A tre anni dalla scomparsa, rimangono nella memoria il volto e la voce inconfondibili di Giorgio Celli, con la sua passione per la natura e la vita degli animali, anche i più piccoli.
Sono tornato, in questi primi giorni d’autunno, al di là delle ultime case di una periferia estenuata, e fossile, popolata di edifici fatiscenti, che presto subiranno l’aggressione finale dei martelli pneumatici e delle ruspe, al prato delle meraviglie. Ho riconsiderato con stupore come questo luogo non si trovi al di là dell’orizzonte, non debba venir raggiunto in jet o in jeep, ma sia vicino alla mia casa, a non più di venti minuti di autobus e a un’ora di passeggiata. Nell’autunno lo splendore di smeraldo dell’erba si è misteriosamente incupito, è diventato un giallo da oro filosofale, l’oro degli alchimisti, che brilla a metà strada tra la realtà e l’immaginazione, tra la percezione e i sogni. Molti alberi hanno perduto le foglie e si sono trasformati in scheletri astratti, in strutture anodine, e perfino un po’ paurose se viste ai confini della notte.
Mentre passeggio lungo una cavedagna viscida, dove il mio piede scivola, e talora affonda in una melma grigiastra, i ricordi si affollano nella mia mente, e mi sento come il reduce della primavera, l’esule dell’estate.
Perché quest’anno ho preso una decisione terapeutica: stanco per l’eccesso di lavoro, insonne di notte e irrequieto di giorno, ho escluso dai programmi il consueto viaggio in paesi remoti e mi sono consacrato ai piaceri dell’ozio, tra letture, fantasticherie e brevi passeggiate, “fuori di porta”, come si diceva un tempo. Perché, dopo tutto, sapevo che la natura celebra i suoi fasti sereni e terribili, i suoi riti di vita e di morte, non soltanto nella savana del Serengeti, ma ovunque. Quell’ortica che cresce nelle fessure dell’asfalto, tributaria del gelo invernale che ha aperto per lei la ferita in the road, o quel relitto di edera che si abbarbica a un muro sbrecciato, sono coinvolti nella grande gara della vita. La loro intenzione, penso tra il serio e il faceto, non sarà quella di riconvertire la città d’asfalto nell’antico ecosistema d’erbe, d’alberi e d’acque delle origini?
Sapevo che alla periferia della mia città, tra l’avena fatua o la borsa del pastore, tra gli arum dall’odore fetido o il cardo selvatico che alza nell’aria il suo blasone violetto, se non avrei incontrato leoni e gnu, ghepardi e gazzelle a inseguirsi in una corsa perpetua che ha come posta la vita, la struggle for life non era di sicuro scomparsa. Era soltanto una questione di scala: ponete, come vedremo, al posto del leone una minuscola coccinella, affidate la parte dello gnu a un pidocchio delle piante, e i conti tornano di nuovo: c’è tutta una piccola Africa nel vostro giardino, e in quel prato periferico che ho percorso nella buona stagione in lungo e in largo e che ora rivisito con gli occhi e la memoria, à la recherche di mille emozioni perdute.
Mentre comincia a salire la nebbia, e la cavedagna si fa sempre più fangosa e viscida, mi sorprendo a pensare a Charles Darwin, lo scienziato che ammiro di più, e a cui tributo, fin dalla prima giovinezza, il culto che si deve a un nume liberatore. Perché questo naturalista, che sapeva di pietre, di piante e di animali, mi ha insegnato fin dal principio ad accettare il mondo, a non trasalire di orrore quando il mio gatto mi compariva davanti con un povero uccellino in bocca, e mi guardava con gli occhi pieni di esultanza, e di orgoglio. Mi ha aiutato a capire come quel gentile felino, che si strusciava contro le mie gambe, o che mi ronfava nell’orecchio in bilico sulla spalliera del divano, non si trasformava mica, come d’incanto, in un Jack lo squartatore a quattro zampe. Quell’atto di predazione faceva parte del suo destino biologico, di animale carnivoro. Insomma, non c’erano due gatti, uno in salotto a ronfare, l’altro in giardino a uccidere, ma un solo micio, né buono né cattivo, né mansueto né feroce, ma se stesso, e nulla più.
Da questo profondo autunno vi invito allora a seguirmi in un viaggio che sarà l’equivalente di una recherche proustiana, insieme sognata e ricordata, che ci vedrà argonauti della memoria andare in rotta per il vello d’oro del sapere.
Perdonatemi se nel ricordo certe piante fioriranno insieme, anche se questo non succede in natura, se i fiori, le api, i ragni-granchio e le coccinelle saranno favolosamente contemporanee, gomito a gomito, perché questo mio prato fa parte ormai di una sorta di geografia dell’anima, è un universo quotidiano e parallelo, e si trova sospeso in una bella stagione perpetua, al di là della fuga e delle metamorfosi del tempo.
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Nel mio prato proustiano fa sera, e i grilli cominciano a cantare. Suonano, come si sa, il loro effimero strumento sfregando insieme certe zone delle ali anteriori. Per questo, il grillo delle case, che qualche volta, con i suoi colori spenti, vi succede di osservare mentre passeggia su di un muro del vostro studio, se ne sta zitto zitto, perché non ha le ali.
Ascolto quel cri-cri così dolce, che sembra venire da tutte le siepi, da tutti gli angoli del paesaggio, e penso che la musica resta pur sempre il più grande strumento di seduzione. Si pensi agli assolo, e ai duetti degli uccelli, o a Don Giovanni in un qualche film di cappa e spada che va coi musicanti sotto un ben noto balcone. In effetti, le serenate, ormai cadute in discredito, erano un tempo il mezzo più valevole con il quale, complici una chitarra e una voce tenorile presa in affitto per quella sera, le anime timide e romantiche rendevano di pubblica ragione i loro sentimenti! Che tempi!
Tra gli insetti, i nostri grilli, detti per l’appunto canterini, sono più proclivi a cantare che a parlare, e forse è meglio così perché il grillo di Pinocchio era davvero un gran rompiscatole! Con il canto, i maschi annunciano la loro disponibilità, e segnalano la propria ubicazione allietando, nel contempo, tutto il circondario. Però, da un certo punto di vista, considerato che viviamo in un mondo cattivo, cantare a squarciagola e, nel caso, a piena ala il proprio amore, può comportare dei rischi, e non piccoli. Si attira sul posto la femmina, ma, nel contempo, si rende edotti della propria posizione i nemici, sempre all’erta, dei predatori nella fattispecie, che non nutrono alcun rispetto per i musicisti innamorati, e che sono sempre pronti a papparseli.
Ma il povero grillo che canta è anche, come succede spesso alle anime delicate, un grillo un po’ grullo, mi si consenta il bisticcio verbale; è ignaro che ci sono dei rivali che, da veri portoghesi dell’amore, mettono a frutto la sua imprudenza. Standosene “zitti e buoni” tra l’erba si mettono in vicinanza del musico imprudente, e, man mano che le femmine, sedotte dallo spartito, giungono sul luogo del concerto, approfittano di alcune senza vergogna.
La faccenda svela un curioso bilancio biologico. Il grillo può scegliere se avere più femmine e morire giovane, oppure se riprodursi di straforo e campare più a lungo. Il cantore ha, com’è giusto, più successo con le femmine, ed è più esposto ai predatori. I grilli satelliti, che rinunciano a cantare, scelgono di amare meno, ma di vivere di più. Voi cosa fareste?