23 maggio 2013
Due mesi in fuoristrada, da Bologna al Senegal, attraversando Marocco, Mauritania e Sahara Occidentale, lungo le piste percorse da chi attraversa l’Africa per venire in Europa. Protagonisti: Pietro Floridia, regista e drammaturgo, e Gabriele Silva, scenografo e pilota factotum.
Floridia, cofondatore e codirettore artistico del Teatro dell’Argine di San Lazzaro di Sàvena, è l’autore del progetto teatrale “La Scena dell’Incontro”, che ogni anno porta sul palco decine di migranti e rifugiati politici.
Il libro da cui è tratto il racconto fa parte della collana “Il Girovago”, che quest’anno ha ricevuto il premio europeo “AMITIE” nell’ambito del Festival Human Rights Nights di Bologna.
Casablanca, 2 gennaio 2011
La strada verso la scuola
Sono a Casablanca. Città a cui arrivano da tutto il Marocco per cercare lavoro.
Molti ci stanno degli anni per raccogliere il denaro necessario a partire per l’Europa.
Parlo con un ragazzo che mi racconta la sua storia.
Mi racconta la sua infanzia.
Mi racconta il suo amore per una donna.
Mi racconta il suo viaggio per l’Italia.
Questo più o meno il suo racconto.
Mi dice: io avrei tanto voluto studiare.
Ora è passato del tempo. Ora sono un uomo ma continuo a pensarci:
se avessi studiato…
Perché studiare mi piaceva, perché
finché ci sono andato, io a scuola andavo bene.
Ma eravamo cinque fratelli.
E cinque fratelli sono troppi per andare tutti a scuola.
Se almeno ci fosse stato un padre…
ma una sera mio padre non è più tornato a casa.
Comunque anche quando c’era lui, non era per niente facile.
Io vengo da sud. Non da Casablanca.
Vengo dal deserto e quelle zone sono poverissime.
In più la scuola era a undici chilometri.
Mio padre non voleva che ci andassimo.
Anche perché di anno in anno, di figlio in figlio, il problema si aggravava.
Perché prima c’era solo una bambina, la mia sorella grande a cui comprare i libri, i quaderni e le matite, poi però anche la seconda ha compiuto sei anni.
Poi il primo maschio.
Poi io, il quarto figlio.
Di anno in anno, all’inizio della scuola, si vedeva quanti figli ci dovevano andare e per quanti c’erano i soldi.
Non ce ne era mai abbastanza.
Così mio padre – fin tanto che c’è stato – ci urlava a noi maschi: andate a lavorare, a che serve la scuola se siamo nel deserto?
Ma noi bambini volevamo studiare. E la soluzione la trovavamo sempre.
Papà, la zia quest’anno li cuce lei i grembiuli!
Papà, il padre di Marwan, il mio compagno di banco, ha promesso di comprarci matite e quaderni!
Papà, quest’estate ci hanno preso a lavorare!
Io e mio fratello d’estate badavamo le capre.
Le portavamo al pascolo, le tosavamo, gli facevamo fare i figli.
Per tre mesi facevamo i pastori. Così da avere qualche dirham per grembiule e libri nuovi.
Insomma in qualche modo riuscivamo ad andare avanti…
Finché un giorno mio padre se ne è andato di casa.
E allora è stato tutto più difficile.
Mia madre, da sola, come faceva a permettersi libri, quaderni e cartelle per cinque?
o meglio, per quattro, perché l’anno in cui mio padre non è più tornato, mio fratello piccolo a scuola ancora non ci andava.
Ma quell’anno abbiam rischiato di non andarci più nessuno.
Perché undici chilometri, senza padre diventano duecento.
Undici chilometri, nel deserto, a piedi, diventano distanza senza fine.
Allora la mamma ci ha detto scrivete allo zio francese
ma scrivete voi con la vostra calligrafia, scrivete voi bambini.
Così abbiamo scritto allo zio francese.
Uno zio che nessuno aveva mai conosciuto.
Uno zio emigrato anni prima a Parigi.
E più o meno abbiamo scritto:
Caro zio francese mandaci dei soldi
se non puoi mandarci soldi, mandaci almeno delle bici
se non ci mandi né soldi né bici, di sicuro lasceremo la scuola.
Caro zio francese
noi non vogliamo lasciare la scuola
perché a scuola noi siamo bravi
abbiamo buoni voti, ogni anno siam promossi
ma senza padre, senza soldi,
e soprattutto senza bici
noi a scuola… noi non ci andremo più.
Caro zio francese
con cinque bici noi studieremo in cinque
e se studieremo troveremo lavoro
ma se non studieremo non troveremo niente.
Caro zio francese ti ridaremo tutti i soldi
quando saremo grandi ed avremo studiato
te ne daremo anche di più, molti di più
ma mandaci le bici perché, senza,
gli undici chilometri di deserto
diventano grandi come tutto il Sahara.
Grazie zio francese
anche se non ti conosciamo
sei il nostro zio preferito.
A una settimana dall’inizio della scuola
ci venne recapitata una bici, una bici per cinque.
Quella bici divenne la nostra licenza elementare.
