Giornalista, scrittore e fotografo, Mario Vianelli ha raccontato il suo percorso a piedi lungo i 500 chilometri che, fra Berceto, la Verna e Carpegna, in un continuo saliscendi, congiungono gran parte dei parchi appenninici dell’Emilia-Romagna.
Dalla Vena del Gesso l’Alta Via volta le spalle alla pianura ormai vicina per puntare nuovamente verso il crinale appenninico; occorreranno due lunghi giorni di cammino prima di raggiungere le propaggini del Parco nazionale delle Foreste Casentinesi, ultimo anello della catena di aree protette che stiamo seguendo.
Quasi tutta la giornata si snoda lungo la panoramica dorsale che divide le valli del Sintria e del Lamone, dapprima su strada asfaltata e poi lungo una successione di stradine polverose (o fangose, quando piove) e di sentieri di raccordo. Il paesaggio è simile a quello già incontrato scendendo verso la Vena ma abbondano le note mediterranee, evidenti nei pini domestici e soprattutto nelle macchie argentate degli oliveti, che forniscono una produzione olearia modesta come quantità ma di gran pregio. La vicinanza di Brisighella e la bellezza di queste dolci colline ne hanno fatto una piccola oasi residenziale; non si vedono ruderi e molte case sono rinnovate e ben tenute.
Ma salendo si ritorna ben presto nell’Appennino dell’abbandono: a monte della minuscola borgata di Zattaglia la valle del Sintria è praticamente disabitata e così gran parte delle vallette che scendono verso il Lamone. I boschi aumentano, fino a diventare la componente costitutiva del paesaggio; qua e là compaiono le improvvise scarpate che espongono gli strati di arenaria. In questo scenario solitario compare all’improvviso Cà di Malanca, oggi adibita a Museo della Resistenza in memoria dei combattimenti sostenuti nell’ottobre 1944 dai partigiani della 36° Brigata Garibaldi nel tentativo, poi riuscito, di sfuggire all’imminente accerchiamento nemico.
Poco dopo si incontra il valico di Croce Daniele, con un bar-trattoria; continuando poi sul lato del Lamone in direzione di Monte Romano si trova, a sinistra della strada (segnalata da cartello), una cerrosughera, albero sempreverde molto raro in Romagna. Ritornati nuovamente in cresta si incrocia la strada per Fontana Moneta, gruppo di edifici comprendenti anche l’antica pieve e la canonica, completamente ristrutturato da un’associazione escursionistica faentina; si trova sul fianco opposto (sinistra idrografica) della valle del Sintria, a meno di un’ora di cammino da qui, ed è possibile passarvi la notte, ma è assolutamente necessario informarsi preventivamente dell’agibilità.
Ignorando il bivio, il nostro percorso continua lungo la cresta, superando il Monte Gamberaldi e la testata valliva del Sintria, fino a incrociare, dopo Le Lastre, l’antica mulattiera che collegava Palazzuolo sul Senio e Marradi, che si segue in direzione di quest’ultimo paese. Siamo a circa ottocento metri di quota. Alle pendici del Monte Carnevale si lascia la pista più evidente per iniziare a scendere toccando Cà Mondera e Cà del Falco, disabitate e cadenti; a sinistra la vista si apre verso il borgo di Gamberaldi, con la chiesa e il massiccio Palazzo rinascimentale. Quindi, seguendo i bellissimi nomi antichi, si incontrano i ruderi di Cà di Vento; la pendenza aumenta, si calpesta qualche tratto ancora lastricato e finalmente si giunge a Marradi, proprio di fronte alla stazione ferroviaria.
Da questo borgo romagnolo, sotto l’egemonia fiorentina dal 1428 e ancor oggi in provincia di Firenze, partì esattamente un secolo fa, nel settembre 1910, Dino Campana per il suo solitario cammino verso La Verna, raccontato in un diario poetico compreso nei “Canti Orfici”. Marradi era allora un popoloso borgo di più di novemila anime, il triplo degli abitanti odierni. Dopo secoli di isolamento ultra alpes l’abolizione dei confini dopo l’Unità d’Italia, il completamento della carrozzabile per la Colla di Casaglia e l’apertura della ferrovia Faentina, nel 1893, avevano portato al paese una ventata di novità e un certo benessere.
Qui Campana era nato venticinque anni prima ed era un outsider nell’altezzosa società letteraria dell’epoca; dopo una vita tormentata e randagia morì in manicomio e la sua grandezza fu pienamente riconosciuta soltanto molto tempo dopo. Il suo percorso non è del tutto noto, ma è sicuramente differente dal nostro. Sappiamo che si fermò a Campigno (“paese barbarico, fuggente, paese notturno, mistico incubo del caos”), a Castagno d’Andrea, a Campigna, e che da lì scese a Stia (“Son sceso per interminabili valli selvose e deserte con improvvisi sfondi di un paesaggio promesso”); poi lo ritroviamo a La Verna, da dove ci ha lasciato alcune delle sue pagine più profonde e toccanti.
Il centenario, casuale, è un buon pretesto per proseguire il cammino a fianco di Dino Campana: i suoi paesaggi e le sue descrizioni visive uniscono all’evidenza fotografica il tocco sapiente della mano di un grande pittore; la sua poesia, profondamente umanista, è un rifugio in un mondo schiacciato dal materialismo; i suoi “divini primitivi”: Giotto, Dante, Leonardo, Michelangelo e Frate Francesco sono i giganti su cui poggia il nostro modo di essere.
Niente male come compagnia; il Poeta sarà una presenza discreta che ogni tanto farà sentire la sua voce.
