Cinque anni fa lo scrittore Wu Ming 2, membro del collettivo anonimo Wu Ming, ha percorso a piedi il cammino che unisce Bologna a Firenze attraverso gli Appennini, raccontando le ferite inferte alla montagna dal treno ad alta velocità. Ascoltiamo la voce dell’autore accompagnata dalla chitarra elettrica di Stefano Pilia.
Notturno 2
Dicono che l’acqua ha una sua memoria, come il silicio e i nastri magnetici e la superficie dei compact disc. Una goccia salata che cade in un fiume gli consegna per sempre il ricordo del sale, un messaggio indelebile scritto negli atomi e sulle onde.
Se fai sciogliere un fiocco di neve, unico e irripetibile, quando lo congeli di nuovo torna uguale a se stesso, e il giapponese Masaru Emoto sostiene addirittura che i suoni, la voce umana e le onde cerebrali lasciano nell’acqua una traccia che poi si manifesta coi cristalli di ghiaccio.
In Val di Setta, frazion di Lagaro
Nel comune di Castiglione
se voialtri mi fate attenzione
d’una disgrazia vi vo’ raccontar.
Forse l’acqua che abbiamo nel corpo ricorda meglio di noi le canzoni che da neonati ci accompagnavano nel sonno. Forse la pioggia e i torrenti impregnano coi loro archivi anche la terra, l’erba, gli alberi.
Fu un giovane astronomo americano, Andrew Elicott Douglass, a scoprire che gli anelli nel tronco di una sequoia non rivelano soltanto l’età della pianta, ma raccontano il clima degli anni che ha vissuto. La distanza tra un cerchio e l’altro dipende dalla temperatura e dalla siccità.
Se vi annoio voi mi scuserete
ma spiegar meglio di così non si può
come già tutti voi lo sapete
che la stampa di già ne parlò.
Sulle Alpi, nel fusto dei larici, si trovano ancora le cicatrici causate dall’eruzione del vulcano Katmai, sulle isole Aleutine, in Alaska, avvenuta il 6 giugno 1912, quando tonnellate di cenere invasero il cielo e velarono il sole per molte settimane. Cerchi irregolari e decentrati sono la firma sghemba di frane, vento, erosioni, che fanno crescere gli alberi storti e ricurvi. Alluvioni e incendi lasciano sgorbi nella grafia vorticosa che incide il durame, e segni evidenti nell’aspetto della pianta. Come i cerchi che si allargano sulla superficie di una pozza, dove ciascuno passa al successivo la spinta del sasso, così ogni anello del tronco influenza quelli che lo seguono, e anche sulla corteccia spuntano i segni di antichi cataclismi, il cui ricordo è ormai custodito nel cuore della pianta.
Poi arriva il vento, passa la mano tra i rami, e le memorie degli alberi diventano suoni, per giungere all’orecchio di uomini lontani, incapaci di comprenderli.
E fu proprio il 14 ottobre
che in domenica venne quel dì
invece di stare a casa in riposo
fu destino d’andare a morir.
Se tu sapessi ascoltarli, Gerolamo, potresti sentire un’orchestra di faggi suonare le ballate della Grande Galleria, che a quanto dicono passa proprio sotto di loro, dentro la montagna che hai di fronte, a cinquecento metri di profondità.
Ottanta cerchi fa, l’acqua delle sorgive ha registrato le vibrazioni della roccia, causate dall’esplodere delle cariche e dalle voci dei minatori. Le sorgive hanno alimentato i ruscelli e l’umidità dei ruscelli ha nutrito gli alberi. Terra e radici hanno succhiato la memoria dell’acqua e con l’aggiunta di sali minerali l’hanno trasformata in linfa. I vasi dello xilema hanno aspirato la linfa verso l’alto e il legno ha assorbito nutrimenti e ricordi, per poi tradurli nella sua lingua di nodi, rami e biforcazioni, che il vento ora legge e trasmette, come la puntina di un vecchio giradischi sui solchi del vinile.
