In occasione dell’8 settembre, “Giornata internazionale dell’alfabetizzazione”, vi proponiamo un testo dello scrittore Luigi Malerba, originario di Pietramogolana, sull’Appennino parmense. Il brano, che introduce un vero e proprio vocabolario delle parole dialettali scomparse, è stato letto dall’attore Ivano Marescotti il 27 aprile 2016 nella Biblioteca comunale “Guanda” di Parma, nell’ambito della rassegna “Voci d’autore”, organizzata dall’Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna.
Questo è il tentativo di ricomporre l’immagine di una cultura contadina in disgregazione utilizzando un certo numero di parole dialettali alle quali corrispondono, o corrispondevano, altrettanti oggetti, strumenti, funzioni. Questo repertorio di parole sopravvissute è soltanto un “testo di esperienza” con tutti i limiti e le parzialità della testimonianza diretta, intorno a una cultura che non ha più memoria di se stessa e tanto meno è in grado di produrre immagini del proprio futuro. […]
La società contadina che costituisce l’argomento di questo testo appare subito ai nostri occhi come un sistema piuttosto rigido, dove le cose e le loro funzioni hanno con l’uomo rapporti stabili, codificati da antiche esperienze e riconfermati a ogni generazione. Questi gelosi equilibri interni, perfezionati dalla necessità biologica del risparmio delle forze, trovano a lungo andare una loro punizione nell’isolamento, per cui questa società finisce per restare fuori dai grandi processi storici, per perdere i contatti con i luoghi dove si elaborano nuovi valori, dove si fabbricano nuovi beni, e non riesce a emergere dalla miseria pietrificata cui la condanna l’avarizia della terra. Così il contadino non riesce a diventare protagonista né come individuo né come membro di una comunità, non riesce a conquistare il ruolo di “uomo storico”, viene volta a volta conteso e commerciato, lusingato e umiliato, secondo le vicende della penuria hominum che affligge per secoli le campagne e che investe talora l’intera società italiana.
Condannato a vivere nella violenza (la violenza della fame, della miseria e della fatica) il contadino trasferisce le proprie tensioni aggressive e ribellioni nel rapporto con la terra, sua unica ricchezza e dannazione, che lo ha tradito e che lui abbandonerà: alza la voce, bestemmia e parla con la terra, si esprime con la bestemmia (la biastüma) di cui ha a disposizione un repertorio vastissimo. Le parole diventano un luogo di pena dove esplodono tutte le frustrazioni di una esistenza mancata. Gli inevitabili scompensi materiali vengono risolti sempre senza appello a forze esterne (a società esterne) alle quali il contadino oppone la stessa diffidenza con la quale si difende dalla ostilità dei fenomeni naturali, grandine, vento, siccità. Nell’esercizio del lavoro egli proclama la propria indipendenza di “combattente” solitario (il verbo cumbàter viene usato dal contadino per esprimere le difficoltà del suo lavoro). Con la terra si può “combattere”, a seconda della resistenza che oppone, con armi diverse come la zappa (la sàpa), la vanga (la vànga), il piccone (al pìc) o infine con l’aratro di ferro (la piödla): l’essenziale è che l’attrezzo scelto consenta all’uomo di vincere nel rapporto di forza fra lui e la terra. Un rapporto utilitario, niente affatto idillico: la terra può essere grassa, magra, argillosa, sassosa, arida, compatta, farinosa, bene esposta o male esposta, ma per il contadino non è mai paesaggio e panorama.
L’area presa in considerazione si può delimitare entro il triangolo formato dai tre comuni di Berceto, Solignano e Valmozzola (Bersèi, Sulgnàn e La Mùsla) in provincia di Parma, nella media valle del Taro, e comprende tutta la vallata del torrente Grontone suo affluente. Una ristretta area dialettale, pressoché inedita, che si distacca, sia per il lessico che per la pronuncia, dai dialetti circostanti, soprattutto da quelli di Borgotaro e Bedonia nell’alta valle del Taro, che rientrano nell’area ligure, ma anche da quello parmigiano propriamente detto, dalla bassa valle del Taro fino alla città.
