In vista della rassegna “Dove abitano le parole”, che dal 26 al 28 maggio invita a scoprire case e luoghi degli scrittori in Emilia-Romagna, vi proponiamo due pagine “ben cotte” dello scrittore romagnolo Marino Moretti e una visita “nutriente” alla sua Casa museo di Cesenatico.
La piada
Un organino suona per la strada
e una stridula voce lo accompagna:
viene lenta la sera, e la campagna
si scuote in un risveglio di rugiada.
Ora chi deve andar meglio è che vada
(la mente aulisce in mezzo all’erbaspagna)
poiché ogni casolare di Romagna
gli donerà in quest’ora un po’ di piada.
Buona piadina che non sa di sale
sbocconcellata sì, con poca fame
quando la mente segue un suo pensiero,
ed ogni cuore cerca un ideale
oltre quel cielo ed oltre quel fogliame
diritto andando ver questo sentiero!
[da Poesie scritte col lapis, Napoli, Ricciardi, 1910, p. 150]
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L’arzdóra al tagliere col matterello
‒ Ah, finalmente! La piada!
‒ Ma non sa ch’è il pane dei poveri? Le piace il pane dei poveri?
‒ Tanto!
La Menghinina sorrise con indulgenza scuotendo leggermente la testa, e cinse la parananza [il riquadro di stoffa che si allaccia ai fianchi]. La grande cucina era illuminata dal lume a petrolio che pendeva dalla trave centrale, più nera delle altre. Sotto la campana bianca, la luce gialliccia disegnava nell’impiantito una grande sfera d’oro che aveva intorno un merletto d’alone lasciando in penombra le pareti e il camino. Dalla porticina del sottoscala veniva la fioca luce della teda [il lume] a tre becchi: un becco solo era acceso, e c’era forse poco olio nel serbatoio o lo stoppino era corto. La Menghinina aveva conservato l’antica abitudine di tenere la farina nel cassone del sottoscala, così che quando faceva il pane o la piada la teda rimaneva accesa in permanenza nello sgabuzzino.
‒ Mi aiuti almeno a mettere il tagliere sulla tavola!
‒ Ma certo, ti voglio aiutare! Voglio saperlo fare anch’io il pane dei poveri!
‒ Macché, macché! ‒ esclamò la vecchia che quando era in cucina dimenticava d’essere serva, si sentiva anzi padrona, arzdóra, ‒ lei non deve far niente. Impari stando a vedere.
Sotto la luce che gli batteva nel mezzo, il tagliere parve abbagliare nella scura cucina. Cristina portò il matterello della piada, ch’era più corto e più sottile, un granatello quasi nuovo, e lo staccio mezzano: era il vaglio più rado, quello che toglieva la crusca alla farina, ma lasciava il cruschello. La Menghinina era d’avviso che un po’ di cruschello desse miglior sapore alla piada. E poi poteva mancare il cruschello al pane dei poveri? Ella era una donna antica, un’arzdóra della tradizione e si mostrava contrariissima alle arzdóre giovani che facevano della piada una pizza, un dolce qualsiasi, adoperando ‒ le schizzinose ‒ il puro fior di farina, gramolando e impastando col latte, lo strutto e la chiara d’uovo, aggiungendo perfino alla miscela appiccicosa quell’altra porcheriola del bicarbonato!
La piada era la piada: era pane. Stacciava ella ritmicamente sul tagliere candido, e il vaglio leggero come una piuma nella sua mano agile pareva quasi autonomo, pareva girar su sé stesso prillando, rialzandosi a ritmo da una parte o dall’altra, divenendo aereo talvolta, cantando lievemente stridulo nella danza concentrica; ma di mano in mano che la farina vagliata sfuggiva di sotto allo staccio spargendoglisi a poco a poco torno torno, il canto si faceva più dolce, s’attutiva, si smorzava come un passo su un tappeto, sull’erba o sulla polvere.
‒ Ecco fatto, ‒ disse infine la Menghinina e parve più vecchia, perché un altro po’ di bianco le s’era posato sui capelli, sul corpetto, fin sulle ciglia.
