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30 Maggio 2017 | Archivio / Protagonisti

Gabriella Degli Esposti: chiamatemi Balella

La partigiana di Castelfranco massacrata dai nazisti, senza che nessuno sia mai stato punito

A cura di Vittorio Ferorelli

Quella che vi raccontiamo oggi, care amiche e cari amici di RadioEmiliaRomagna, è una storia dura. Una storia che fa indignare e che spinge a riflettere, per la violenza estrema subita dalla sua protagonista insieme ad altri, ma anche per l’ingiustizia che continua a rivendicare a distanza di anni.

Il cammino di Gabriella Degli Esposti ha inizio il primo di agosto del 1912, quando la madre, Pia Corsini, la mette al mondo. A Calcara, una frazione di Crespellano poco distante dalla Via Emilia, nella pianura bolognese, tutti conoscono Augusto, suo padre, un socialista dal carattere gioviale che di lì a qualche anno, appena tornato dalla Prima guerra mondiale, paga con un arresto il suo sogno di un mondo meno ingiusto: vista la nomea di sovversivo, lo accusano di avere disertato e invece, insieme ad altri soldati come lui, è stato fatto prigioniero dagli austriaci.
Tra i figli di Augusto, è proprio Gabriella, detta Balella, quella che sembra assumersi il compito di portare avanti gli ideali di giustizia e di uguaglianza del padre. Finite le scuole elementari, la bambina inizia a lavorare in una fabbrica di salumi, dove poi, divenuta ragazza, conosce Bruno Reverberi, che di mestiere fa il casaro. I due si innamorano e insieme condividono la passione politica: entrambi credono nel comunismo.
Negli anni Trenta i caseifici che gestiscono insieme, a Piumazzo e poi a Riolo, diventano punti di raccolta segreti degli antifascisti locali: liberali, socialisti o comunisti che siano. Negli incontri serali organizzati dalla coppia vengono diffusi i giornali clandestini, si rafforza la rete di chi si oppone al regime e si raccolgono fondi per aiutare i prigionieri politici incarcerati nel Forte Urbano di Castelfranco Emilia, molti dei quali di passaggio, in attesa di essere mandati al confino. La loro casa ne ospita anche alcuni, rilasciati o fuggiti dal Forte; tra questi ci sarà anche Umberto Terracini, futuro presidente dell’Assemblea da cui è nata la nostra Costituzione.

Tutto questo attivismo finisce per dare fastidio. Nella primavera del 1938, Bruno e Gabriella vengono minacciati dal gerarca locale e costretti a lasciare il loro caseificio, così ben avviato, ad altri gestori, persone di fede fascista, gli unici, è evidente, in grado di fare del formaggio di puro stampo mussoliniano. Bruno sparisce dalla circolazione per un po’ ma poi ritorna, e in via Larga, a Castelfranco, nel nuovo stabilimento preso in gestione dai due coniugi, tutto continua come sempre, si fanno burro, formaggio e ricotta, e si continua a fare politica. C’è solo una novità: adesso, di sera, ci si raduna anche per ascoltare Radio Londra e i suoi messaggi in codice rivolti ai dissidenti.
Nel luglio del ’43, terzo anno della guerra mondiale voluta da Hitler e Mussolini, Gabriella partecipa in prima fila, con altre donne, a una manifestazione pubblica per protestare contro la scarsità di pane, e si guadagna nuove minacce. Dopo l’8 settembre e la capitolazione dell’esercito italiano, a Castelfranco i fascisti spadroneggiano come non mai, forti della presenza minacciosa dei tedeschi, che ora hanno occupato l’Italia. A questo punto, poiché per fare il loro formaggio sono costretti ad avere la tessera col fascio, la coppia cessa l’attività. Entrambi, allora, intensificano la lotta, sabotando in ogni modo il passaggio delle truppe hitleriane: seminano chiodi sulle strade, spostano cartelli segnaletici, raccolgono armi. Ai primi di ottobre del ’44, quando il partigiano Roberto Moscardini viene ucciso e il suo cadavere viene appeso per i piedi davanti all’entrata della scuola, perché anche i bambini lo vedano e imparino a rigare dritto, è Balella a farsi avanti per chiedere che il corpo sia sepolto. Qualche giorno dopo, tocca al suo Bruno: viene picchiato a sangue dai soliti ignoti, dopodiché si decide ad andare sulle montagne, verso Montefiorino, dove raggiunge i compagni di resistenza.

