Cinque anni fa lo scrittore Wu Ming 2, membro del collettivo anonimo Wu Ming, ha percorso a piedi il cammino che unisce Bologna a Firenze attraverso gli Appennini, opponendo la lentezza del cantastorie all’alta velocità ferroviaria che ogni giorno perfora le montagne.
Antefatti
1
Settembre è un mese inquieto, più fitto di buoni propositi che la notte di San Silvestro. A mezzogiorno ti sorprende il caldo, ma la sera, prima di dormire, chiudi le finestre, per paura che l’autunno venga d’improvviso e ti trovi avvolto in un panno leggero.
La decima estate del Terzo Millennio sembrò finire in anticipo, con un martedì piovoso e le scuole riaperte, ma nel fine settimana c’era di nuovo il sole, e Gerolamo portò i bimbi a caccia d’impronte sui sentieri fangosi del Parco della Chiusa.
Avevano comprato un libro per cercatori di tracce e dopo aver catalogato dieci cani, tre cavalli, un cinghiale e due formiche, fu seguendo le peste di un capriolo che si ritrovarono alla passerella sul fiume Reno, un luogo dove Gerolamo non arrivava da anni, perché Dario e Lucia volevano sempre fermarsi prima, nei grandi prati da corse più vicini all’entrata.
Era la passerella una sorta di finis terrae, colonne d’Ercole in acciaio e bulloni che segnavano la fine del parco e l’inizio della Barlaita, un bosco fitto di umidità e di zanzare tigri. Le famiglie in passeggiata percorrevano il ponte per metà, si affacciavano sull’acqua color caffellatte e poi tornavano indietro, mentre i ciclisti da fango pedalavano fino all’altra sponda, alla strada di servizio delle cave Sapaba, e poi di lì a Casalecchio e magari a Bologna, per farsi una doccia prima del pranzo con i suoceri.
Passando sotto la struttura, invece, ci si addentrava nella giungla, sempre che la golena fosse all’asciutto, lungo un sentiero disegnato da bici e piedi ardimentosi. Più di questo Gerolamo non sapeva, non si era mai spinto oltre quel confine, mentre i bimbi già lo superavano di slancio, cercando nella melma il segno degli zoccoli.
Il babbo li richiamò: se si bagnavano i piedi, lo attendevano i rimproveri di Lara per aver portato i pargoli in un posto “poco adatto”. Tornarono indietro di malavoglia e Dario si consolò indicando un rettangolo bianco e rosso sulla spalla del ponticello. La caccia ai segnavia del CAI [il Club alpino italiano, ndr] era sempre aperta e questo aveva pure una scritta sulla banda centrale. Lucia lesse lo stampatello una sillaba per volta e compose il nome “Firenze”.
«Ci vai a piedi alla tua riunione di domani?» domandò al padre con gli occhi sgranati.
Gerolamo rise e rispose che no, aveva già comprato il biglietto del treno. Poi guardò il sentiero e immaginò una sequela ininterrotta di segni bianchi e rossi, come la strada di mattoni gialli che porta Dorothy nel regno di Oz.
Tra Bologna e Firenze correvano talmente tante strade e ferrovie, che solo un percorso magico poteva aggirare autotreni ed Eurostar, e condurre il camminatore sano e salvo alla meta.
1.1
Sulla via del ritorno, passarono accanto alla chiusa sul fiume che dava al parco il suo nome ufficiale, anche se i bolognesi lo chiamavano tutti Parco Talon, dalla famiglia che un tempo possedeva quei cento ettari come giardino e tenuta di caccia.
Gerolamo raccontò ai bimbi che la chiusa era molto antica, quasi millenaria. Si diceva che fosse la più vecchia, in tutto il mondo, a non aver mai smesso di fare il suo lavoro. Serviva per deviare l’acqua nel Canale di Reno, che in un tempo lontano faceva andare mulini, segherie, cartiere, telai. Molte sue diramazioni scorrevano ancora sotto le strade del centro, e ancora esisteva una via “del Porto”, perché a Bologna avevano attraccato velieri e bastimenti, anche se l’Adriatico distava settanta chilometri, e oggi non lo diresti che dietro via dei Mille c’erano darsene e moli affollati.
