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4 Aprile 2013 | Racconti d'autore

Mi scusi. Non avevo mai parlato con una terremotata

Di Barbara Baraldi, tratto da “Scosse”, a cura di P. Roversi, Ghezzano (Pisa), Felici Editore, 2012

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Fulvio Redeghieri

4 aprile 2013

Il terremoto che ha colpito l’Emilia nel maggio del 2012 ha fatto tremare insieme alla terra alcune false certezze, tra cui la voce che la pianura padana non sarebbe zona sismica. Ma ha anche rafforzato dei legami, come quello che unisce quanti raccontano storie a quanti le leggono o le ascoltano: così, in questi mesi, molti cantanti, attori e artisti hanno raccolto fondi a favore delle zone colpite. Tra le iniziative si segnala il volume da cui abbiamo tratto i racconti di Valerio Varesi e Andrea Cotti nelle puntate precedenti, e da cui è tratto questo. La sua autrice, insieme agli altri coinvolti nel progetto, ha devoluto il proprio compenso per la ricostruzione della Biblioteca comunale di San Felice sul Panaro, nel Modenese.
Barbara Baraldi scrive romanzi noir, libri per ragazzi e sceneggiature di fumetti.

Mi sento un ostaggio. Ostaggio dell’impossibilità di rientrare nella mia casa, ostaggio di questo continuo sobbalzare della terra, di questa assenza di punti di riferimento e di qualunque certezza. Il mio vissuto delle ultime settimane è una grottesca imitazione della mia vita di prima. Prima dell’evento che ha sconvolto la mia esistenza, prima che la mia casa, da rifugio, diventasse una trappola da cui fuggire. Ricordo bene la mattina del 19 maggio, c’era uno splendido sole e con la Mirella e la Bea ho fatto un sopralluogo all’interno della Rocca di San Felice. Sono uscita in bici, come era mia abitudine, perché la mia cittadina mi piaceva viverla tra le sue strade, tra gli scorci che profumavano di vecchie abitudini e gli antichi avamposti di un’epoca passata. Dovevamo posizionare le foto per la mostra del sabato successivo, in contemporanea con una mia presentazione letteraria che non c’è mai stata. Ero molto emozionata, con i miei libri ho girato tutta Italia, ma, per timidezza, non avevo mai detto in paese che scrivevo. È trapelato pian piano, tramite gli articoli sui giornali, o l’orgoglio di mia nonna, che ne parlava alle amiche il lunedì mattina al mercato. La sala che abbiamo scelto per la mostra, in cima a una delle torri, non esiste più. È stata spazzata via dall’urlo della terra, quella maledetta domenica, una manciata di ore dopo la mia visita.

Quella sala, la chiamavano la prigione. Le pareti erano stipate di graffiti e di promesse di ritorno, di grida silenziose, di lamenti incisi nella pietra. Ora è un cumulo di pietre ammucchiate ai confini di una città fantasma. Una metafora di quello che è diventata la nostra vita, e una parte della nostra identità. Chiuse tra le transenne della zona rossa, ci sono le macerie dei miei ricordi, immagini svuotate della dolcezza e della speranza che custodivano.

Domenica 20 maggio. Le 4:04 del mattino. Brusco risveglio. Il mio appartamento sembra indemoniato. È difficile anche scendere dal letto, il pavimento mi respinge, vuole vedermi in ginocchio. Le pareti respirano. Non dimenticherò mai la sua voce. La voce distorta dell’urlo della terra, che dalle sue viscere entra nelle tue, di viscere. Un boato dissonante, prolungato, in cui si incastrano muri che fremono, tetti che sobbalzano. Blackout, poi alcuni flash illuminano la stanza. La scala a chiocciola che dalla mansarda conduce al corridoio sembra una spirale di metallo che si stringe intorno al mio corpo, il ventre di una creatura affamata. Fuori, devo correre fuori. E quando mi trovo in strada, e incontro la lastra del cielo, col giubbotto di pelle sul pigiama con la stampa di Trilli, i piedi graffiati e in mano le scarpe, il primo pensiero è per la mia famiglia.

Rete cellulare: assente. Dopo una corsa a perdifiato per attraversare il paese, immerso in un buio surreale punteggiato di volti sconvolti, strappati al sonno, violati nell’intimità della notte, finalmente, la ritrovo. Mia madre esce dall’auto in cui si è rifugiata per venirmi incontro. Mio padre è in cortile che cerca di tranquillizzare i cani, mi dice che i miei fratelli stanno tutti bene. È come se il cuore riprendesse a battere. Ma da quel momento so che niente sarà mai più come prima.

Mio fratello grande, che è andato a vedere se la nonna sta bene, arriva in macchina, trafelato, dice che gran parte del paese è crollata. Quando riprendo la bici, la visione che si offre ai miei occhi è apocalittica. Qualcuno mi racconta di quel tale che durante la scossa si è tuffato dalla finestra al primo piano e ora è all’ospedale col bacino fratturato, si comincia a parlare dei turnisti rimasti sotto le macerie dei capannoni.

Poi, nel giro di poche ore, i soccorsi, la Protezione civile che installa un campo base alle scuole medie, una tendopoli per i più bisognosi nella piazza del mercato e, nel giro di qualche giorno, in molti cominciano a parlare di riprendere le attività, di cominciare subito con la ricostruzione, perché quello che è successo è orribile, ma non riuscirà a buttarci al tappeto. Ma la seconda ripresa dell’incontro doveva ancora incominciare.

