Lo scrittore Gianluca Morozzi, classe 1971, ha già al suo attivo numerosi romanzi e graphic novels. Questo racconto bolognese compare in un’antologia che raccoglie nove storie della quotidiana vita di provincia.
7.
Ora, ad essere onesti, la mia correttezza politica non arriva fino al punto di sperare che il sette se ne stia tutto il giorno al tavolo con me e la Carla, rovinando le mie lunghe e involute tattiche di seduzione. Volevo semplicemente far colpo, scusarmi, offrirgli da bere, e poi tornare a tessere le mie complesse trame.
Del resto, però, ora che l’ho invitato al nostro tavolo, non posso neanche mandarlo via con un’altra testata al sopracciglio. Il destro, magari.
Per cui torno a sedermi, appoggio le birre sul tavolo, e provo a inserirmi in questa conversazione che ha preso il via con la rapidità del fulmine.
La Carla gli ha chiesto da quale paese proviene, intuisco. Il sette deve aver sparato un nome dimenticato da Dio, dagli uomini e dalle cartine geografiche, perché sta precisando «È al confine col Ghana. Conosci il Ghana?».
La Carla dice di sì, rassicurata. Il sette mi ringrazia per la birra con un cenno del capo, e butta giù il primo sorso.
«Dev’essere un posto molto bello» intervengo totalmente a caso, io che sono ignorantissimo in geografia africana, io che non ho neppure afferrato il nome del paese. Negli occhi della Carla, invece, già dardeggia il sacro fuoco della cultura dell’accoglienza. Delle lotte per i diritti dei migranti, della cultura del diverso, delle manifestazioni al CPT – il lager di via Mattei, lo chiama, con l’indignazione che le spezza ogni volta la voce – e allora comincia a fargli domande su domande. Come si trova in Italia. Cosa fa in Italia. Perché è venuto via dal suo paese.
Lui risponde in un italiano precisissimo, con i congiuntivi e i trapassati e i condizionali al posto giusto, come chi ha studiato tutte le regole di una lingua straniera e le ha imparate fino ai più piccoli dettagli.
Parla molto meglio di Zatterone, per dire. Che col suo improbabile bolognese misto al calabrese sembra un ruminante con della colla nel palato.
Il sette dice che fa l’operaio. Che frequenta dei corsi serali. Che suona uno strumento a percussione di cui non capiamo il nome, per cui mima con le mani il gesto di suonare qualcosa tipo bonghi e noi ci accontentiamo di questa sommaria descrizione.
E poi comincia una conversazione a due con la Carla.
Mentre io sono ridotto a bere la mia birra in silenzio, comprimario inutile.
«Vedi – dice, alternando le parole a piccoli sorsi di birra – il mio paese è diviso per etnie. è la parola giusta, Carla? Etnie?».
«Etnie, certo, etnie» sussurra la Carla.
«L’etnia dominante sono i Turaaba. L’altra etnia, quella a cui appartengo io, a cui appartiene tutta la mia famiglia, è l’etnia dei Ghuri».
Beve un sorso di birra, guarda fisso la Carla. «Guarda Carla, io non odio i Turaaba, io non odio nessuno, ma pensa a mia madre. Costretta a fare le pulizie nella case dei Turaaba, a comprare da mangiare nei negozi dei Turaaba, a mandare me ed i miei fratelli nelle scuole dei Turaaba, ad ascoltare i loro insegnamenti. Sai cosa ci insegnavano nelle scuole dei Turaaba, Carla?».
«Cosa vi insegnavano?».
«Ci insegnavano a sentirci inferiori, a noi Ghuri. Ci dicevano che i Ghuri erano dei coloni succhiasangue, arrivati nel paese dopo che i Turaaba avevano lottato per renderlo abitabile, anche se i Ghuri vivono lì da generazioni, ormai. Ci insegnavano a dimenticare la nostra cultura, e ad assorbire la loro», e qui si scalda, alza il tono della voce pur rimanendo calmo. «Vedi Carla, io odio la tradizione tribale, la tradizione tribale crea soltanto lotte e divisioni, nel mio paese come in tanti paesi dell’Africa. Odio la tradizione tribale, ma amo la mia tribù. Amo i Ghuri, amo le feste che siamo costretti a celebrare clandestinamente, quando celebriamo le tradizioni degli avi attraverso le danze, le maschere, gli abiti. – butta giù altra birra, continua – Vedi, Carla, c’era un grande uomo di nome Kobe Asuru, a farci sentire orgogliosi di essere Ghuri. Lui era il nostro faro, nella marcia verso il cambiamento. Lui ci aveva insegnato a non sentirci inferiori ai Turaaba ma allo stesso tempo a non odiarli, a non odiare nessuno, lui era un grande, grandissimo uomo per tutti i Ghuri».
«Cosa gli è successo?», e qui la Carla ha quasi le lacrime agli occhi, che i tempi verbali usati dal numero sette ci fanno presagire una brutta fine, per il faro del cambiamento dell’etnia dei Ghuri.
«I Turaaba odiavano Kobe Asuru, avevano paura di lui. Kobe Asuru aveva guidato la nostra gente a una marcia pacifica sul Mjota, la nostra capitale, due settimane prima delle elezioni politiche. Voleva richiedere una rappresentanza Ghuri nel parlamento del nostro paese», qui fa una pausa, beve un po’ di birra.
Mi guardo attorno spaesato.
Intorno a noi ci sono giocatori stanchi che si ritemprano nel bar dopo una sconfitta disastrosa, qui a questo tavolo sto ascoltando una storia aliena di odio tribale in un imprecisato paese africano, e io non sto in nessuno dei due mondi, in questo momento. Sto a cavallo di una terra di confine, ignorato da tutti, dai miei compagni di squadra, dagli avversari, dalla Carla e dal numero sette che si sono isolati in un mondo loro. Spiazzato, e isolato.
