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21 Gennaio 2016 | Racconti d'autore

Silenzio a Calcutta (per Michelangelo Antonioni e Nemai Ghosh)

Racconto di Beppe Sebaste tratto dalla rivista “Il Reportage. Trimestrale di scrittura, fotografia e giornalismo” (numero 22) – seconda puntata

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Fulvio Redeghieri

Racconto di Beppe Sebaste tratto dalla rivista “Il Reportage. Trimestrale di scrittura, fotografia e giornalismo” (numero 22) – seconda puntata 

Scrittore, poeta e giornalista, nato a Parma, Beppe Sebaste è un osservatore curioso del mondo e degli incontri folgoranti che nascono viaggiando: come quello con Nemai Ghosh, il celebre fotografo di Calcutta, unito a lui da una straordinaria conoscenza in comune…

Lasciammo fuori le scarpe ed entrammo in una stanza dai colori luminosi, azzurro soprattutto. Su una parete riconobbi il regista Satyajit Ray in una fotografia di scena, e tra i molti libri di cinema negli scaffali, con grande meraviglia riconobbi il catalogo della mostra di Antonioni Silenzio a colori. Lo sfogliai, notai con emozione che nella versione inglese del mio testo erano state sottolineate varie frasi. Ebbi più che un presentimento. Visualizzai con la memoria, al pranzo di compleanno di Antonioni, ospiti della Casa del Cinema a Villa Borghese di Roma, che tra i pochi che eravamo c’era anche un fotografo indiano trafelato. Gli avevo parlato brevemente, era arrivato con l’aereo da Delhi quel mattino stesso.
Il console ci presentò, bevemmo un herbal tea con i consueti involtini dolci e salati che in una casa indiana non si possono rifiutare, poi Nemai Ghosh ci mostrò da una cartella le fotografe scattate a Roma al regista italiano, e capii definitivamente cosa c’entrasse Corto Maltese. Le storie di Hugo Pratt, come quelle di Alvaro Mutis, raccontano di riconoscimenti, amicizie ritrovate, epifanie, forse agnizioni.

Saltò fuori che non solo Nemai Ghosh era il fotografo che conobbi quel 29 settembre 2006, a pranzo e poi al vernissage della mostra di Antonioni a Piazza di Pietra; ma in almeno cinque o sei delle prime foto della serie c’ero anch’io. Provai cioè la sorpresa di scoprire che in quel quartiere impenetrabile per uno straniero, in quella casa così indiana, anzi così tipicamente “old Kolkata”, alla fine di un vicolo insospettabile e invisibile, ero presente da almeno otto anni in immagine senza saperlo.
Che fosse un’altra epoca lo mostravano le foto, già per questo struggenti: sembrava fossero passati decenni. Non perché fossi più magro o avessi capelli più neri o sembrassi più felice. La magia delle foto di Nemai Ghosh era far sembrare l’anno 2006 come un anno senza tempo, magari uno qualsiasi degli anni Cinquanta.

Nemai Ghosh divenne fotografo quasi “per caso”. La sua passione per il cinema, dopo quella per il teatro, si riversò nella fascinazione immensa che su di lui esercitò Satyajit Ray, di cui non solo fu fotografo di scena per venticinque anni, ma fotobiografo, il suo “(James) Boswell con camera”, come scrisse scherzosamente lo stesso Ray.
La svolta, trionfale al suo ritorno in India, fu quando negli anni ’80 Cartier Bresson lo invitò a Parigi, dopo avere visto alcune sue fotografie. Lo presentò al direttore dei “Cahier du Cinema” dove pubblicò le prime foto, naturalmente con Ray e i suoi set come soggetto.

Kolkata, un libro recente di Nemai Ghosh, è quasi un romanzo per immagini che attinge dall’inesauribile archivio di un cronista con la Nikon, fedele e amoroso. È vero, come hanno detto in tanti, che Calcutta è per lui quello che Parigi era per Cartier Bresson. Nata in onore alla dea Kali (Durga, nel suo volto amorevole di Madre Divina, anche se micidiale per i suoi nemici), Calcutta è una stratificazione di segni i cui estremi sono l’opulenza dello stile coloniale inglese – che sopravvive nei suoi numerosi club quasi fuori del tempo – e nel cliché della miseria enfatizzata in passato da Madre Teresa, le cui suore andavano a cercare e raccogliere i morenti dalle strade (solo i morenti) per farli trapassare nella loro Casa delle Missionarie della Carità. Entrambi questi cliché nascondono le doti straordinarie di disponibilità e resilienza di questa città in cui nacquero tra gli altri Rabindranath Tagore e Sri Aurobindo, e che accolse nel corso della storia recente almeno due ondate migratorie di milioni di disperati, soprattutto dal Bangladesh, in fuga da catastrofi politiche e naturali una dopo l’altra.
Nel testo introduttivo al libro, Sankarlai Bhattacharjee fa i nomi di James Agee e Walker Evans, per il mescolare vita ordinaria e ritratti di “famosi”, e quello di Paul Strand per la libertà di movimento. La fotografia di Nemai Ghosh ha la saggezza di restare equidistante dagli opposti esotismi. Citando Susan Sontag, “la povertà non è più surreale dell’opulenza”.

Tra i ritratti della Calcutta artistica e culturale di Ghosh ci sono i fratelli Shankar: Uday, il danzatore e coreografo, e Ravi, il maestro di sitar. Lo scrittore e regista teatrale Ritwik Ggatek, traduttore di Brecht e Gogol, e tutti i filmaker che trasformano le vie della città in allegri set cinematografici, da Ray (leggendaria la foto di lui che gira con la cinepresa dal bagagliaio di un’Ambassador in movimento) a Mrinal Sen e M.S. Sathyu che dirige Anil Kapoor, o il compianto Patrick Swayze a bordo di un rickshaw trainato da Om Puri in corsa nel film tratto dal libro di Dominique Lapierre, La città della gioia.

Nemai Ghosh ci parla del progetto di una mostra su Antonioni a Calcutta. Che bel soggetto, penso – Michelangelo Antonioni, Calcutta, il cinema, l’India, la fotografia – si meriterebbe un libro. Come se mi ascoltasse i pensieri, l’anziano fotografo ci racconta che il suo editore non vuole più fare il libro che aveva concordato con lui su Antonioni. È stupito. Io no. Di questi tempi sembrano non esserci mai i soldi per fare le cose che mi piacciono.
Nel corso dell’anno si farà una mostra a Calcutta con le foto che ritraggono Antonioni pittore, il silenzio nella sua casa sul Tevere a Tor di Quinto, ore e giorni a dipingere il vuoto, a disegnare ellissi e curve, geometrie non euclidee e coloratissime. Dipinti da descrivere con le stesse parole che usavamo per dire la sintassi narrativa dei suoi film: l’eloquenza del vuoto, la suspense, la “sincope del senso”, come disse Roland Barthes paragonando Antonioni a Braque e Matisse, e all’estetica dell’Oriente.

Sarebbe troppo doloroso dire a Nemai, paladino della memoria, che in Italia i giovani conoscono ormai pochissimo Antonioni, che si sta sradicando anche questa memoria recente, che la sua rivoluzione estetica e narrativa, privilegiare i tempi morti, gli interstizi delle avventure, è oggi un ossimoro, come il silenzio a Calcutta.

[Il racconto, corredato dalle fotografie di Nemai Ghosh, si può leggere anche sul sito di Beppe Sebaste: www.beppesebaste.com/silenzio-a-calcutta-per-michelangelo-antonioni-e-nemai-ghosh/]

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