C’è stato un tempo, negli anni Settanta del secolo scorso, in cui i suoni e le voci provenienti dalle radio erano parte concreta della vita quotidiana di tanti. Dal libro che raccoglie le storie dei protagonisti di quell’epoca vi proponiamo quella scritta da Michel Alain Lagnaz, già dj di Teleradiobologna, una delle prime emittenti libere italiane. Ringraziamo Marzio Bossi e l’associazione “Legg’io” per la lettura.
Sul finire degli anni Settanta il sogno di tutti i ragazzi era quello di trasmettere in una radio libera.
Da qualche anno per me quel sogno era diventato realtà. La passione per la musica e per l’alta fedeltà me l’aveva trasmessa mio fratello Sergio, di sedici anni più vecchio di me, che possedeva un impianto di tutto rispetto composto da un amplificatore Nikko, un giradischi Lenco, due diffusori acustici della Altec e un microfono Shure che mi aveva insegnato a usare fin da bambino. Io avevo studiato quell’impianto a tal punto che ero arrivato anche a essere in grado di eseguire delle piccole riparazioni da solo. Con il microfono passavo interi pomeriggi e mi divertivo a imitare Arbore, Boncompagni e soci, mentre mio fratello sceglieva un disco dalla sua collezione di centinaia di LP degli artisti più importanti dell’epoca: Donna Summer, Barry White, Earth, Wind & Fire, Kool & the Gang, Pink Floyd.
In definitiva i migliori.
I brani di quei dischi ormai li conoscevo come le mie tasche. La natura poi mi aveva dotato di una voce calda e particolare, che con il continuo allenamento avevo imparato a modulare in modo perfetto.
Per farla breve ero in possesso di tutte le caratteristiche giuste per diventare uno speaker radiofonico.
Nel 1978 le emittenti private a Bologna si contavano sulle dita di una mano: TRB, Radio Bologna 101, Radio Bologna Notizie, Nettuno Onda Libera e poi la mia preferita, Antenna Uno, che decisi di contattare per fare un provino e capire se c’era la possibilità di lavorare per loro.
Non avevo ancora compiuto diciotto anni ma, nonostante la giovane età, ottenni un appuntamento con Andrea, il direttore, un giovanotto di cinque o sei anni più vecchio di me, gentile e dall’aria colta e simpatica. Mi fece accomodare nel suo minuscolo ufficio e iniziammo a parlare. Tutti gli ambienti erano particolarmente piccoli, il contrario di quello che mi ero immaginato da casa. Una delle tante belle particolarità della radio è che ognuno può immaginare ciò che vuole e come vuole, chiudendo gli occhi e sognando.
Gli studi erano ricavati da una mansarda a pochi passi dalla Chiesa del Sacro Cuore, vicino alla stazione. La sala più grande era quella che conteneva gli scaffali con i vinili: tra 33 e 45 giri ce n’erano diverse migliaia e rimasi impressionato a vedere tutta quella musica sistemata insieme. Poi c’era la sala di trasmissione, con il banco di regia, due giradischi, due piastre di registrazione, due registratori a bobina e due microfoni: tutto doppio, le pareti e il soffitto rivestiti di cartoni portauova e un paio di salette di registrazione più o meno arredate nello stesso modo.
Andrea mi fece domande riguardanti la musica e le mie passioni, e scoprimmo di avere gusti simili. Dopo qualche altra chiacchiera su impianti e apparecchiature, decise che potevo provare a registrare un provino. Rimase stupito quando rifiutai l’aiuto di un tecnico. Nel giro di una mezz’oretta avevo registrato la mia bobina sul Revox senza nessun tipo di difficoltà, avendo a che fare con strumenti che conoscevo perfettamente.
Due settimane dopo Andrea mi richiamò affidandomi un programma in onda la sera dalle nove alle undici in cui dovevo leggere le lettere degli ascoltatori, che si sarebbe intitolato “Sottovoce”.
