Attore, regista e autore teatrale, Gabriele Duma, con l’aiuto della disegnatrice Grazia Nidasio, ha raccontato le vicende di vita del musicista Gioacchino Rossini che hanno avuto come teatro la città felsinea. Leggiamo l’inizio della storia…
Sono nato a Pesaro. Figlio di Giuseppe Antonio, detto “pubblico trombetta” perché banditore del Comune – suonava la tromba e il corno, papà – e di Anna Guidarini, modista, ma soprattutto cantante, la mamma.
Il papà, lo chiamavano anche “Vivazza” perché non stava mai fermo, e quando si infuriava, mandava tutto per aria. Ma non era mica un violento, per niente, era un uomo appassionato. Per questo, quando erano arrivati i francesi, i soldati di Napoleone, con le loro idee di uguaglianza, fratellanza e libertà, il papà si era dato subito da fare e aveva partecipato a Pesaro alla costituzione di un governo municipale e democratico. Ci credeva.
Che spavento, però, quando sono tornati i soldati del Papa Re! Per un po’ lo hanno messo anche in prigione, e per punirlo lo hanno licenziato da “pubblico trombetta”. Così smise di fare il banditore. Non doveva più andare in piazza, suonare la tromba e leggere a voce alta i pubblici editti. E non doveva più presenziare alle vendite all’incanto, alle ispezioni delle farmacie, alle cerimonie… La sua passione era la musica, e allora tornò a fare il cornista nelle orchestre di Bologna e di Ferrara.
Certo non guadagnava tanto, ma per fortuna da un po’ di tempo le leggi erano cambiate e finalmente le donne potevano esibirsi nei teatri e nelle sale pubbliche. Perciò anche la mamma poté fare la carriera da cantante. Come seconda donna però, mai da protagonista, perché non era priva di talento ma non conosceva nemmeno una nota. Cantava da orecchiante, eppure con discrete doti musicali e una buona voce di soprano.
Alta, ben proporzionata, un po’ pallida, ma con la carnagione freschissima. Aveva i capelli lunghi, neri, magnifici, la mamma. Le si inanellavano spontaneamente sul petto e sulle spalle. Quando sorrideva i denti erano bellissimi. Sempre gaia e dolce, come un angelo, sempre di buon umore.
Quante volte l’ho accompagnata al cembalo, nei teatri di Ancona, Ferrara, Bologna, Ravenna, Bagnacavallo… Una sera al Teatro Comunale di Imola ho cantato in duetto con lei, a dodici anni!
Ho iniziato a studiare musica a Pesaro, prima col papà e la mamma, poi con un maestro di canto e clavicembalo. A nove anni avevo già suonato la viola nell’orchestra del Teatro della Fortuna di Fano.
È perché sono cresciuto fra il canto e il palcoscenico.
Dapprima non avevo altro in mente che di fare il cantante d’Opera. Volevo imparare l’arte del canto meglio di tutti i cantanti che avevo sentito e per questo mi misi a fare il maestro al cembalo. Poi, però, la musica che scrivevo cominciò a piacere e finii quasi per caso nella carriera del compositore.
Sì, mi innamorai presto della musica, molto presto perché correvo…
Cominciai che non avevo ancora dieci anni e correvo, correvo…
Correvo come quella carrozza, che mi portò qui, da Pesaro a Bologna.
Era il settembre del 1799. La carrozza attraversava la via Emilia, scassando a un ritmo quasi regolare. Avevo sette anni e, in piedi al finestrino, appoggiato alle ginocchia della mamma, annusavo per la prima volta l’aria dolciastra della mia nuova città.
Bologna mi aspettava vestita di tramonto rosso, con un cielo luminoso, speciale come il viso della mamma quando cantava i suoi acuti più potenti, i suoni alti. Con quel rosso di sera cominciava l’Ottocento e io gli correvo incontro con una carrozza che non si sarebbe più fermata.