Quando fummo noi in galleria
come al solito si stava facendo
ad un tratto uno scoppio tremendo
la montagna la fece tremar.
Se la capissi, Gerolamo, questa musica d’acqua e di legno, di terra e di vento, se tu la sapessi ascoltare, distingueresti il suono dei rami incurvati da un’esplosione di gas, il fruscio delle fenditure prodotte sulla corteccia dallo scoppio delle mine, il fischio leggero dei pensieri di chi è morto là sotto.
Il fumo dei corpi bruciati ha infiltrato le rocce e la terra, scorie grigie simili a cenere hanno inquinato la linfa dei faggi, un tumore grosso come un melone è fiorito sulla corteccia, ottanta cerchi fa, e ancora la deforma e produce il suono che non riesci a sentire, confuso con tutti gli altri, il sibilo acuto degli ustionati.
Ed è questo loro mescolarsi che rende così difficile decifrare le dendrofonie raccontate dal vento. I suoni si sovrappongono, non seguono l’ordine del tempo come i cerchi dentro al fusto e i solchi sul vinile. Se anche tu riconoscessi il timbro grave, da controfagotto, prodotto dal vento su una piaga del tronco, causata dal calore di un incendio sotterraneo, non potresti lo stesso datare l’incendio, dire se è scoppiato la settimana scorsa o cent’anni fa. Per farlo dovresti segare l’albero, o prelevarne un campione con un succhiello di Pressler, e da quello interpretare gli anelli.
Imbalorditi e al buio si resta
stupefatti dal grande spavento
e le grida dell’avanzamento
anche ai sassi facevan pietà.
Se tu imparassi a riconoscere il sibilo dei corpi bruciati, o il suono inconfondibile che fanno i pensieri di un moribondo (le onde cerebrali di un essere umano che sta per morire, condotte attraverso la roccia, ricevute dalle radici, trasformate in irregolarità della corteccia e ora suonate dal vento), se tu sapessi ascoltarli, sentiresti un coro di ottantacinque voci, come in un’unica strage. E se tu avessi l’orecchio davvero allenato, come quello di un direttore d’orchestra, dal timbro di ciascuna potresti ricavare altri dettagli. L’età della persona e il modo scelto dal destino per farla morire. Solo con un orecchio così allenato ti accorgeresti che alcuni di quei suoni, e per la precisione sessantacinque, hanno un volume più alto, mentre gli altri venti ce l’hanno più basso, e magari capiresti che questa differenza non è casuale, perché i primi sessantacinque sono quelli che morirono nella galleria quando ancora non era completa, e le volte non erano tutte murate, così che la roccia poteva ricevere meglio le vibrazioni, mentre in seguito la calotta in calcestruzzo ha fatto da isolante, e i venti morti successivi hanno una voce più attutita, come se parlassero dietro un panno di feltro.
Quelli di dietro che avevan sentito
non sapevan che strada pigliar
poi si son fatti di un cuore assoluto
e i compagni son corsi aiutar.
Tra i primi sessantacinque, sapresti riconoscere quelli che sono incappati in una mina gravida, cioè una carica inesplosa, perché durante la volata si contano sempre i colpi, per essere certi che tutte le mine piazzate facciano il loro dovere, ma è pur sempre un conto fatto a orecchio, in mezzo al boato, e subito bisogna riprendere a lavorare, non c’è tempo di aspettare che la polvere vada giù, l’assistente dice di darsi da fare col picco, per rompere i macigni più grossi e caricarli sui vagoni: cinque all’ora se ne devono fare. E con tutta questa fretta e la polvere che toglie il fiato e la vista, capita che una mina è rimasta gravida, non la si è contata bene, e quando il disgraziato va a spaccare il masso con il piccone, dentro c’è la mina, e bum, il disgraziato salta per aria, e magari insieme a lui anche qualcun altro che gli stava vicino, perché nello strozzo lo spazio è poco e se salta una mina ce n’è davvero per tutti.
