Chitarrista, jazzista, scrittore, Marco Villotti, in arte Jimmi, nel suo ultimo libro racconta come tutto ebbe inizio, per lui, nella Bologna degli anni Cinquanta.
Si chiamava Restani Celso, ma da tutti era conosciuto come Amba… pardon, Ambà, alla francese.
Lui si presentava così: «Je suis Ambà la nuit, Ambà le marseillais »; ma noi, non avvezzi ancora alle raffinatezze della notte, lo chiamavamo Amba (con l’accento sulla prima “a”).
«Ciao Amba, come va?».
«Ciao nipote, Oringhen, dì mo gne-gne…».
«Gne-gne…».
E Amba: «Gne-gne te!».
Ecco, questo era uno dei tanti modi con cui il grande personaggio bolognese salutava i suoi nipoti (ci chiamava così) e noi giovani avevamo imparato a ossequiarlo e riverirlo per la fonte inesauribile di battute e trovate gergali che rappresentava.
Bologna, per sua natura, ha sempre coltivato in seno tipi non comuni, macchiette, persone che sembravano normali ma che, sotto sotto, erano comici nati. E la notte, con il suo abbraccio tenebroso e deviante, ha contribuito a questo proliferare di talenti. Ha fatto venir fuori ciò che stagnava nell’umanità recondita di un certo modo di vivere petroniano.
Vecchia storia, la conoscono in tutto il mondo: Bologna e la notte.
Gemellaggi non sanciti da alcuna guida turistica hanno accomunato, nella cultura e nell’arte del vivere la notte, Parigi a Bologna e, forse, New York e poche altre metropoli. […] Poi, se vogliamo, c’è la Senna che può fare pendant con il Reno, il nostro Reno. Ma la Bologna di notte ha poco da spartire col suo fiume; forse è una questione di portici, laddove operano, stanziali o di passo: giocatori di dadi, carte, biliardo, scommettitori, puttane, gargagni (papponi), orchestrali, camerieri fuori servizio, bussatori (tipi duri) e qualche disperato che nella notte trova conforto, non sopportando la limpidezza del vivere diurno.
In questo scenario, in questo contesto, io, come giovane chitarrista, fui catapultato che neanche mi immaginavo una cosa del genere. Avevo appena imboccato la strada maestra dell’esistenza: l’età in cui si comincia a pensare. Non quando ci s’imbestialisce su “quanto c’è di mio” o “quanto mi vien dato dal buon Dio” (rima concessa); questo viene dopo. […]
Cosicché, come dissi, mi trovai nella primavera inoltrata dei miei primi diciannove anni.
E lì, nei tempi morti di una sala da ballo di periferia (il Parco Verde), fui chiamato per un’audizione. Anzi: l’Audizione. La prima, unica, vera, grande occasione della mia vita.
Allora la città offriva altri dancing, oltre al Parco Verde, per intrattenere il pubblico festaiolo e ballerino. Il Circolo dei Dipendenti comunali, il Cigno Bianco, il Luna Rossa, il Miami, l’Euridice, eccetera: nomi da stampigliare bene sulle insegne della memoria.
Queste sale accoglievano, nei giorni di festa e prefestivi, individui che di umano avevano solo certi tratti e, mancando la parola intelligente, rimanevano evidenti i difetti provinciali e le pudende. Di solito brutti ma oltremodo audaci, condizione questa che è figlia riconosciuta di una certa miseria, questi ragazzotti di periferia ostentavano gran padronanza dei balli in voga e vestivano grisaglie, abiti a scacchetti, qualche jeans e magliette dai colori vaghi, il tutto molto approssimativo, sorta di metafora del dopoguerra.
Io da due anni lambiccavo con la chitarra. Mi ci provavo.
Avevo preso una manciata di lezioni dai barbieri Eterno e Bastia (i negozi di barbiere sono sempre stati le università per gli strumenti a plettro), ed ero arrivato a impossessarmi degli accordi che, agli inizi, convogliano i primi giri armonici al solo capotasto.
In sintesi cose di una pochezza da sorriderne. Do, la minore, re minore, sol settima e poi mi maggiore, mi minore (che si ottiene semplicemente alzando al cielo il dito indice della mano sinistra), la maggiore, re maggiore e, più difficile di tutti, il fa maggiore con il suo famigerato barrè. Ecco, grossomodo smanazzavo la tastiera della chitarra con questi accordi e azzardavo accompagnamenti ritmici che in quei tempi andavano di moda: rumbarock, beguine, samba, terzinato, boogie-woogie e rock’n’roll.