Prima d’impastare, pensò al fuoco. Per cuocere la piada occorre la fiamma, la bella fiamma caduca, la vampata, il falò. Il grande testo rotondo, grande quanto lo staccio, deve riscaldarsi così prima che vi si adagi la pasta. La Menghinina sa che per ottenere questa fiamma occorrono i cannarelli che prendono subito, che s’incendiano con un solo fiammifero; e, oltre ai cannarelli, quelle pigne rade, vuote e leggere che si chiamano sgòbole e che son più resistenti e finiscono di cuocere la pasta quando la fiamma è caduta. La vecchia s’appressò al camino solennemente come il sacerdote all’altare, preparò le tre pietre che dispose a triangolo sull’aròla alta, sotto la cappa: erano le tre pietre affumicate che dovevano reggere il testo. Preparò il fuoco, pigne e cannarelli, facendo una gran buca nel centro, perché poi le fiamme salissero agli orli del testo e non bruciassero in mezzo la sfoglia sottile; si pulì le mani col grembiule che aveva sotto la parananza e ritornò al suo tagliere. Cristina seguiva i gesti della vecchia quasi ammirata, commossa. […]
Intanto la vecchia era riuscita a render la pasta più compatta sotto la gagliardìa delle sue mani che parevan puntarsi sul tagliere con tutto il polso mentre la sua persona aderiva allo sforzo ritmicamente, curvandosi, con un’ostinazione penosa che dava un leggero dondolìo alla testa abbassata tanto da lasciar la povera nuca scoperta, e un piccolo tremito alle spalle. Ecco: il più era fatto: la pasta era ben lavorata, pronta per il matterello. La Menghinina si drizzò tutta come per togliersi l’indolenzimento di dosso: la schiena le doleva, povera vecchia. Afferrò un coltello, divise la pasta in tre parti uguali, a occhio, per le tre sfoglie. Ma prima di spianarle col matterello diede l’ordine alla padroncina di accendere. La fiamma sorse subito, gaia, scoppiettante, crepitante, schiacciata dal testo; sempre nuove fiammelle ne lambivano gli orli, quasi curiose di vedere se la piada cruda era già stata distesa, un po’ più piccola del testo arroventato. Si udiva tratto tratto una sgòbola scoppiare nella fiamma, e la fanciulla aveva la sensazione dello scoppiare d’un mortaretto in lontananza per una festa di domani. Ma ecco la Menghinina avanzare solennemente, appressarsi all’aròla con le sue gote infossate di vecchia, rosse di fatica e di caldo. Teneva sulle due palme aperte, così come si tiene una cosa ricca, la prima candida sfoglia che ricadeva floscia dalle sue mani in pieghe molli di stoffa morbida e spessa. Con abilità sorprendente, di colpo la gettò sul testo facendovela ricadere senza una piega, perfetta.
Cristina, entusiasticamente, abbracciò la sua serva.
‒ Mi lasci, mi lasci stare! ‒ gridava la Menghinina divincolandosi. ‒ Mi lasci stare quando lavoro! Ecco, la piada si brucia! Bisogna voltare la piada! Mi lasci, mi lasci! ‒
Si sciolse in tempo da quell’abbraccio furioso: la piada non s’era bruciata, ma bisognava voltarla. Aveva fatto un po’ di crosta indurendosi agli orli ed era già picchiettata di bruciaticcio; bollicine si sollevavan qua e là nel calore giusto della terracotta, si colorivan leggermente, taluna si bruciava e scoppiava. La vecchia insinuò il coltello da cucina fra testo e piada perché questa non cuoceva troppo nel mezzo, e chinatasi, soffiò sulle sgòbole che si disfacevano ardendo senza quasi più fiamma. […]
La prima piada era fatta. Ella la ritirò col coltello, la prese poi col pollice e l’indice incalliti, che non temevano le scottature, la mostrò con orgoglio alla padroncina tenendola sollevata in alto, bella, tonda, compatta, fantastica, religiosa, miracolosa, come una grande ostia da spezzarsi nel rito domestico; la portò poi sulla credenza e la mise lì, ritta contro il muro, dietro i candelieri, perché non rinvenisse.
‒ Si finisce di cuocere, ‒ mormorò poi con dolcezza, riprendendo il matterello.
[da La voce di Dio, Milano, Treves, 1921, pp. 44-51]