Quell’aiuto era tanto prezioso
per quella gente così disperata
che chiamava mamma con voce angosciata
mentre il fuoco continuava a bruciar.
Sapresti riconoscere quelli rimasti schiacciati sotto un’armatura che non ha tenuto, perché soprattutto l’argilla spinge e si deforma, non ne vuol sapere di farsi scavare, e le capriate e le centine in legno di pino si spaccano, rompono teste e schiene, e lo stesso fanno i bollimenti, le frane di sassi che vengono giù dopo la volata, quando ancora non ci sono i marciavanti, cioè le tavole per ripararsi la testa, perché l’unica protezione dei minatori è il cappello, e il casco lo porta giusto l’ingegnere quando viene a fare i controlli.
Sapresti riconoscere il fochista che ha spinto il carrello col bruciagas, uno straccio infuocato messo in cima a un palo per bruciare il metano, ha spinto il carrello, ma il metano era già lì, più indietro e più in basso del previsto, mescolato con l’aria, pronto a scoppiargli addosso e a portarselo via. Riconosceresti il fochino che è andato sotto la calotta per accendere le micce e anche lì c’era il gas ad aspettarlo. Le lampade Davy lo avevano segnalato, era suonato l’allarme, c’eravamo fatti indietro di duecento passi e l’elettricista aveva fatto il suo lavoro: appendere all’armatura i sacchetti di polvere pirica, ficcarci dentro i cavi e poi dargli fuoco a distanza col generatore di corrente. Eppure, si vede che qualcosa non aveva funzionato e che nemmeno i ventilatori erano riusciti a portarselo via tutto, quel gas, e appena il fochino ha acceso le micce, bum, il gas era lì e s’è portato via pure lui, come quegli altri sette del 1923 (se tu avessi un carotaggio fatto col succhiello di Pressler lo potresti sapere che era quell’anno lì, e il segno grosso di sette morti lo vedresti meglio che sugli altri anelli).
Appena giunti al pronto soccorso
c’eran già tutti gli amici e i parenti
fra urla pianti e lamenti
sempre mamma sentivo chiamar.
Sapresti distinguere quelli fulminati dai macchinari elettrici zuppi d’acqua e quelli annegati dietro la saracinesca, che veniva giù quando il cunicolo rischiava di allagarsi, e se non eri svelto a uscire fuori potevi rimanere chiuso dall’altra parte, con il getto d’acqua che usciva dalla roccia come una fucilata.
Domandate ai feriti guariti
meglio di loro nessun lo può dir
sette morti e venti feriti
la disgrazia ebbe fine così. [1]
E anche se avessi l’orecchio finissimo, Gerolamo, non potresti sentire lo stesso i morti per la pussiera dei decenni successivi, morti magari in ospedale a Bologna o nelle loro case sparse per le montagne. Loro non ci sono, dentro ai faggi sopra la galleria: è la terra della galleria che sta dentro di loro, infilata sottile negli alveoli dei polmoni. Alcuni hanno dovuto tirarli fuori dalle tombe, per dimostrare che la polvere ce l’avevano dappertutto, nei bronchi e nelle ossa, e che un fazzoletto davanti alla bocca, durante lo smarino in mezzo alle volate, un fazzoletto non basta per evitare la silicosi.
Non ci saran più medici, nemmeno professori
che fan guarire il mal dei minatori
Non ci saran più medici, nemmeno medicine
per far guarire il male delle mine. [2]
In questo coro, in quest’unica strage che accomuna tutti, insieme alle piogge dello scorso autunno, al sole di ieri, e a migliaia di treni che sono passati nel frattempo, tu ora dovresti riconoscere i suoni più lievi, quelli attutiti dal calcestruzzo delle volte: i quattro che scortavano il convoglio fatto saltare là sotto dai partigiani per bloccare la Direttissima e poi, dieci cerchi più avanti, il ferroviere che coltivava un geranio sotto terra, nella stazione delle precedenze, alla luce delle lampade, e solo due volte all’anno riusciva a fargli prendere il sole, grazie ai raggi che trovavano l’inclinazione giusta per infilarsi nel pozzo di Cà di Landino. Su e giù per quel pozzo si andava con un carrello, lungo un binario ripido: Walter Tassoni lo guidava e ne rimase schiacciato. Dopo la sua morte tolsero il carrello e quelli che prendevano il treno alla stazione delle precedenze, per andare a lavorare a Firenze, a Prato, a Bologna, dovettero farsi due volte al giorno 1800 gradini, e venir fuori sudati fradici in mezzo all’inverno e alle correnti d’aria, finché la stazione delle precedenze non venne proibita ai passeggeri, e la gente della zona dovette andare a prendere il treno tredici chilometri più giù, a Spianamento, la stazione di San Benedetto Val di Sambro.