Già, rock’n’roll!
Questa musica mi si era attaccata alla pelle e, pian piano, mi succhiava l’anima.
[…]
Dov’ero rimasto? Ah! L’audizione al Parco Verde. Sì.
Mi chiamarono nel primo pomeriggio.
Una voce nuova, sconosciuta, staffilò parole secche a cui era difficile sottrarsi, rimanere insensibili. Un alone di austera professionalità trapelava dal contatto telefonico.
«Pronto? 415474? Sei tu il cantante chitarrista? Ci hanno parlato bene di te, sono Ray Silver dei Meteors, vorremmo sentirti… martedì prossimo al Parco Verde… Porta la chitarra e l’amplificatore, mi raccomando».
Rimasi impietrito per un bel po’ con la cornetta del telefono in mano, poi corsi ad abbracciare mia madre.
«I Meteors mi vogliono a suonare con loro! Grande, mamma Iolanda».
E lei, da buona ferrarese, donna tosta e con i piedi per terra: «Guarda bene di non mettere il carro davanti ai buoi…».
In effetti era troppo bello, come quando le vicissitudini si avvoltolano compiacendosi, si rigirano nell’organza. Va be’… […]
Arrivai al Parco Verde con dieci minuti di anticipo. Naturale che fossi teso, dunque mi dedicai all’attrezzatura. Gesti ormai acquisiti che sapevano di sufficiente dimestichezza nel trattare gli strumenti; un niente collegare l’amplificatore e maneggiare con i potenziometri fino a posizionarli sulla tacca più consona.
Questo per avere un suono che si avvicinasse a quello della chitarra di Duane Eddy: una bella gara comunque… Poi provai i vari trucchetti: l’effetto vibrato, l’effetto stoppato, lo sgardazzo violento e il finto smanazzo (tecniche, si diceva, elaborate in periferia, roba al di sotto dei barbieri)… Infine, accordai la chitarra.
Messo il corista in bocca, “sputai” il la e cominciai a lavorare con le meccaniche, che erano oltremodo dure e difettose, e anche il mio orecchio, in ultima analisi, non era granché. Ci misi più del previsto.
Provai tutti gli accordi che sapevo, suonavano abbastanza bene. Ero pronto. E i Meteors? Dov’erano? Vidi arrivare qualcuno. Deglutii saliva e smarrimento.
Dalla penombra della sala, in fondo, prese forma una figura che avanzando rivelava connotati familiari. Era Straccio, l’amico Straccio.
Gli avevo parlato dell’audizione e lui non voleva mancare a quell’appuntamento.
Aveva chiesto un paio d’ore di permesso al suo capo officina ed era tutto intabarrato.
Era venuto con lo scooter anche lui e aveva un freddo boia. Fuori, la sua Lambretta e la mia Vespa disegnavano un quadretto motoristico-esistenziale di rara intensità, nella pochezza inevitabile dello spazio piatto antistante l’entrata di un dancing di periferia.
«Sono venuto a sentire come te la cavi…».
«Straccio, non mi sento bene. Ho il cuore in gola. Chissà che cosa mi faranno suonare…».
«Ma prova a staccargli Shake, Rattle and Roll, l’hai cantata bene domenica allo Spartaco dancing…».
Sentii una presenza alle mie spalle, anzi più di una. Mi girai e li vidi.
Erano entrati di soppiatto mentre parlavo con Straccio. Deglutii sputo e affanno.
«Ehm… salve!».
«Lui chi è?» indicarono Straccio.
«È un amico, mi ha accompagnato…».
Mentre si toglievano i cappotti (roba fina) notai che erano solo in tre: Piero, Umberto e Baby Evans. Si misero a sedere tra i tavolini, sotto il palco. Io aprivo e chiudevo il volume della chitarra, aspettando, poi cominciai a torturare il commutatore facendolo andare su e giù, freneticamente, fino a che Baby Evans, con la sua caratteristica voce nasale, dette inizio al terzo grado.
Già, sembrava proprio di essere a un interrogatorio di polizia più che a un’audizione, anzi: all’Audizione.
«Allora, facci sentire che cosa sai fare. Suonaci qualcosa!».
«Cosa?».
«Fa’ un po’ tu. Quello che vuoi».