Nel corso della mia carriera ho condotto tante trasmissioni televisive, presentato centinaia di serate di fronte a migliaia di persone, cantato e inciso dischi ma l’emozione provata la prima volta che ho indossato la cuffia, ho abbassato il cursore e ho parlato in diretta per radio non l’ho mai più avuta. Era tutto un mondo magico, quello, fatto di piccoli gesti rituali: preparare la scaletta musicale, prendere i dischi che si era deciso di programmare dagli scaffali, estrarli delicatamente dalla loro custodia, spolverarli con l’apposito panno, sistemare la puntina sul solco giusto per una perfetta partenza, sentire in cuffia dopo un attimo di sfrigolio le prime note e, infine, iniziare a parlare per smettere un momento prima dell’inizio del cantato.
Nel giro di qualche mese mi ero completamente sciolto. L’arrivo di lettere indirizzate al mio programma aumentava in maniera esponenziale, finché arrivai a riceverne più di un centinaio al giorno.
Il successo della radio cresceva ogni istante e il mio successo personale aumentava con lei.
Un giorno Andrea mi chiamò nel suo ufficio: mi disse che aveva deciso di affidarmi un programma in diretta dal lunedì al venerdì. Era l’orario di punta, quello dalle 15 alle 17, una trasmissione che interagiva con gli ascoltatori che potevano telefonare per fare dediche, saluti e richieste. In poco tempo le chiamate aumentarono talmente tanto che fu necessario aggiungere una nuova linea telefonica e assumere una segretaria che si occupasse dei due apparecchi che squillavano di continuo. Da quel momento il mio mondo diventò la radio: ci passavo intere giornate, preparavo le trasmissioni almeno con un giorno d’anticipo, leggevo tutte le lettere che mi arrivavano, spedivo centinaia di mie fotografie alle ammiratrici che me ne facevano richiesta e, ogni giorno, finito il programma, incontravo decine di ragazzine che mi aspettavano fuori dagli studi chiedendomi autografi e foto con loro. Improvvisamente ero diventato un personaggio conosciuto in tutta la città. Nonostante questa popolarità (soprattutto in ambito femminile, devo dire) e le centinaia di lettere e telefonate romantiche che ricevevo, non avevo ancora avuto nessuna storia d’amore importante.
Avevo diciotto anni ed ero praticamente ancora vergine.
In quel periodo le emittenti trasmettevano in diretta praticamente ventiquattro ore su ventiquattro, le registrazioni al massimo potevano durare tre o quattro ore; quindi era necessario un responsabile di stazione che fosse presente in radio anche di notte e nei giorni festivi, compito che tutti noi speaker ci dividevamo facendo dei turni. A me ogni lunedì toccava una notte che iniziava alle undici e finiva alle sei del mattino. Anche di notte le telefonate degli ascoltatori abbondavano. Chi era di turno rispondeva di persona e fu proprio una di quelle notti che lei mi telefonò.
Ero ai miei inizi e avevo appena terminato la mia trasmissione.
Aveva una voce più calda e adulta di quella delle ragazzine alle quali ero abituato. Chiacchierammo per più di un’ora, mi disse che mi ascoltava fin dai primi tempi in cui avevo iniziato e che la trasmissione che preferiva era “Sottovoce”. Mi aveva scritto diverse volte usando uno pseudonimo e alcune delle sue lettere le avevo lette in diretta. Parlava un corretto italiano, senza nessuna inflessione dialettale e con un modo molto affascinante di esprimersi. Ne rimasi colpito, anche per il suo nome particolare: Estefania, proprio così, con la e posta davanti al nome Stefania.
Riattaccato il telefono, pensai di dedicarle Questo piccolo grande amore di Baglioni.
Quella mattina, finito il turno, faticai non poco a prendere sonno. Estefania si aggirava nella mia testa, con la sua voce calda e suadente, e le parole affettuose che mi aveva rivolto.
Qualche giorno dopo capitò una cosa particolare.
