode e più vere che la poesia. Andando dietro ai versi e alle frivolezze (io parlo qui generalmente), noi facciamo espresso servizio ai nostri tiranni, perchè riduciamo a un giuoco e ad un passatempo la letteratura dalla quale sola potrebbe aver sodo principio la rigenerazione della nostra patria. La Franceschi, datasi agli studi cosi per tempo e con tale ingegno, potrà farsi immortale, se disprezzerà le lodi facili degli sciocchi, lodi che sono comuni a tanti e che durano tanto poco, e se si volgerà seriamente alle cose gravi e filosofiche, come hanno fatto e fanno le donne più famose delle altre nazioni. Ella sarà un vero onor dell’Italia, che ha molte poetesse, ma desidera una letterata.
I miei Dialoghi stampati nell’Antologia non avevano ad essere altro che un Saggio, e però furono così pochi e brevi. La scelta fu fatta da Giordani, che senza mia saputa mise l’ultimo per primo. Il manoscritto intero è adesso a Milano, dove si stamperà permettendolo la Censura, del che si dubita molto. Io ti amo e parlo spesso di te con quelle lodi e in quella maniera che tu meriti.
Come vanno le tue lezioni? E che belle cose stai meditando? Scrivimi, ed amami di cuore, e, se ti posso servire, adoprami.
Il tuo Leopardi