Era tutta una questione di turni.
Di turni e di equilibrio.
Non fare troppe assenze.
A turno uno dei fratelli restava a dormire da un amico che abitava nei pressi della scuola.
Un altro, quello di turno come portatore, di mattina presto caricava un fratello sulla canna e lo portava a scuola.
Poi ritornava indietro e si caricava l’ultimo, che arrivava una, due ore dopo, ma comunque arrivava.
Quello che guidava la bici faceva un’assenza, però poi recuperava la settimana dopo, quando era un altro ad avere il turno di portare avanti e indietro i fratelli sulla canna.
Bene o male per un paio d’anni siamo riusciti a cavarcela, ma poi è arrivato il giorno che anche il quinto fratello ha compiuto i sei anni.
Già in quattro era difficile, in cinque, con una bici sola, fu davvero impossibile.
Io allora facevo la quinta. Dovevo andare in sesta. Avevo undici anni.
Pensai, quelli grandi di strada ne hanno fatta già troppa per fermarsi proprio adesso.
Pensai, il piccolo è sordo da un orecchio.
Pensai, se lui non studia, lui non ce la farà, se lui non studia, per lui la vita sarà troppo difficile.
Tutto questo pensai.
Poi riunii i fratelli e dissi io rinuncio
io a scuola… io non ci vado più.
Fu così che decisi di non andare più a scuola e compiuti i dodici anni, di partire per la città per cercare lavoro
così da mandare un po’ di soldi a casa,
così da far studiare i miei quattro fratelli.
Ora il mio fratello piccolo
quello sordo da uno orecchio
ora si è laureato, ora è professore,
ora parla bene sia l’inglese che il francese.
Anche a me sarebbe piaciuto.
Anche io ero bravo a scuola.
Ma a lui…
A lui questo non lo dico.
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Casablanca, 2 gennaio 2011. Notte
Appunti in calce alla storia del ragazzo che correva verso la scuola
Abbiamo lasciato Said – così lo chiameremo –
a dodici anni che parte verso il mondo.
L’immaginazione mio malgrado prende il volo.
Così penso che il suo partire abbia a che fare
sì certo col bisogno di mandare soldi a casa
ma anche col fatto che suo padre era da qualche parte laggiù
in quello stesso mondo verso cui Said si mette in viaggio.
Penso che il mondo della casa sia spesso sotto il segno della madre
mentre invece il mondo grande, quello fuori, abbia sovente a che fare con il padre.
Il viaggio fuori di casa spesso non è altro che ricerca del padre.
Penso a Telemaco che parte come scalzato fuori casa dal dilatarsi di un’assenza.
Penso agli eroi che scendono nell’Ade per incontrare il proprio padre morto.
Superano la soglia, varcano la caverna più oscura, talvolta affrontano un mostro.
Penso a Said che mi dice con orgoglio: nonostante tutto quello che mi ha fatto, sono io adesso che mantengo mio padre.
Vent’anni dopo quella partenza, io ho salvato lui.
Penso a Pinocchio che esce dal ventre della balena portando Geppetto sulle spalle.
Penso a quando avevo io dodici anni.
Era l’ottantuno. Anni di terrorismo.
Mio padre era giudice istruttore nel processo per la strage di Bologna.
A me e a mia sorella, a scuola ci scortava la polizia.
Però accadeva che qualche mattina non venissero a prenderci.
Noi li aspettavamo fino all’ultimo oltre il cancello del giardino
(dietro la finestra di cucina la sagoma di nostra madre che ci guarda)
ma poi se non venivano, a scuola dovevamo andarci da soli
di corsa, di volata, se no arrivavamo tardi.
La scuola non era lontana, poco meno di un chilometro.
Però anche per noi questa piccola distanza poteva diventare senza fine.
Avevamo imparato, non so da dove, dalla tv forse
o forse da brandelli spiati di discorsi d’adulti
(poi surriscaldati nel buio tra fratelli prima d’addormentarci)
che ogni giovane uomo che si trovava nei paraggi della casa
poteva essere qualcuno intenzionato a fare del male al nostro papà.
Così se nei pochi minuti fatti di corsa per arrivare a scuola
vedevamo un uomo seduto in macchina fermo a bordo strada
subito pensavamo dove sarà papà.
Se poi erano due o tre dentro la stessa macchina
o se addirittura avevano baffi o barbe
o se addirittura la macchina era un’alfasud
allora eravamo certi che sarebbe successo qualcosa.
Dovevamo avvertire papà prima che uscisse di casa
oppure intercettarlo lungo il percorso che faceva con la scorta.
Però come? Non c’era certo il cellulare allora.
Allora si sbandava. Tornavamo indietro
oppure cercavamo una cabina telefonica
oppure partivamo alla ricerca… ricerca che però
– questo è il punto – spesso avveniva soltanto nella mente:
A che punto sarà adesso papà? E se fosse troppo tardi per salvarlo?
mentre le nostre gambe continuavano a correre quasi nostro malgrado, verso la scuola, verso il nostro dovere.
Continuiamo nel mondo a correre quella corsa non corsa verso casa.