Mancavano pochi minuti alle undici e stavo per mettere la sigla finale di “Sottovoce”, che era Float On dei Floaters. Pochi minuti e avrei disceso la ripida scaletta che portava al cortile esterno. Di solito la sera non c’era mai nessuno ad aspettarmi fuori. Quindi, come facevo di solito, sarei andato a trovare i miei amici alla pizzeria Jari a pochi passi dagli studi, avremmo riso e scherzato e forse guardato un film e poi me ne sarei andato a dormire. Invece quella sera, seduta dentro una cinquecento rossa fiammante (io la macchina ancora non l’avevo, mi muovevo con un Ciao, rosso anche quello) c’era una donna ad aspettarmi.
Scese dalla macchina e mi venne incontro chiamandomi per nome, come se mi conoscesse da sempre.
Io sorrisi, rimanendo un po’ interdetto. Poi si avvicinò, mi baciò e si presentò.
Era Estefania.
Me l’ero immaginata bella ma non così… Elegantissima e delicatamente profumata, occhi scuri con un taglio vagamente orientale, labbra carnose e denti perfetti.
Neanche a dirlo, me ne innamorai subito perdutamente.
Quando quella sera entrai in sua compagnia da Jari avrei voluto fotografare le facce dei miei amici. Mangiammo la pizza, che mi sembrò la più buona della mia vita, e mentii spudoratamente dichiarando che avevo ventiquattro anni (lei ne aveva ventisette e si era appena lasciata dal fidanzato a un passo dal matrimonio). Rise moltissimo quando le dissi che non avevo ancora la patente. Il Ciao lo lasciai incatenato sotto la sede della radio e mi riaccompagnò a casa a notte inoltrata, dopo che, tra una risata e l’altra, ci eravamo raccontati buona parte delle nostre vite. Al momento dei saluti fu lei a prendere l’iniziativa e a baciarmi.
Fu quello il bacio più sensuale e profondo che avessi mai ricevuto in vita mia.
Quella notte non chiusi occhio.
Prendemmo a vederci quasi ogni giorno e a frequentare il suo mini appartamento in pieno centro dove facevamo l’amore di continuo. Mi insegnò a diventare un amante impeccabile e non si scandalizzò per niente neanche quando le dissi che di anni ne avevo solo diciannove. Spesso veniva anche in radio durante le trasmissioni e quei giorni le mie dirette erano più che mai allegre e frizzanti. Le piaceva essere presente durante le interviste che facevo ai cantanti. In quelle occasioni le presentai Renato Zero, Vasco Rossi, Umberto Tozzi, Enrico Ruggeri, tutti personaggi che erano agli inizi e che pochissimi conoscevano e si servivano delle radio libere per farsi pubblicità.
Fu proprio durante una di queste interviste che conobbe un attore alle prime armi che le presentai io, un certo Claudio, un bel tipo che si stava facendo largo nel mondo dei fotoromanzi. Quel giorno mi sentii come il protagonista della canzone di Aznavour Io tra di voi.
Lui se la prese e se la portò a Roma.
Dopo sei mesi la nostra storia finiva lì, in quel modo assurdo, e per mano mia per giunta. La mollai per telefono qualche settimana dopo la sua fuga. Cominciò per me un periodo di grande malinconia. Anche in radio non rendevo più: la tristezza incrinava la mia voce, ogni canzone romantica che mettevo in onda mi faceva venire un groppo alla gola e avevo preso anche a trascurarmi fisicamente.
Stavo perdendo la voglia di vivere.
Finché un lunedì, giorno del mio turno notturno, capitò qualcosa.
Stavo lavorando, e, tra una lacrima e l’altra, cercavo di far passare la notte, che pareva buia e infinita. A un certo punto lei mi telefonò. Aveva un timbro caldo e sensuale, mi disse che mi ascoltava sempre e che la mia voce la faceva sognare. Le dedicai Amore bello, ancora Baglioni.
Si chiamava Lilly ma io non ero un vagabondo.
Io ero un dj.