«Ascolta Carla. – conclude il ragazzo nero, quasi con le lacrime agli occhi – I Turaaba avevano una spia, uno dei collaboratori più fedeli di Kobe Asuru. Alla fine della marcia, Kobe era salito sul palco. Io ero in prima fila, proprio sotto di lui», e ora anche la Carla ha le lacrime agli occhi, come se avesse già intuito il finale. «Kobe aveva iniziato il suo discorso, io mi stavo spellando le mani ad applaudirlo sotto il palco. Stava parlando della necessità di venirci incontro a palmi aperti, non a pugno chiuso, quando il traditore aveva colpito. Alle sue spalle. Davanti ai nostri occhi».
Si attacca di nuovo alla birra, fa una pausa eterna.
«E poi?» sussurra pianissimo la Carla.
«Quando è morto Kobe Asuru è morta ogni speranza, almeno per me. Ho lasciato il mio paese, la mia famiglia, sono scappato lontano dai Turaaba, dalle tribù, da tutto. E adesso sono qui». E finito il discorso butta giù l’ultimo sorso di birra, non dice più niente.
Fisicamente sono al tavolo con loro, ma sono muto, immobile, annullato.
Perché la Carla sta guardando con gli occhioni sciolti in acqua il ragazzo che le sta tratteggiando un mondo intero, nel breve spazio tra il primo e l’ultimo sorso di birra. Come posso competere, io, col mio sogno del pub e il viaggio in Irlanda che non farò mai? Come posso competere, anche solo lontanamente?
8.
Alla fine, dopo che il ragazzo col numero sette ha parlato un altro po’ del suo lavoro da operaio e dei suoi turni di notte, si guarda intorno e sussurra «Che ne dite se andiamo a fumare nel parco?».
«Grazie, ma non fumo» dico, con un sorrisetto vacuo. Sentendomi subito un cretino inferiore e inadeguato, a sfoderare orgoglioso i miei principi di atleta salutista. Io che non fumo per migliorare il mio rendimento sul campo, e mi sono fatto umiliare tre volte da questo numero sette che ora si rivelerà una ciminiera.
«Io ho finito le sigarette» dice la Carla.
«Quello che intendo fumare» sorride il sette «non credo sia legale», e poi ridono, lui e la Carla.
Quando escono per andare insieme nel parco, faccio un piccolo cenno di saluto con la testa e resto da solo a finire la mia birra. Circondato da quelle parodie di calciatori, impegnati a scambiarsi le suonerie dei cellulari scaricate da internet.
E io resto nel bar. A massaggiare il mio polpaccio che sembra cartone, e a buttar giù bicchierini di roba cattiva.
Tanto cattiva, che i pensieri cattivi sembrano venir fuori tutti.
Tutti, e tutti insieme.
9.
Poi c’è una sera di metà settimana che sono a casa e mi pesa anche solo respirare, da tanto che sono svogliato e stanco e scazzato. Bottazzi mi ha strappato la pelle dalle ossa a forza di strillarmi offese per telefono, la gamba sembra fatta di cotone idrofilo, fuori piove e c’è un vento fortissimo che solleva la polvere e le foglie. È una di quelle serate così schifose, ma così schifose, che l’unica consolazione è leggere i fumetti di mio fratello. Tanto lui è uscito con una ragazzina nuova e di certo torna tardi.
Così mi trascino pigro fino al tavolinetto dei fumetti, quello accanto al letto. Ne vedo un paio con scritto sulla copertina Superman: Rinascita, e quando c’è una storia di Superman io sono sempre contento.
Inizio a leggere, e rimango di sasso.
C’è un giovanissimo Clark Kent non ancora diventato Superman, nella storia. Sta muovendo i primi passi da giornalista.
E in questa storia, il giovane Clark Kent se ne va in un imprecisato paese centrafricano a intervistare un certo Kobe Asuru. Il leader dell’etnia Ghuri. Perseguitata dall’etnia dominante dei Turaaba.
Che lo fa uccidere da un traditore nel bel mezzo di un discorso, verso la fine della seconda storia. Prima che il giovane Clark Kent torni a Smallville carico di riflessioni ed amare esperienze, pronto a diventare un supereroe.
Si è inventato tutto.
Qualunque siano le sue origini, chiunque sia, ha capito in dieci secondi come far leva sulla psicologia della Carla. Ha colpito il bersaglio sciorinando personaggi e situazioni di un fumetto di Superman, quel demonio del numero sette.
Che mi ha demolito fisicamente, sul campo da calcio, e poi mi ha surclassato psicologicamente.
Superiore a me.
In tutto e per tutto.
10.
Ora sono in un bar a buttar giù bicchierini piccoli di alcool schifoso, schifoso come i pensieri che stanno uscendo fuori.
Non è il bar della Carla, no. Non voglio vederla, per un po’, la Carla.
Tra poco andrò in via del Fresatore, in quella zona industriale buia e deserta, e aspetterò che il ragazzo col numero sette esca dal turno di notte. Visto che ha fatto l’errore di dire dove lavora, nei suoi interminabili discorsi con la Carla. E io lo sto guardando da lontano sera dopo sera, nascosto nell’oscurità. So a che ora esce, conosco il suo percorso, la strada che fa a piedi, nel nulla, senza nessuno che mi veda vendicarmi di quella doppia umiliazione.
Ho un cacciavite pronto a colpire, e un fumetto di Superman come giusto simbolo del mio gesto.
Perché la roba cattiva, quando si accumula per tutta una vita, alla fine viene fuori.
Tutta, e tutta insieme.