Aprii il volume, sbrodolai un mi maggiore da antologia, feci un lungo sospiro (mi passò la vita davanti agli occhi) e staccai Shake, Rattle and Roll.
Fu una completa débâcle, una sonora batosta. Mi risero pure in faccia; educatamente, Umberto si coprì la bocca con una mano, poi tutti e tre, allargando le braccia come per scusarsi, sentenziarono che non ero adatto, ero ancora acerbo, troppo acerbo. Dissero che non tenevo il tempo e che ero anche stonato, in più mancavo di sufficiente sicurezza con la chitarra.
E loro avevano bisogno di un buon chitarrista, abituati a uno strumentista come Umberto che rifaceva, senza sbagliare una nota, gli assolo di chitarra dei Champs e degli Shadows. Non potevano certo permettersi una mezza calzetta.
«Volete sentire qualcos’altro…» tentai.
«No grazie. È sufficiente quello che hai fatto… auguri. Ci risentiremo… forse in giro».
«Posso telefonarvi?».
«Perché?».
«Mah, così… per sapere che cosa devo fare».
«Studia! Non hai altro da fare». Laconici e anche un poco stronzi in fondo.
Girarono le spalle e guadagnarono l’uscita seguiti dal gestore del Parco Verde, il solerte Calzolari che, curvandosi nella posizione dell’ossequio, elargì una bordata di sorrisi e salamelecchi.
«Quando potrò avere l’onore di sentire i Meteors al Parco Verde?».
E loro all’unisono: «Chieda al nostro agente!».
Riconobbi la frase, era già di uso comune, naturalmente per chi avesse avuto un agente o chi avesse visto il film Gangster cerca moglie di Tashlin (titolo originale The Girl Can’t Help It). Io l’avevo già visto otto volte (il film) e molte di più avevo fantasticato su quella battuta: “Chieda al mio agente!”.
Va be’… Sparirono come fuochi fatui a contatto con l’aria fredda. E lì era tutto freddo, glaciale, io addirittura morto dentro. Straccio invece era molto lucido e tendente all’istinto di reazione.
«Hai fatto schifo! Una grande stronzata, altro che rock and roll… Ma che cosa ti ha preso? Eppure l’ultima volta che ti ho sentito, ai Postelegrafonici, eri andato forte. Avevi cantato alla grande anche la canzone ammazzacattivi (It’s Only Make Believe), e oggi invece… ’sta roba qua!».
Parole del tipo: “Beccati questo in saccoccia, te lo dice un amico”. È l’etica di quartiere; Saffi, nella fattispecie.
«Occhei, basta essere sinceri, grazie Straccio. Mi hanno detto che non so andare a tempo. Che cosa vuole dire? Che cosa devo fare? Devo trovarmi un buon maestro di chitarra?».
Dubbi e domande comprensibili. Che cosa potevo fare a quell’ora del mondo? E che cosa si potrebbe dire oggi, se non ammettere che le analisi a posteriori sono chincaglieria?
Allora c’era tanto cinema e tanta voglia di imparare a suonare. Anzi, di più. C’era voglia d’imparare a vivere. Inutile poi smussare gli angoli di quel lontano smacco: servì a farmi capire che niente è alla tua portata, tutto è a un paio di metri dal tuo naso. Piagnucolai un poco, più che altro un rimuginare tra me e me, e per farmi ancor più male decisi, di punto in bianco, di troncare con la banda che frequentavo a quei tempi.
Una naturale tendenza del mio essere, lo capii più tardi, quella di saper voltare l’angolo con perentorietà. Lì, su due piedi. Lo dico più volte perché, sotto sotto, fu una sorpresa anche per me: accorgermi, sentire, che il dolore conseguente a un insuccesso, un abbandono, una negazione del diritto alla propria eccellenza, piccola o grande che sia, non fa poi così male.
E via… Da quel giorno non mi feci vedere in via dello Scalo. Non avrei più rivisto il Bar Bigi e tutta la congerie che vi perdurava. Non avrei più fatto baracca con Straccio, Biki, Giuliano, Bogey, Sergino, Sargatana e Tabacàz.
Un deciso colpo di spugna avrebbe lavato via i sogni dell’adolescenza, quei sogni che sfiorano l’impudenza di anelare ai miti lontani. Non potevo sapere, forse non mi sarei mai potuto rendere conto della purezza di quegli slanci giovanili; ma a quel punto non bisognava supporre, non era il tempo dei ragionamenti. Era il momento di azzardare con la vita. Ci provai.