La Chiusa invece era sempre lì, anche se la Grande Piena del 1893 se l’era mezza mangiata (insieme ai ponti della ferrovia che portavano a Roma e a Milano). Per ripararla c’erano voluti seicento operai, arrivati da tutta la provincia, con grave scorno per quelli del posto, tanto che l’ingegnere capo aveva dovuto metterli tutti a tavola, sulle rive del Reno, e seppellire le controversie sotto trecento chili di manzo e maccheroni al ragù, più quattro ettolitri di sangiovese. Per l’occasione, ingaggiò il miglior cuoco della zona e il suo menu ebbe un tale successo che oltre al compenso pattuito gli regalarono pure la mappa di un tesoro, nascosto nei recessi della chiusa. Il cuoco fece scavare nel punto indicato, ma non trovò nulla: se qualcosa c’era, doveva esserselo preso la Grande Piena. Eppure, qualche vecchio casalecchiese è ancora convinto che le monete d’oro siano rimaste là sotto, custodite da un fantasma, e che prima o poi le troveranno i canoisti, a forza di mettersi a testa in giù nel fiume, per provare e riprovare le loro manovre di raddrizzamento.
2
Michel de Certeau, ne L’invenzione del quotidiano, dedica un capitolo al vagone ferroviario, dove il viaggiatore, «immobile, vede cose immobili scivolare via». Sarebbe questa l’origine della melanconia che ci assale in treno, appena gettiamo uno sguardo fuori dal finestrino.
Essere al di fuori di queste cose che stanno là, distaccate e assolute, e che ci lasciano senza avere nulla a che fare con noi; esserne privati, sorpresi dalla loro effimera e quieta estraneità. Stupore nell’abbandono. Eppure, queste cose non si muovono. Non cambiano di posto, come non lo cambio io.[1]
Gerolamo, di ritorno da Firenze, contemplava rapito il trompe l’oeil del paesaggio. Era la prima volta che faceva quel tragitto per motivi di lavoro e ancora non conosceva la noia del pendolare. La sua cooperativa aveva aperto una sede nel capoluogo toscano e Gerry era stato scelto per curare la formazione dei nuovi educatori. Quel suo viaggio attraverso l’Appennino si sarebbe ripetuto ogni settimana, fino alla primavera, fino all’assuefazione. Fino a staccare gli occhi dal finestrino e a puntarli sullo schermo del portatile, per non perdere in fantasticherie cinquanta minuti preziosi.
[…]
2.2
La stele di Trenitalia svettava di fronte alla stazione di Bologna come il monolito di Odissea nello spazio. Grigio lucido metallo, al centro di un’aiuola dall’erba malconcia, sopra una piattaforma in alluminio da discoteca anni Ottanta. La superficie rivolta verso Gerolamo recava sui margini due scritte identiche, cubitali, caratteri bianchi orientati in verticale: ALTA VELOCITÀ, mentre nello spazio centrale, dall’alto in basso, si susseguivano: 1) il marchio rosso-verde delle Ferrovie dello Stato; 2) l’imperativo orwelliano «Segui il conto alla rovescia», vergato in lettere rosse; 3) una striscia di orologio digitale, con otto cifre rosse a sette segmenti, a indicare 86 giorni, 07 ore, 42 minuti e 53… 52… 51 secondi; 4) una mappa dell’Italia con i tracciati dell’alta velocità, in colori diversi, a seconda che fossero in progettazione, in costruzione, in esercizio, o in esercizio fino a 250 km/h.
L’obiettivo del conto alla rovescia restava un mistero. Non era possibile che l’intera rete disegnata sulla mappa venisse completata in 86 giorni. Alcune linee erano ancora in fase embrionale e nemmeno un folle avrebbe scommesso sull’ora esatta del parto.
Dunque? Che cosa bisognava aspettarsi da quel conteggio a ritroso? Una partenza, un’esplosione, una cottura al microonde, la fine di un mondo, l’inizio di un film?
5… 4… 3… 2… il conto alla rovescia per sincronizzare la pellicola, sugli schermi dei cinema non si vedeva più. Se compariva, significava che il regista ce l’aveva messo di proposito, per far sembrare arcaico quel che non lo era. Uno scherzo, insomma, un inganno. Forse anche la stele di Trenitalia ne nascondeva uno. Ma quale?
