Il nuovo libro di Gabriella Pirazzini, giornalista e scrittrice imolese, mette in movimento una serie di racconti al ritmo della danza che dà il titolo. Danza tra parole che finiscono tutte per “etto” o “etta”, legate una all’altra da una sorprendente… piroetta.
Cloaca, letame, cipolla, vinaccia. La notte sembrava buttare fuori tutti gli odori della città fino alla campagna. Pensava a quello che Daniela diceva sempre: “Le persone semplici sono felici”.
Le persone semplici. Gli veniva in mente la matematica a scuola, o l’artitmetica, o l’algebra, mai capita la differenza, ma lì c’erano sempre cose semplici e cose complesse. Due insiemi inavvicinabili. Da gestire. Misurare. Comprendere. Risolvere.
Fabio viaggiava. Spesso. Ma soprattutto leggeva. In continuazione. Senza posa. Non si potrebbe nemmeno definire lettura la sua, la si dovrebbe chiamare ossessione. Lo faceva per amore, per curiosità, per ingannare oltre al tempo la paura, così che il pensiero scacci la tensione. E ogni libro diventava un mondo dentro il quale stare per un po’, trafitti o consolati. Lui sposava quel mondo, tra rumori e bagliori, immobile, lo mangiava e lo digeriva, poi lo metteva nella memoria o lo ritirava fuori quando aveva fame di nuovo, quella stessa fame.
“Siamo fuori a cena stasera. Prepara scatoletta al gatto, così appena arrivo, mi cambio e usciamo”.
Il cellulare lampeggiava, l’indizio di un messaggio, Fabio vedeva veleggiare quella boa illuminata, parole che si componevano brevi sulla home del suo smartphone. Vedeva brillare il nome di Daniela, e poi scomparire, tutto quanto, risucchiato dalla memoria tecnologica che lo poteva guidare ai piani nobili della realtà.
Daniela lo avvisava, come una mamma premurosa, gli ricordava di avere una compagna, amici, impegni, lo richiamava all’amo della vita tra flutti di parole che lo inabissavano.
Ma Fabio non voleva lasciare la pagina, eppure quel bagliore si era intromesso, in quella splendida storia in cui non aveva assolutamente importanza come sarebbe andata a finire, perché era portentoso il semplice fatto che accadesse.
Prese il cellulare, lesse il messaggio. “Risponderò dopo” pensò, continuando a leggere.
Era veramente un abisso tortuoso e magico, assurdo e così vicino quello che Haruki Murakami tratteggiava con la stessa immediatezza di una tela di Pollock sdraiata e inondata di schizzi sul pavimento del suo atelier. E c’erano nella storia gli stessi fili di colore, gli stessi vortici, gli stessi spessori sparpagliati.
E quella ragazza, che improvvisamente si trovava ad entrare in un altro mondo capovolto da una scala su un cavalcavia invisibile dell’autostrada, e non poteva fare altro che scendere gradino dopo gradino, ricordando un brano musicale che le risuonava nelle orecchie, le martellava il cervello, fanfara di adrenalina che scorre a fiumi sotto il passaggio delle auto.
La Sinfonietta di Janáček.
Fabio non sopportava la musica, amava solo le parole. Per questo non aveva cd, soltanto libri.
Eppure la prima volta che aveva letto quel passaggio era come se una farfalla si fosse impossessata della sua testa. Nel volo cieco a random tra un’orbita e l’altra la farfalla inondava dei suoi colori come una falena prima di spegnersi affumicata sul neon del giardino.
Ma non cedeva, voleva le parole, immergersi in quel turbine di esistenze, con la curiosità morbosa di vivere loro accanto, raccontandoli. Un titolo strano, Sinfonietta, che lo incuriosiva sulla vita vera dell’autore. E allora a caccia di parole, a caccia di tracce, per ricostruire una fanfara.
Fabio vede il cellulare lampeggiare, immagina già il secondo messaggio di Daniela. “Dieci minuti e sono a casa, fatto tutto? Gatti? Vino? Pronti?”
