24 aprile 2012
Dedichiamo questa puntata, cari ascoltatori, al cesenate Alberto Sughi, uno degli interpreti più lucidi e acuti dell’Italia del nostro tempo, deceduto poche settimane fa a 83 anni, in una clinica privata di Bologna. Dopo Tonino Guerra, la Romagna ha perso dunque un altro grande artista.
Sughi era tornato a vivere nella sua Cesena dopo i lunghi anni trascorsi a Roma, dove negli anni Cinquanta prese corpo la sua inclinazione artistica. Erano gli anni della contrapposizione tra astratti e figurativi: Sughi si collocò tra questi ultimi; per lui fu coniata l’espressione di “realismo esistenziale”, perché le sue opere richiamano con fermezza il lato etico di ogni ricerca estetica. Infatti, il pittore cesenate non vedeva l’arte come qualcosa di separato dalla vita quotidiana, ma al contrario – sono sue parole – “come uno strumento per conoscere la realtà”.
In un intervento del 1960, Sughi scriveva: “I giornali, la radio, i manifesti, il cinema, la televisione, i sensi vietati e i sottopassaggi tengono costretti gli uomini nel labirinto della grande città. Ma ho l’impressione che dietro ci sia qualcuno che ride, che non rispetta le regole; che mangia, beve e fuma in solitudine con una faccia nutrita di soddisfazione; qualcuno con piccoli occhi bianchi, che di notte passeggia nella città deserta padrone di tutto, con le mani in tasca, soddisfatto di come vanno le cose … E ho paura che esista perché, a ben vedere, anch’io lo lascio esistere. Temo, infatti, che quell’uomo abbia qualche radice fin dentro di me; che anche lui sia un po’ lo specchio che riflette la mia immagine. Si può dipingere tutto questo? Forse sì, si può anche dipingere”. Realismo esistenziale, conclude Sughi, significa che “Non si doveva guardare solo fuori di noi, ma anche dentro noi stessi. Non è facile individuare dove può crescere il male: sembra sempre prodotto solo dagli altri. Alle volte gli ‘altri’ siamo noi”.
Nel 2007 la sua Cesena gli ha dedicato una grande mostra antologica alla Biblioteca Malatestiana. I critici hanno accostato Sughi ai pittori della “scena americana” come Hopper per l’accento posto sulla desolazione degli spazi urbani; per la solitudine, l’alienazione, la vacuità dei contatti che rendono la sua arte “una pittura di situazioni umane”. Ma molti altri sono i riferimenti di questo pittore che va considerato tra i massimi dell’arte italiana contemporanea.
“In Sughi agisce potentemente la memoria di Goya – scrive Vittorio Sgarbi – la Donna sul divano rosso del 1959 si consuma nell’inferno della sua esistenza quotidiana. Non ha scampo. Come il pugile nell’angolo del ring con lo sguardo desolato sul volto disfatto”. E ancora, Sughi ha assimilato la lezione di Francis Bacon nei quadri degli anni Sessanta. “Ma è alla metà degli anni Settanta che Sughi riabilita un realismo narrativo di forte impatto teatrale – scrive ancora Sgarbi nella presentazione della sua antologica cesenate – è nel ciclo La cena, esempio pressoché unico in Italia di pittura sociale sui modelli della tradizione tedesca di Dix e di Grosz. Difficile concepire pittura più contemporanea, pronta a confrontarsi con le esperienze paradossali del cinema coevo, dal tardo Buñuel di Fantasma della libertà e del Fascino discreto della borghesia al Bertolucci del Conformista”.
Infine, un accenno ai suoi ultimi lavori: “Nei suoi notturni, uomini e donne, quasi statue di gesso o di cera, saranno per sempre fantasmi. Ci sarà sempre un Bar del crocevia dove una donna sola attende a un tavolo e un uomo solo con le valigie si avvia a partire per una destinazione ignota. E’ il mondo di Sughi: uomini e donne che non sanno per quale ragione vivere. E che, comunque, esistono. La loro solitudine è la stessa del pittore. Ed è anche la nostra”.