55 anni fa usciva nelle sale “La dolce vita” di Federico Fellini. Durante le riprese di quel film, il regista conobbe il giornalista e scrittore spagnolo José-Luis de Vilallonga, che tre anni dopo lo avrebbe intervistato a tutto campo sulla sua vita.
D’un tratto, Fellini esclama: “La mia infanzia è stata una specie di sogno costruito per tutta la mia vita…”.
Non dico nulla. Attendo. Allora, come rivolto a se stesso, Federico mormora: “Niente di vero mi è capitato. Ho inventato tutto”.
Fellini mi ha appena consegnato la chiave dei suoi segreti. Me ne impadronisco, confortato. Ma so già che non ne farò mai uso.
“Mio padre” – dice Fellini – “era romagnolo. Mia madre, romana. Il risultato è un incrocio da non sconsigliare. Ho un fratello solo, Riccardo, di un anno più piccolo. Eravamo una famiglia molto raccolta. Non frequentavamo altri parenti. Niente zii, né zie, né cugini. Decisamente non avevamo lo spirito tribale. In Italia, e nel nostro ambiente, la cosa era davvero eccezionale. Per non dire, sospetta.
Mio padre si chiamava Urbano. Urbano Fellini. Era grande, calmo e sorridente. Segno particolare: non c’era mai. Viaggiatore di commercio, percorreva senza sosta il Nord-Italia, rappresentante di una ditta di alimentari le cui specialità erano le marmellate e il caffè”.
“Non ho mai avuto con mio padre una vera confidenza. Più che un padre, vedevo in lui il mito in carne e ossa di quel tipo umano che elogiò per tutta la sua vita: il piccolo borghese solido, tradizionale, dalle ambizioni modeste, i cui culti essenziali erano semplicissimi: la patria, i morti, la famiglia.
I suoi discorsi non erano che una successione di frasi fatte: ‘Bisogna perdonare alla gioventù… C’è un tempo per ogni cosa, anche per le sciocchezze… Presto o tardi la verità viene fuori… il matrimonio è una cosa seria, è per sempre…’. Credeva duraturo come il ferro tutto quello che diceva. Per me che ho sempre dubitato del valore delle parole, questa fede cieca negli assiomi più corrivi toglieva ogni voglia di avviare il minimo dialogo. In effetti, mio padre mi intimidiva alquanto.
Voleva fare di me un avvocato. Rabbrividisco ancora quando ci penso. Per fortuna, non avevo all’epoca che un solo talento: il disegno. E una fobia naturale: i discorsi. Mio padre comprese molto in fretta che non avevo nessuna possibilità di fare una brillante carriera nella magistratura. Diventai così – credo con suo grande disonore – giornalista.
[…]
Tutta la provincia italiana è fatta di uomini come mio padre. Laboriosi, tenaci, riservati. Avrei desiderato conoscerlo meglio. E avergli voluto bene in modo migliore…”.
Di sua madre, Ida Barbiani, Fellini mi parla in tutto un altro tono. Un tono indefinibile, nel quale il distacco è finto, il rispetto reale, la reverenza sempre presente.
“Mia madre è romana”.
Questa volta, non ha potuto esimersi dal darne l’annuncio in modo solenne. Il ragazzino di Rimini resta ancora sedotto dall’idea d’esser nato dal grembo di una Romana. La leggenda della Lupa è ancora presente nelle sue fantasie di fanciullo.
“Sì, mia madre è romana”.
Ho l’impressione che non ce ne usciremo di lì. È curioso, ma gli uomini dei paesi latini non si sono mai sentiti a proprio agio nel parlare della propria madre. Forse perché c’è spesso, nel loro affetto, un elemento turbante sul quale i freudiani sono impotenti, perché si tratta di un elemento d’origine divina, in massimo grado irrazionale. Perché, nei paesi latini, essere solo madre sarebbe troppo semplice. La madre, ma soprattutto la donna, l’uomo l’adora in quanto dea. Non tollera in lei alcuna mancanza. Sublimazione più pericolosa ancora della morte. La adorna di tutte le virtù. E a quel punto, la morte viene sopravanzata da mille altri pericoli.