In epoca fascista, lo stesso identico spazio di fronte alla stazione ospitava una fontana monumentale. Decorazioni e bassorilievi ricordavano i minatori morti per costruire la ferrovia Direttissima. Durante la Seconda guerra mondiale una bomba dell’aviazione inglese aveva sbriciolato il marmo e le statue. Da allora il prato al centro dell’aiuola era rimasto vuoto, fino all’arrivo del monolito a orologeria.
Gerolamo esaminò l’altra faccia, quella che guardava gli hotel sul viale della stazione. Era più o meno identica alla sua gemella, ma invece della mappa d’Italia c’era un’altra scritta rossa, e la scritta diceva:
SOLO 35 MINUTI
da Bologna a Firenze
Quindi, ecco risolto il mistero: il conto alla rovescia sul monolito ne anticipava un altro. All’azzerarsi delle cifre digitali, un treno passeggeri sarebbe partito da Bologna alla volta di Firenze, come un cronometro su rotaia, in corsa inesorabile da 35 minuti a zero.
All’azzerarsi delle cifre digitali, la stele di Trenitalia si sarebbe trasformata da orologio in monumento, perfetto sostituto per la fontana fascista in memoria della Direttissima. Con la differenza che quella celebrava la vittoria della ferrovia onorando i caduti nella guerra contro l’Appennino, mentre sull’obelisco dell’alta velocità non c’era un solo centimetro dedicato alle vittime.
3
L’immagine dei due monumenti, quello fascista e quello di Trenitalia, riapparve a Gerolamo tre giorni più tardi, mentre parlava con un’amica, ai margini di una festa di compleanno per quarantenni.
Marta Lanzi faceva di mestiere la montatrice, assemblava film, corti, clip di ogni tipo e nel tempo libero si sforzava di girare i suoi. Da mesi raccoglieva il materiale per un documentario sull’alta velocità e così Gerry le raccontò della fontana per i caduti della Direttissima e del metallo lucido e grigio del nuovo monolito.
«Altro che fontana!» rispose lei agguerrita. «Solo per le vittime da qui a Firenze non basterebbe un museo».
Sollevò il pollice e cominciò a contare.
«Per prima cosa, i morti ammazzati sono almeno sette. Eppure dicono che quei cantieri erano tra i più sicuri d’Europa, perché la lista funebre poteva essere anche più lunga, in base alle statistiche».
Fece una pausa, si riempì il bicchiere, poi tirò fuori dalla borsa un computer palmare, ci trafficò sopra con il puntatore a forma di matita e prese a leggere sullo schermo con voce da requiem.
«Pasquale Adamo, padre di tre figli, stritolato nella galleria di Vaglia. Pietro Giampaolo, cinquantotto anni, schiacciato a Monghidoro sotto le ruote di un Tir. Giorgio Larcianelli, camionista, uscito di strada sulla via Barberinese. Assuntina Spina, ottantaquattro anni, investita da un mezzo pesante a Sesto Fiorentino. Pasquale Costanzo, elettricista di ventitré anni, sempre nel tunnel di Vaglia. Giovanni Damiano, due figli, travolto da un getto di calcestruzzo, e Franco Roggio, a un passo dalla pensione, morto in galleria sotto un telaio metallico».
Alzò gli occhi e disse che non era stato per niente facile mettere in fila quei nomi, perché da nessuna parte li trovavi tutti insieme, bisognava andarsi a spulciare i giornali, le pagine web del sindacato, le notizie sparse. Per altre vittime dell’alta velocità, invece, si era celebrato un processo, ed era più facile elencarle per nome.
Marta picchiettò ancora con il puntatore sullo schermo del palmare e attaccò una nuova litania.
«Carza, Carzola, Diaterna, Bagnone, Rampolli, Veccione, Farfereta, Ensa. Cinquantasette chilometri di torrenti morti, seccati, e altri ventiquattro che hanno perso acqua. E ancora Erci, La Rocca, Le Spugne, Volpinaia, Ca’ di Sotto, Badia di Moscheta: in tutto sessantasette sorgenti, cinque acquedotti e una trentina di pozzi rovinati».