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In una società immobile come quella contadina, dove le cose e le loro funzioni tendono a conservare lo stesso nome nel tempo (qui la lingua non è oggetto di smercio e di consumo), la parola è un elemento portante della impalcatura culturale prima ancora che un mezzo di comunicazione. Intorno alle cose esiste già un sistema organico di relazioni cresciuto insieme al linguaggio che le definisce e che ne diventa la più efficace chiave di interpretazione.
Entriamo per un momento nella cucina del contadino e facciamo una prima scelta di oggetti elementari: la brònza (la pentola), al bazlōtt (il catino). Sono due recipienti che corrispondono a due funzioni essenziali: il mangiare, il lavarsi. È un punto di partenza casuale, ma già intorno a questi due oggetti-funzione si aggregano spontaneamente per associazione (ma si potrebbe procedere anche per opposizione) altre parole che ci aiutano a definire una parte della casa, cioè la cucina. La brònza serve per cuocere la minestra (così come al paröl, il paiolo, serve per fare la polenta). Per cuocere la minestra serve il fuoco (al fög) che si accende nel focolare (al fuglèr).
Abbiamo individuato così all’interno della cucina un luogo, il focolare, nel quale trovano il loro impiego altri oggetti: il treppiede (al tripé), le molle (el mujèti), la paletta (al gavèl), l’attizzatoio (la sampèina), la canna per soffiare nel fuoco (al bufòn), la catena per appendere la pentola (la cadèina). La cenere (la sèindra) che si raccoglie nel focolare, oltre che come concime per l’orto serve per fare il bucato (la büghè) nella tinozza (la sujöla) dove viene calcata la biancheria e poi coperta da un pesante canovaccio (al bügaròn) che divide la cenere dalla biancheria. Sulla cenere si versa l’acqua bollente che così diventa liscivia (alsìa) e poi scola fuori dalla tinozza attraverso un piccolo foro in basso e viene raccolta nel bazlōtt per essere riusata. Risalendo da un primo gruppo di parole-oggetti si può procedere progressivamente alla definizione e ricomposizione del luogo entro il quale agiscono i membri della famiglia contadina, dove si consumano i gesti e i rituali della rappresentazione come su un piccolo palcoscenico privato. […]
Al contrario di quanto succede per gli attrezzi o per l’altra nomenclatura agricola, i sentimenti o gli stati d’animo, che in italiano godono di un vocabolario ricco e pieno di sfumature, nel dialetto hanno un lessico limitato e non vengono quasi mai nominati nella loro generalità astratta. Non entrerà mai nel parlare di un contadino di queste parti la parola “amore”, ma lo stesso contadino dirà correntemente che suo figlio al s’é inamurè di quella tale ragazza. Questa ripugnanza per l’astrazione, un vero e proprio horror vacui, porta il contadino a tacere i sentimenti (quelli amorosi in particolare), a considerarli sottintesi. In compenso dispone di una discreta gamma di espressioni per definire l’atto sessuale, il momento fisico dell’amore (le più note sono: gusèr, ciavèr, freghèr, fùter, sbàter, mèter sùta, muntèr, inciudèr, infilèr, limèr, cavalchèr); non altrimenti dirà che un cibo è dùls (dolce) e potrà usare lo stesso aggettivo anche in senso metaforico, ma non lo sentiremo mai nominare la dolcezza in astratto. Questa è una delle differenze sostanziali fra il dialetto del triangolo Berceto-Solignano-Valmozzola e quello parlato in città, che tende a perdere i suoi connotati di concretezza per adeguarsi all’uso più sofisticato della borghesia cittadina (sentimenti e astrazioni).