Non lo sapevo certo allora, ma quella carrozza stava battendo il ritmo della mia vita, e mi avrebbe portato di qua e di là, a raccogliere suoni da trasformare in musica. Come una giostra che ogni tanto rallenta, si ferma un poco, fa salire qualcuno e poi riparte, con furore…
È la parola che usavo per scrivere alla mamma che una mia Opera aveva avuto successo. “Furore” scritto in bella mostra già sulla busta. Invece, quando lo spettacolo non andava tanto bene, le disegnavo un bel fiasco, più piccolo o più grande, a seconda di quanto disastroso fosse stato l’esito della serata.
È che a quel tempo il pubblico dei teatri partecipava agli spettacoli come a una gara sportiva, era un vero e proprio tifo. Qualche volta erano capaci di fischiarti o rovinarti lo spettacolo anche solo perché non c’era il loro cantante preferito, o perché erano affezionati a un altro compositore e non volevano che qualcuno lo superasse. Se penso che persino Il Barbiere di Siviglia, forse la mia opera più divertente, leggera, e poi la più rappresentata, al debutto fu un fiasco clamoroso!
Il Barbiere di Siviglia – storia inventata nel 1772 dallo scrittore francese Monsieur de Beaumarchais – ha come sottotitolo “l’inutile precauzione”, perché è la storia di un vecchio signore non più ricco, Bartolo, che è tutore della bella e giovane Rosina. La tiene in casa, la fa studiare, ma vuole anche sposarla per prenderne la dote. Lei, naturalmente, non ha nessuna intenzione di unirsi in matrimonio con il vecchio e si innamora del giovane Conte d’Almaviva. Insieme, Rosina e il Conte, riescono a eludere qualsiasi precauzione del noioso Bartolo, sempre aiutati dal geniale barbiere Figaro.
Il 20 febbraio del 1816, al Teatro Argentina di Roma. Ne raccontano ancora di tutti i colori: il basso, Don Basilio, che cadde in scena e cantò la sua aria con il sangue al naso. Il tenore, il Conte d’Almaviva, a cui si spezzò una corda della chitarra che lo accompagnava nella serenata. Raccontano persino di un gatto miagolante che a un certo punto attraversò la scena.
Il fatto è che c’era una gran tensione. Erano tutti molto nervosi perché qualche giorno prima era morto l’impresario del teatro, che era anche molto giovane. Poi i cantanti fra di loro non andavano per niente d’accordo. E inoltre il pubblico era indispettito dal fatto che il signor Rossini, così giovane e già famoso, avesse musicato quella storia del Barbiere, già musicata da altri e soprattutto dal grande Giovanni Paisiello, che ancora tutti amavano molto.
Così alla prima rappresentazione ci fu un tale vociare, dall’inizio alla fine dello spettacolo, che quasi non si sentiva la musica. Ma la storia va avanti da sé e già alla seconda replica il pubblico si mise ad applaudire.
L’anno dopo al Teatro Contavalli di Bologna fu un trionfo, un vero furore!
Eh, non era facile, ma la carrozza andava…
Correva la carrozza del piccolo Gioacchino, correva con i sogni. Come un canto che incontra suoni nuovi e cresce per diventare una potente sinfonia. Ogni tanto la strada si faceva un po’ più regolare e il battere degli zoccoli più acuto, più brillante.
Ah, lo riconoscevo ad occhi chiusi, era il suono di Strada Maggiore. Ho vissuto tanto in Strada Maggiore. Quanti anni! Prima al numero 204 con il papà e la mamma. Poi, mentre viaggiavo per i teatri del mondo, il papà e la mamma si trasferirono al numero 240 e io tornavo spesso lì a trovarli e a star con loro.
Allora, conobbi Isabella Colbran. Una maga del canto. Una inimitabile attrice e grande in tutti i passi di bravura. Qualche anno dopo la sposai! e andai con lei ad abitare la villa di Castenaso, che era della sua famiglia. Ma io ero finalmente diventato ricco grazie alla mia musica e così acquistai per me un palazzo in Strada Maggiore 243 e per i miei genitori una casa al numero 248.
[Il libro Rossini a Bologna è stato pubblicato dalla Bononia University Press nella collana “Sotto i portici”, curata da Tiziana Roversi e Claudia Alvisi]