Allora, quando nei paesi latini l’uomo parla di sua madre, lo fa a voce bassa, conscio di avere fabbricato allegramente di sana pianta una sorta di figura mostruosa che egli deve amare di un amore irreale. Altrettanto deve osservare il silenzio. O fingere, come Fellini, un distacco che la voce e lo sguardo smentiscono: “Mia madre è una donna molto coraggiosa che certi miei film hanno fatto assai penare…”.
Fellini, a disagio, accende una Nazionale super esportazione filtro. Con l’occhio aggrottato dal fumo della sigaretta, dice, senza passaggi: “È in riva al mare che ebbi per la prima volta la rivelazione della donna”.
[…]
“Avevo otto anni. Facevo la seconda elementare dalle Suore di San Vincenzo.
A quell’epoca, una donna enorme, bianca e sudicia, viveva solitaria in una specie di capanna che lei aveva costruito sulla spiaggia con le proprie mani. La sera, sulla sabbia, si concedeva ai pescatori che avevano il coraggio di avvicinarla. La pagavano lasciandole raccattare sul fondo delle loro barche quanto restava di quelle sardine minuscole che noi chiamiamo, a Rimini, le saraghine. La si chiamava, naturalmente, la Saraghina.
Per due soldi, la Saraghina alzava lentamente la sua enorme gonna bucherellata e mostrava, per qualche secondo, un posteriore immenso, scialbo, che doveva far sognare le genti tirate su con la leggenda di Moby Dick. Per il doppio di questo prezzo, la Saraghina si voltava.
La prima volta che la vidi, ero andato alla spiaggia insieme con quattro compagni di classe. Per procurarci il denaro occorrente alla spedizione, avevamo raschiato il fondo dei cassetti, venduto delle biglie, domandato un prestito ai compagni”.
“Era piena estate. La notte era calda, superba. Sotto la luce della luna, la spiaggia tremolava come argento vivo.
A colpi di sassi lanciati sul tetto di latta della sua capanna, avvertimmo la Saraghina della nostra presenza. Ella balzò subito fuori di casa come una belva furiosa, urlando e bestemmiando. Quando ci scorse, fece qualche passo verso di noi senza smettere di gridare terribili ingiurie. Eravamo tutti e cinque paralizzati dal terrore. Non avevamo nemmeno il coraggio di retrocedere. La Saraghina era vestita di una maglia da marinaio a righe blu e nere, e di una sottana di cenci che le arrivava giusto alle ginocchia. Aveva polpacci color avorio, enormi.
– Ce li avete dei soldi? – gridò.
– Si… sì…
– Portateli!
Fui io colui che le si avvicinò. La Saraghina aveva una testa da leone, occhi cinesi, una bocca grandissima, come di caucciù, che contorceva. Odorava fortemente del pesce di cui si nutriva, delle alghe che si mescolavano ai suoi capelli, del petrolio e del catrame delle barche che annerivano le sue caviglie.
Posai il denaro ai suoi piedi, sulla sabbia. Delle monete avvolte in un fazzolettone a quadri. Poi mi ritirai precipitosamente. Alla mia fuga, la Saraghina esplose in una risata che mi gelò il sangue. Una gran risata che suonava alle mie orecchie come il mare scatenato all’interno di una conchiglia marina.
La Saraghina contò i soldi, pezzo per pezzo, a voce alta. La cifra era esatta. Il prezzo del suo numero, al gran completo. Ella vi si accinse con lentezze da rito magico. Sorrideva, lontana, con una sorta di fierezza patetica e, dirò insieme, di orgoglio. Fu al contempo meraviglioso e terribile. Presi da un improvviso panico collettivo, fuggimmo tutti in una volta, ben prima che lo spettacolo avesse termine. Corremmo così veloci che alcuni di noi crollarono sulla sabbia a più riprese, come lepri ansimanti”.