Fabio prende il cellulare in mano, per cercare e leggere il messaggio di Daniela, per essere dalla parte giusta, nei tempi giusti, lo apre e vede che parla di cene e di gatti, di vino (perché mai?) e vorrebbe perdere un paio di secondi a cercare di mettere in ordine le cose ed eseguirle, come una sinfonia perfetta, ma ecco che dentro la sua testa non smette di battere la marcia iniziale della Sinfonietta. E pensa a quel suffisso “etta”. Vendetta, Manetta, Baionetta.
Fabio pensa a molte parole, sono i tamburi dentro la sua testa: Paletta, Boccetta, Gavetta, ogni parola diventa una emozione, scandita da una storia possibile, senza fretta, ecco anche Fretta, Aspetta, Circospetta, “etta”, “etti”, “etto”, Detto, Retto, Abbietto, Sonetto, Fioretto, Lucchetto…
Fabio aveva ceduto, scaricando la musica da YouTube, trasferendola nella sua chiavetta, collegandola al computer, e così ascoltava la Sinfonietta. E mentre ascoltava, cercava notizie da ogni parte, su quella musica, su Leóš, su quel 1926, sul prima e sul dopo, sui possibili perché.
Accende il pc e apre il file. Ascolta, con qualche brivido, e un pizzico di fastidio. La musica per lui è complicata. Un rumore. Ma quella marcia, quella fanfara, è così… tambureggiante e lirica, allo stesso tempo. Non ha idea di quali strumenti siano usati. Pianoforte? Tromba? Tamburi?
Gli viene voglia di cercare Sinfonietta su internet, compaiono molti siti, anche dal nome buffo: “wuz.it” gli racconta che la Sinfonietta di Janáček era già stata citata, prima del romanzo 1Q84 di Murakami, dal gruppo inglese Emerson, Lake & Palmer nel 1970. Proprio in musica. In un loro brano. Era novembre. Proprio come ora.
Come l’ora di Fabio che dimentica i gatti e i consigli di Daniela, dimentica la cena, gli amici, la doccia, dimentica il tempo, come fosse pure lui in quell’ingorgo giapponese su cui si aprono le centinaia di pagine dei due volumi di Murakami.
Ci sono tamburi, ci sono trombe, c’è un pianoforte, Fabio non conosce la musica, non ama la musica, ma ne è sicuro. Li avverte. In fondo le note sono come parole cifrate?
Ama le parole. È di quelli che alla radio appena i dj smettono di parlare per lanciare un brano musicale cambia canale. Cerca le parole, assonanze più semplici da incrociare in un viaggio al mattino dopo appena un semplice caffè, e con poca voglia di agitarsi… Ma quella Sinfonietta lo fa inciampare. Aveva persino scoperto che l’avrebbero suonata il 2 maggio dopo l’inaugurazione dell’Expo a Milano, l’avevano suonata i Berliner Philharmoniker. E lui l’aveva ascoltata.
Proprio la Sinfonietta, tra mille altre melodie perfette.
Perfetta o Imperfetta, con quel titolo stridente, un po’ stonato, come se uno avesse storpiato una lingua sconosciuta. Una parola senza fluidità, nemmeno viscosa, proprio spigolosa. Altro che vezzeggiativo. Appuntita.
Quel suffisso, deciso: ammetto, dispetto, rubinetto, berretto, folletto. È talmente prevaricante quel suffisso a dare vita a frasi senza nesso che si potrebbe scambiare Fumetto con Zolletta, e cambia poco. Cambia solo l’Effetto. Ecco Fabio avverte uno strano effetto, perché sente sopra la musica la porta che sbatte. Un tintinnio di chiavi e di tacchi insieme, un’altra porta che si apre, il miagolio dei gatti. I gatti, cristo, se ne era completamente dimenticato.
I gatti, le crocchette, gli amici, la cena, il vino, ecco il vino era da scegliere nella cantinetta per una bottiglia giusta da portare agli ospiti. Cantinetta. Sorride. Suda. Dovrebbe farsi la doccia. Gli manca la terra sotto i piedi, sa di essere in errore, di averla delusa ancora una volta, l’ennesima volta.
“Potrei dipingerci sopra una favola” pensa Fabio, assurdamente.
Vede un Biglietto che scivola sotto la fessura della sua porta chiusa. Si china, lo prende, lo apre. È la scrittura di Daniela.
“Chiudi quel libretto, e infilati la camicia blu”.