1 marzo 2011
Lo chiamavano il “gigante buono”. Troppo buono per essere un pugile: una sorta di ossimoro. Ma Dante Canè, il pugile più amato di Bologna, era così. Aveva un grande animo. Lo ricorda con nostalgia la figlia Paola e lo ricorda anche un libro uscito nel maggio dell’anno scorso per i tipi della Renoedizioni, scritto a dieci anni dalla sua scomparsa da Claudio Bolognini e intitolato “La ballata di Dante Canè, la storia popolare del gigante buono”.
“Mi ricordo solo che quando mio padre tornava da lavorare o aveva un occhio gonfio o una mano fasciata”, dice Paola. La vita di Dante dopo l’abbandono del ring nel 1978 a 39 anni, si è svolta dietro il bancone di una salumeria nel quartiere di San Donato. Una vita prima dedicata ai guantoni, fatta di biglietti d’aereo, di coppe vinte, di fasce tricolori, e poi alla famiglia.
Il primo pugile eroe bolognese dei tempi andati fu Francesco Cavicchi di Pieve di Cento, campione d’Europa nel 1955 e tra i primi dieci pugili mondiali di quell’anno. Le prime sfide di Checco Cavicchi i bolognesi andavano a vederle in Sala Borsa, oggi splendida biblioteca comunale, e allo stadio. Poi cercarono il suo erede in Dante Canè da Granarolo, e lo videro combattere al Palazzetto dello Sport, prima di affrontare ring più impegnativi.
La carriera professionistica di Canè conta 45 vittorie da peso massimo, 6 pareggi e 15 sconfitte. Campione d’Italia nel 1961, ’62 e ’63, tentò due volte l’assalto al titolo europeo, nel ’75 contro l’inglese Joe Bugner e nel ’78 contro l’uruguaiano Alfredo Evangelista, ma fu battuto entrambe le volte per ko. Gianfranco Civolani, memoria storica della boxe bolognese, ricorda che “all’epoca si diceva sempre che ci voleva la grinta di Dante e il fisico di Cavicchi, per fare il pugile perfetto”. Della determinazione di Canè sul ring è testimone il grande campione Nino Benvenuti: “Dante aveva il coraggio di un peso mosca”.
Canè mancò le due occasioni della sua vita, l’assalto al titolo europeo, forse per esserci arrivato troppo tardi. Ma i vecchi bolognesi non dimenticano il suo spirito di sacrificio, il suo coraggio, la sua serietà, qualità indispensabili per ogni sportivo. Quando lo vedevano salire sul ring, non potevano non esclamare: “sòccia, che fisico!”.