“Quella stessa sera, mi capitò una cosa straordinaria. Mio zio Alboino – il solo parente ben accetto nella cerchia della famiglia –, facendoci visita, aveva lasciato su un tavolo un gran pacco di libri. Zio Alboino si occupava di occultismo. Mi faceva molta paura. Era la sola persona di mia conoscenza a cui mi era impossibile raccontare la minima bugia. I suoi occhi immobili mi trapanavano, spietati, appena aprivo bocca. In sua presenza, diventavo muto. Da giovane, zio Alboino aveva cercato nei vecchi libri di magia il segreto della pietra filosofale. Non l’aveva mai trovato. Questo fallimento lo aveva reso sarcastico e poco incline alle confidenze. Zio Alboino e i suoi libri mi affascinavano.
Uno dei volumi appoggiati sul tavolo era un rituale di magia nera. Lo aprii – o piuttosto, si aprì da solo appena lo ebbi sfiorato con un dito – a una pagina ricoperta di disegni medievali raffiguranti il Diavolo – Bafometto, secondo l’appellativo ermetico di mio zio – sotto tutte le sue forme. Angelo, bestia, mostro.
Nel basso della pagina, disegnata in tratti sottili e neri, riconobbi, stupefatto, la Saraghina. Aveva un corpo di leopardo, un sedere grande come il mondo, e in testa una corona scintillante di pietre preziose raffiguranti occhi umani. A parte questo, la stessa bocca da orco affamato, gli stessi occhi di drago asiatico, la stessa boscaglia di capelli, intrecciata a vipere al posto delle alghe.
Tremando in tutte le membra, richiusi il libro e salii a dormire in punta di piedi. Colombo scoprendo l’America non aveva provato un’emozione simile. Dovevo assolutamente ritornare sulla spiaggia al più presto e rivedere la Saraghina. Un’idea insensata si impadronì di me. Volevo parlarle. Volevo udire la sua voce.
Presi sonno nella febbre di una decisione che oltrepassava di gran lunga il coraggio dei miei otto anni”.
“L’indomani stesso mi piantai, a mezzogiorno, davanti alla baracca dove abitava la Saraghina. Sulla soglia della porta, seduta a cavalcioni su una seggiola impagliata mezza sfondata, accomodava con un grosso ago di legno una vecchia rete da pescatori.
Questa volta, la vedevo in piena luce. La spiaggia era deserta sotto il sole ardente. Al largo, delle barche attendevano il vento sul mare immobile.
Ero là, nella mia uniforme blu di marinaretto, incredibilmente calmo, a scrutare da vicino il mostro favoloso e inquietante tenendo fra le mani madide il mio berretto col pompon, le scarpe nere di vernice che affondavano nella sabbia.
La Saraghina mi riconobbe subito. Mi guardò senza dire niente per un lungo attimo. Poi, posando la rete strappata sulle cosce gigantesche, mi sorrise. Un sorriso molto dolce, molto triste, simile a quelli che illuminavano il viso di mia madre quando mi perdonava qualche stupidaggine. Meravigliato, mi accorsi che la Saraghina era bella.
– Buongiorno, signora – feci con una voce che non tremava. La Saraghina replicò al mio saluto con un cenno della testa. Quel mattino, i suoi capelli, cadendole sulle spalle, brillavano come seta.
D’improvviso, lei si mise a cantare. A cantare per me. Riconobbi senza fatica un’aria di moda, che la radio riversava durante il giorno nei caffè della città. Una rumba, credo”.
“La Saraghina aveva una voce molto curiosa. Una voce da bambina. Un filo di voce. Molto pura, molto chiara, molto tenera. Pe un attimo, mi misi ad amare la Saraghina.
– Come cantate bene, signora! – le dissi, inchinandomi come avevo visto fare a certi vecchi signori davanti alle signore, la domenica, all’uscita dalla chiesa.
La Saraghina tacque, bruscamente. Riprese la sua rete e, facendo scricchiolare la seggiola, mi girò le spalle. Siccome io non mi muovevo, con la coda dell’occhio mi comandò, con un tono stanco e fiacco:
– Vai via, bambino… Vai via!
Obbedii. La salutai di nuovo con una riverenza ancora più profonda, che lei ignorò. Feci dietro-front e me ne andai. Non la rividi mai più.
Avevo, quel giorno, scoperto il peccato. Il peccato miracoloso. Quello per cui si vive. Ma questo, non lo compresi che molti anni più tardi”.