Gabriella resta da sola, con due bambine piccole e un’altra creatura in arrivo. Il 13 dicembre, nella loro casa, irrompe un reparto di SS. Sono criminali nazisti in divisa militare, fanatici e violenti. Quando le urlano addosso il suo nome e quello di suo marito, Balella raccoglie il suo sangue freddo e risponde che i proprietari di casa non ci sono, che lei è sfollata lì con le piccole, e li convince a cercare in un’altra località. Poco dopo le SS ritornano, mettono a soqquadro la casa, il loro comandante la picchia senza ritegno davanti alle figlie terrorizzate e la fa portare via. La rinchiudono nell’Ammasso della canapa, un edificio alle porte di Castelfranco, insieme a molte altre persone rastrellate, come lei, su indicazione di alcuni fascisti del posto. Viene torturata, ma non parla. Le portano davanti altre persone perché le riconosca come partigiani, ma lei finge di non riconoscerne nessuna.
Il 17 dicembre, a Ca’ Nova, nei pressi di San Cesario, sul greto del fiume Panaro, Gabriella viene fucilata insieme ad altre dieci persone, unica donna del gruppo. Ma prima le tolgono gli occhi, i seni e la creatura che portava in grembo, mai più ritrovata.

In un paese normale, finita la guerra, Bruno Reverberi e le sue due figlie, Savina e Lalla, avrebbero avuto ciò che spettava loro: giustizia, gratitudine, rispetto. E invece no. Lui, nel ’46, viene accusato di aver fatto da complice nell’assalto a un deposito di armi e munizioni a Ponte Ronca: il suo partito lo disconosce, il giornale che per tanti anni aveva diffuso a rischio della vita lo diffama, i magistrati lo chiudono in carcere per più di un anno, poi lo rilasciano perché è innocente. La somma di 1500 lire annue riconosciuta come indennizzo insieme alla medaglia assegnata a Gabriella non viene mai ricevuta da Bruno perché la legge, fatta per i militari, prevede che l’assegno venga riscosso solo da una vedova, non da un vedovo. E poi gran parte di quelli che li avevano umiliati al tempo delle camicie nere restano dove sono, senza subire conseguenze.
A Castelfranco, per giunta, si insedia Silvestro Cau, un maresciallo dei Carabinieri che si fa vanto di perseguitare i comunisti con ogni mezzo, anche calcando sulla faccia degli arrestati una maschera antigas imbevuta di acqua salata, in modo da soffocarli; anni dopo, nel processo a suo carico, ammetterà di avere usato questo metodo ma sarà prosciolto, e del resto in Italia, ancora oggi, non c’è una legge che punisca l’uso della tortura.
Ma, soprattutto, nonostante che fin dai primi giorni della liberazione la magistratura avesse i nomi dei criminali nazisti che avevano massacrato Gabriella, per sessant’anni nessuno li ha chiamati a rispondere. Il fascicolo della strage di San Cesario, infatti, è finito anch’esso nel famigerato “armadio della vergogna“, il mobile girato al rovescio, con le ante verso il muro, scoperto nel 1994 in un archivio della Procura generale militare di Roma. Con centinaia di altri fascicoli che documentano le stragi naziste compiute in Italia era stato “archiviato provvisoriamente”, ovvero occultato, all’inizio degli anni Sessanta.

Nel marzo del 2004 il Tribunale militare di La Spezia chiama a rispondere dell’eccidio di San Cesario gli ex tenenti Schiffmann e Rüdiger, e gli ex capitani Heidemann e Hinze. La corte, però, può procedere solo contro Johannes Karl Schiffmann, perché gli altri imputati ormai sono morti. È proprio il comandante che strappò Balella dalla sua casa sessant’anni prima, ma all’inizio del processo, ultranovantenne, muore anche lui, dopo avere trascorso una vita indisturbata, tappezziere e poi pensionato in un tranquillo paesino della Bassa Sassonia. Quello stesso anno, due giornalisti tedeschi realizzano un reportage televisivo in cui dimostrano che anche la Germania non ha fatto quel che poteva per abbreviare i tempi. La strage resta per sempre senza colpevoli riconosciuti.
Oggi, dove sorgeva l’Ammasso della canapa, è stato costruito un ipermercato e la memoria di quei giorni, oltre a farsi sempre più flebile, è minacciata da chi cerca di far passare per criminali chi ci ha liberato e da martiri chi li tormentava. Anche per questo Savina Reverberi, la figlia maggiore di Gabriella Degli Esposti, di recente ha pubblicato un libro in cui racconta la storia della sua famiglia, e cerca di ritrovare lo sguardo profondo di sua madre.

[Insieme a Gabriella Degli Esposti, a Ca’ Nova di San Cesario sul Panaro, vennero fucilati: Sigialfredo Baraldi; Gaetano Grandi; Ettore Magni; Annibale Marinelli; Livio Orlandi; Roberto Pedretti; Dino Rosa; Lucio Pietro Tosi; Ezio Zagni; Riccardo Zagni]

[Il libro di Savina Reverberi Catellani, “Gabriella degli Esposti, mia madre. Storia di una famiglia nella tragedia della guerra“, è stato pubblicato nel 2016 dalle Edizioni Artestampa di Modena]

 

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