Vuotò il bicchiere in un fiato e chiuse il palmare con un gesto secco, definitivo.
«Frazioni, paesi, intere comunità di uomini e animali stravolte dai danni. Al processo di primo grado, l’accusa ha chiesto un risarcimento di 751 milioni di euro, ma la condanna è stata di soli 150, per lo smaltimento illecito dei rifiuti, mentre le sorgenti, secondo il giudice, non le hanno danneggiate apposta, ma solo per negligenza e imperizia, che in questo caso non sono reati. E quanto all’acqua che si sono presi senza chiederla, per impastarci il cemento e lavare via i detriti, dovrà decidere la Corte Costituzionale, se quel tipo di furto sia un crimine oppure no».[2]
Marta prese fiato, appoggiò il bicchiere, si lasciò andare sullo schienale della poltrona.
«E poi ci sono i soldi, le risorse bruciate. Uno studio recente [3] parla di 105 milioni di euro a chilometro, cioè otto volte la spesa prevista, per risparmiare ventuno minuti di viaggio».
Gerolamo provò a calcolare il costo di ogni minuto, ma si ingarbugliò con le divisioni. Fatica sprecata, Marta aveva già fatto i conti. Trecentonovantacinque milioni di euro.
4.
È andata avanti a parlare per almeno due ore – mi spiegherà Gerolamo quattro mesi più tardi, in una giornata di sole e freddo invernale. – E alla fine mi sono pure vergognato: la guerra tra la Velocità e l’Appennino si combatteva a due passi dalla mia città e io non ne sapevo nulla, tranne qualche titolo di giornale e un paio di servizi alla tivù, buoni giusto per un’indignazione precoce.
Tornato a casa, mentre Lara dormiva, ho deciso di espiare le mie colpe mettendomi a studiare. Ho acceso il computer e mi sono segnato due o tre libri da prendere in biblioteca. Poi il vortice di Google mi ha risucchiato e ho passato due ore a salvare articoli, inchieste, documenti ministeriali e istruttorie.
Soltanto verso le tre mi sono imbattuto in una modesta, semplicissima scheda, con i numeri e le caratteristiche della nuova linea ad alta velocità.
In galleria per il 93% del tracciato, la linea si sviluppa per 78,5 km (di cui solo 4,7 allo scoperto, su rilevati, ponti e viadotti). Due le regioni attraversate, due le province, 13 i comuni. 140 chilometri di nuove strade a servizio dei cantieri, 8 chilometri di barriere antirumore, 130 ettari di interventi a verde, 19 interventi archeologici.[4]
Mentre il sonno mi chiudeva le palpebre, ho immaginato un unico tunnel di cemento, con qualche rara interruzione, scavato sottoterra da un gigantesco lombrico.
Presto, negli occhi di molti passeggeri, una notte artificiale avrebbe sostituito boschi e ruscelli, per quanto intravisti da un finestrino.
Allora ho capito che Internet, i libri e le biblioteche non mi sarebbero mai bastati per conoscere l’Appennino e rendere omaggio alle montagne sconfitte.
Avevo bisogno di un percorso magico che le attraversasse, come il sentiero di mattoni gialli per il Regno di Oz, e di un Boscaiolo di Latta che mi aiutasse a seguirlo.
Note
[1] Da M. de Certeau, The Practice of Everyday Life, vol. I, Berkely, 1984. La traduzione è mia.
[2] Il 23 novembre 2009 i giudici della Corte d’Appello di Firenze hanno sospeso l’esecuzione immediata della sentenza di primo grado e sollevato gli imputati, tra cui Cavet, dall’obbligo di risarcire i danni e di pagare alle parti civili i 150 milioni di euro di provvisionale. Tutto questo Marta Lanzi non lo dice perché non può saperlo, dal momento che questo scambio tra lei e Gerolamo si svolge nel settembre 2009.
[3] Si veda I. Cicconi, I costi dell’alta velocità in Italia, PDF on-line del 24 giugno 2008. L’autore è uno dei massimi esperti italiani di infrastrutture e lavori pubblici.
[4] La scheda riportata è presa dal sito della Rete Ferroviaria Italiana: www.rfi.it.
[continua]