“Il mattino arride sulle cime dei monti. In alto sulle cuspidi di un triangolo desolato si illumina il castello, più alto e più lontano. […] Il fiume si snoda per la valle: rotto e muggente a tratti canta e riposa in larghi specchi d’azzurro”. Oggi cammino con Sandro, vecchio amico e grande conoscitore delle montagne romagnole, inesauribile fonte di informazioni e di racconti. Passiamo sotto l’arco a volta che porta subito fuori dal paese lungo la mulattiera che rimonta la dorsale del Rio del Salto; nel fondovalle appaiono gli edifici compatti della Badia del Borgo, sormontati dal massiccio campanile medievale. Ruderi di case, strati rocciosi esposti all’erosione, castagneti, brandelli di coltivazioni abbandonate da tempo e distese di boschi cedui: il tutto disperso in una microgeografia di creste e vallette, ripide e aspre a dispetto delle quote modeste.
In questo che è il più tipico paesaggio della media montagna romagnola, incendiato dalle fiammate degli aceri montani nel pieno tripudio autunnale, arriviamo all’Eremo di Gamogna, annunciato da una fonte e dal minuscolo camposanto. Il complesso è molto suggestivo, disteso su un piccolo pianoro proteso verso la valle dell’Acerreta e articolato in chiesa con campaniletto a vela, canonica ed edifici conventuali affacciati sul chiostro; l’insieme era in abbandono da decenni quando un gruppo di volontari intraprese l’impegnativo restauro terminato una decina di anni fa, ed è oggi affidato alla comunità monastica della Fraternità di Gerusalemme. […]
Da Gamogna l’Alta Via scende nella valle dell’Acerreta e ne risale il fianco opposto toccando la chiesa di Trebbana, con una breve deviazione per visitare la vicina quercia, una delle più grandi dell’intera Romagna. Da lì si sale a Monte del Cerro e, dopo un tratto in cresta, si scende nella valle del Tramazzo fino alle rive del Lago di Ponte, estremo avamposto settentrionale del Parco nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna. Sulle rive boscose del laghetto artificiale si trova Casa Ponte, dove è possibile pernottare, poi il cammino risale la testata valliva fino al Colle di Tramazzo.
Io invece preferisco seguire una via più panoramica e diretta che mi consente di guadagnare un giorno sulla tabella di marcia. Saliamo quindi al Passo dell’Eremo, sulla strada fra Marradi e San Benedetto in Alpe, lungo la mulattiera che costituisce l’accesso più bello e frequentato a Gamogna. Il valico è presidiato da cacciatori in attesa di uccelli di passo; Sandro mi saluta, richiamato da impegni cittadini, io invece seguo la strada verso San Benedetto per un paio di chilometri, fino al Passo Peschiera, entrando così nel bacino del Fiume Montone.
Il sentiero che corre sulla cresta di Monte Bruno offre vedute indimenticabili di Gamogna, unica presenza umana visibile nel disordinato accavallarsi di creste erose, biancheggianti in contrasto con il caldo colore dei boschi. Così arrivo al Colle di Tramazzo, modesto valico disperso fra poggi boscosi che collega l’omonima valle a quella dell’Acquacheta; qui trovo per la prima volta il cartello del Sentiero delle Foreste Sacre, che seguiremo fino alla Verna e alla cui realizzazione ho lavorato un paio d’anni fa. Seguo la pista forestale che corre attorno ai mille metri di quota, poi inizia la discesa lungo la cresta dei Susinelli nell’aperto paesaggio di pascoli e boscaglia.
Dalle nubi filtrano lame di luce bassa che accendono i pendii: l’atmosfera è drammatica, “barbarica” come avrebbe scritto il Poeta. Mucche mi guardano dalla soglia di case diroccate; il pendio diviene più ripido e aperto, con lastre di roccia nuda. Il fondovalle dell’Acquacheta si avvicina, ma prima di arrivare alla strada che scende dal Passo Peschiera prendo il sentiero che corre a mezza costa fino a Il Poggio, la parte alta e più antica di San Benedetto in Alpe, dove si trova l’abbazia fondata all’inizio del XI secolo da san Romualdo, forse per radunare le comunità di monaci ed eremiti già presenti nei dintorni. Della struttura originaria rimangono soltanto resti inglobati dalle costruzioni successive, fra cui la bellissima cripta, ma l’insieme è austero e suggestivo.
È tardi e scendo subito per la strada lastricata che attraversa il borgo fino al paese basso, detto Il Mulino, alla confluenza fra i fossi dell’Acquacheta e Troncalosso, che generano il fiume che da qui in poi si chiama Montone. Il campeggio con l’ostello è chiuso ma trovo alloggio nella locanda vicino alla confluenza, che sarebbe chiusa per turno ma fa un’eccezione per il viandante solitario e bisognoso di ospitalità.
Il cielo è terso e l’aria pungente sa di autunno e di montagna. Il sole non è ancora arrivato fin quaggiù; fragili trine di brina, la prima che vedo quest’anno, dicono che la stagione è ormai finita e che l’inverno è dietro l’angolo. Risalgo lentamente il Fosso dell’Acquacheta incantato dalla corrente che trascina mulinelli di foglie e dalle tinte degli alberi. Nella mente mi riecheggiano le parole di Campana lette ieri sera: “Per rendere il paesaggio, il paese vergine che il fiume docile a valle solo riempie del suo rumore di tremiti freschi, non basta la pittura, ci vuole l’acqua, l’elemento stesso, la melodia docile dell’acqua che si stende tra le forre all’ampia rovina del suo letto, che dolce come l’antica voce dei venti incalza verso le valli in curve regali: poi che essa è qui veramente la regina del paesaggio.” Chi avrebbe saputo dirlo meglio?