Ancora per diffidenza verso tutto ciò che non è concreto e tangibile, il contadino di questa zona (ma forse è una caratteristica comune ad altre zone dialettali) non userà mai all’infinito i verbi che esprimono sentimenti, ma li declinerà invece alla terza persona, cioè in riferimento a una persona assente. Non dirà mai “odiare”, ma potrà dire invece che il tale udièva (odiava) il tale altro (preferibilmente al tempo passato, in quanto l’odio per lui prende rilievo non tanto come sentimento autonomo, ma piuttosto come premessa o causa di un comportamento). Oltre che l’infinito, è escluso quasi sempre anche l’uso della prima e della seconda persona e probabilmente qui interviene l’antico pudore del contadino a confessare i propri sentimenti in modo chiaro e diretto o a parlare dei sentimenti con la persona interessata.
In questa ricerca del concreto sta la vera “saggezza” contadina che spesso vediamo collocare abusivamente nelle raccolte di motti e proverbi, assunte come elementi caratterizzanti delle culture locali e che invece fanno parte soltanto della recita esteriore alla quale il contadino indulge con rassegnata autoironia (i pruvèrbi di vécc’ i-èn al cumpanàteg di cujòn, i proverbi dei vecchi sono il companatico dei coglioni).
Il salto che altrove si è verificato dalla cultura tradizionale contadina (ruolo della formica) alla cosiddetta civiltà dei consumi (ruolo della cicala), ha corrotto sia il dialetto che le strutture culturali a esso corrispondenti. Nel nostro caso non si sono verificati salti, ma una progressiva degradazione verso l’abbandono e la disabitazione del territorio, per cui i protagonisti non si trasformano, ma si allontanano dal loro ambiente prima di trasformarsi. La trasformazione (la corruzione) avviene quindi in un “altrove” che non lascia spazio alla sopravvivenza nemmeno parziale e temporanea dei modelli e dei linguaggi originari, non più utilizzabili fuori del loro contesto.
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Ammesso che le cause remote provengono da un cumulo di scontenti e irrequietezze latenti, c’è da mettere in conto fra le ragioni contingenti dell’abbandono anche l’arrivo del messaggio televisivo che offre d’improvviso a un pubblico impreparato una immagine aberrante della vita cittadina. A-m’ sòn insuniè, ho sognato, diceva un tempo il contadino che confidava ai sogni notturni l’espressione dei suoi desideri e delle sue fantasie. Il sogno era un costante contrappunto a una cultura tutta terrestre, un recupero di antiche velleità di evasione da una condizione senza prospettive e senza allegria. Le immagini televisive hanno in qualche modo colmato questa esigenza portando i sogni prefabbricati in cucina. Il contadino smette di raccontare i suoi sogni, forse non sogna più, ma sta alzato fino a tardi per decifrare le immagini che arrivano sul video e ne fa una sua lettura personale, un suo montaggio arbitrario (le difficoltà per gli anziani di assimilare il linguaggio televisivo li portano da principio a sovrapporre un programma all’altro e a leggere i primi piani come “teste tagliate”). Nei più giovani invece le immagini televisive arrivano subito come proposta di un mondo “diverso” e trasmettono una nuova spinta al movimento di fuga.
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Queste sono le tappe attraverso le quali passa la cancellazione di una cultura contadina che era sopravvissuta nell’isolamento e nella rinuncia e che a un tratto si è frantumata dissipando ogni impulso alla rigenerazione. Il contadino inurbato dovrà ridarsi un linguaggio (o un gergo) per ricominciare a parlare, ma intanto rimane muto e solo. Nel tentativo di acquisire i valori di un ordine diverso ha perduto i vincoli con un ambiente ormai destituito di ogni valore e significato attuale e si è destinato a nuovi isolamenti e a nuove rinunce. Le carenze di un potere che non si distingue dagli antichi signori e padroni per arroganza e indifferenza, hanno creato nell’arco degli ultimi trent’anni un vuoto dal quale emerge ormai un disadattamento antropologico che non è più possibile recuperare se non rinnovando in termini politici e economici i valori dispersi. A questo punto ogni proposta di conservazione affettiva diventa inattuale. Salvare dal naufragio un certo numero di parole è soltanto un gesto privato e di per sé improduttivo, ma può forse riproporre un tema civile a una società solo intenta a rinnegare se stessa.
Per ascoltare la lettura integrale del testo tratto dal libro di Luigi Malerba: https://youtu.be/1IYPNk_79Jg
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