Ma nel conto ne mancano ancora quindici, quindici suoni funebri, tumori sulla corteccia dei faggi suonati dal vento.
Federica dagli occhi di mare,
che vede stazioni veloci passare
suona a Roma una vecchia zampogna,
poi viene Firenze, si va per Bologna.
Se avessi saputo riconoscere i primi settanta suoni, Gerolamo, adesso, per analogia, ti aspetteresti altri quindici “omicidi bianchi”, morti sul lavoro, caduti nella battaglia contro la galleria come si cade in guerra, senza responsabili, la guerra è guerra e bisogna combatterla, si muore, non c’è niente di strano.
Ma se tu avessi l’orecchio fino, e potessi capire il sesso e l’età di quei morti, ti chiederesti cosa c’entrano, con gli omicidi bianchi, un bambino di quattro anni, una bambina di nove, un’altra di dodici. Qualcuno, a fare il bocia in galleria, c’è andato anche a dodici anni, è vero, ma erano maschi, mai bambine.
Federica dagli occhi di mare
su quella montagna ti han fatto fermare
hanno rotto le ali al gabbiano
e tu non hai visto la neve a Milano. [3]
Se avessi il campione fatto col succhiello di Pressler, vedresti che gli ultimi quindici morti sono tutti sullo stesso anello, quindici cicatrici sovrapposte che formano un unico, grosso sgorbio, a trenta cerchi di distanza da Walter Tassoni e a sessantuno dai sette minatori uccisi dal grisù.
Faresti il conto degli anni e ti verrebbe fuori il 1984: cinquantesimo anniversario della ferrovia Direttissima, Big in Japan degli Alphaville, strage del Rapido 904.
Allora capiresti cosa c’entra quel bambino di quattro anni che non c’entrava niente, e una bambina di nove che pensava al Natale e una di dodici che non aveva mai visto la neve.
Capiresti che gli ultimi quindici non sono omicidi bianchi, sono omicidi neri, e che in un’unica galleria, e nei tronchi dei faggi cinquecento metri sopra, si sono fuse assieme le vittime di due stragi tipiche italiane. Il lavoro e il terrore.
Ma tu non ce l’hai, l’orecchio fino, e nemmeno il succhiello di Pressler, e queste dendrostorie non le senti, sono solo vento che soffia tra i rami e mette freddo addosso.
Così ti volti e torni indietro, verso la chiesa di Santa Maria della Neve, a montare la tenda nel chiarore dei lampioni.
Note
[1] Le prime nove strofe che intervallano la narrazione sono tratte da una ballata popolare dei minatori della Direttissima, registrata dagli studenti della II B dell’Istituto tecnico commerciale di Castiglione dei Pepoli e trascritta nel volume Picco e Pala: La Direttissima, Bologna, 1984, magnifica raccolta di testimonianze realizzata in occasione del 50° anniversario della linea ferroviaria.
[2] La strofa è sempre tratta da una ballata popolare dei minatori locali, riportata in A. Giuntini, I giganti della montagna, Firenze, 1984.
[3] Le ultime due strofe sono tratte dalla canzone Federica, scritta da L. Settimelli per Federica Taglialatela, una delle 17 vittime (di cui 2 morte in seguito) della “strage di Natale” del 23 dicembre 1984.
[fine]