Mi è capitato di leggere un articolo in cui si parla del fatto che i meno abbienti sono ospiti nelle tendopoli, mentre gli abbienti sono accampati nei pressi delle loro case. Ricadrebbero negli “abbienti”, quindi, gli anziani che vedo dormire nelle loro auto, troppo orgogliosi per chiedere un aiuto che per loro suonerebbe come un’elemosina, tutti coloro che sperano di tornare presto a una parvenza di vita normale, operai e agricoltori, e tutte le famiglie che si ostinano a stazionare davanti alla loro casa semidiroccata, costruita con dedizione e sacrifici, sperando di poter salvare quello che è rimasto all’interno dalle razzie degli sciacalli.

Certo, ci sono diversi tipi di sciacallaggio. Ci sono i tipi con le finte divise della Protezione civile che pattugliano i quartieri periferici, annunciando nuove scosse a orari prestabiliti, per spingere la gente ad allontanarsi e rubare nelle loro case. Succede che qualche negozio, nelle zone limitrofe, si trovi a raddoppiare i prezzi dei beni di prima necessità come latte e pane. Succede persino che la commessa di una farmacia non mi dia il resto, incassando la cifra arrotondata per eccesso.

E poi c’è la straordinaria macchina della solidarietà di tutti coloro che, dalle regioni limitrofe, vorrebbero dare una mano ma non sanno da dove cominciare. La radio passa il mio numero di telefono, quindi un po’ per scelta e un po’ per caso, mi trovo a coordinare qualche carovana di aiuti per chi è rimasto accampato fuori da casa e si deve arrangiare per procurarsi ciò che serve per vivere, con la supervisione della vigilessa del mio paese che conosco sin da quando ero bambina.

Quasi tutti fantastici, qualcuno un po’ meno. C’è persino qualche siparietto. Un ragazzo, nel sentire la mia voce, scoppia a piangere. «Mi scusi», dice, «ma è la prima volta che mi capita di parlare con una terremotata». Un altro: «Ho un magazzino pieno di cazzate, e ho pensato di portarle da voi». Un signore si propone per aiutare le persone colpite dal terremoto, è un rappresentante di macchine per caffè. Gli propongo di donarne una al paese, c’è gente che non prende un caffè da settimane, ma si rifiuta perché ha paura che poi gliela rubino (!). Provo a far girare il sito internet con l’IBAN per le donazioni ai singoli paesi. Anche qui, siparietti: «Mi è caduta la penna», «Dai questi contatti alla mia fidanzata se ti richiama», addirittura «Non darò soldi perché poi ho paura che qualcuno se li intaschi». Hai voglia di spiegare che le donazioni sono documentate e l’unico intento è la ricostruzione, che il sindaco dorme in camper di fianco a noi e abbiamo una gran voglia di rimetterci al lavoro per ricostruire la nostra vita, ma senza soldi si fa dura (a meno di non credere che davvero ci penserà il governo).

Con la maggior parte degli sfollati accampati presso le loro case, la Protezione civile ha difficoltà a raggiungere tutti con aiuti e beni di prima necessità. Suggeriscono di andare presso i campi allestiti da loro, e chiedere se hanno bisogno di qualcosa. Ma non è facile, gli abitanti in queste zone sono persone orgogliose, operai, agricoltori, artigiani abituati a lavorare duro, e chiedere aiuto sembra chiedere l’elemosina. Le facce sono bruciate dal sole e dalle intemperie di queste settimane, per le lunghe giornate passate fuori dalle case, fuori dalle fabbriche.

Per giorni, non riesco a scrivere. Poi, incoraggiata dagli amici, che mi suggeriscono di raccontare quello che sto vivendo, riesco a rimettere mano al mio blog e mi faccio portavoce dei rumori sui possibili collegamenti tra trivellazioni (qua le compagnie petrolifere fanno i loro comodi da quindici anni) e il risveglio della faglia, linkando articoli del sismologo Mucciarelli sulla sismicità indotta e documenti raccolti da Maria Rita D’Orsogna. In TV gli esperti smentiscono qualsiasi collegamento.

Ma come possono essere così categorici? Se persino ERG Rivara Storage ha sostenuto fino al giorno prima del terremoto che la zona non era sismica e si poteva installare un sistema di stoccaggio gas sperimentale sotto un’area popolata da ottantamila persone senza alcun rischio, come possiamo credere che le altre compagnie abbiano adottato ogni possibile cautela per non interferire sulla faglia? E che cos’erano le esplosioni notturne che sentivamo da mesi, ormai, e che nessuno, delle istituzioni, è in grado di spiegare? Negare, negare. Questa la parola d’ordine dei pezzi grossi delle multinazionali dell’energia. E ci prendiamo pure dei complottisti.

Non si dorme più. Mio fratello ci scherza su, dice che appena si addormenta arriva il suono della sveglia (il boato del terremoto). Viviamo in uno stato di assedio continuo. È come se mi avessero rubato la vita. Il terremoto sconvolge la quotidianità e i progetti. Persino cucinare, diventa un’impresa. Mia madre, che ha la cucina al piano terra, si attenta a preparare il caffè la mattina per tutti noi, e la pasta per pranzo. Ma quando arriva la seconda forte scossa, il 29 maggio, proprio mentre sta preparando la colazione, la fiamma del gas rischia di dar fuoco alla cucina.

C’è una cosa che mi ha insegnato questa esperienza: a non pensare oggi a quello che c’è da fare domani. A domani, ci penserò domani.

Brano corrente

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