10 gennaio 2012
Cari ascoltatori, sapete che ci piacciono le vite avventurose. Oggi vi parliamo di Padre Giannantonio Cavazzi, che nel Seicento fu missionario in Africa, dove fece conoscenza dei cannibali, cercò di convertire la mitica regina Zingha e vide anche il “pesce-donna”, una specie di sirena da manuale di “zoologia fantastica”, descritta e illustrata nella sua “Historica descrizione de’ tre regni Congo, Matamba e Angola”. Questo libro di Cavazzi, pubblicato a Bologna nel 1687, resta a tutt’oggi uno dei testi fondamentali dell’etnografia africana.
Giannantonio era un montanaro dell’Appennino modenese, nato a Montecuccolo nel 1621 da Cesare Cavazzi e da Guglielma, che probabilmente erano alle dipendenze della nota famiglia Montecuccoli. Il padre era soprannominato Marzadro perché faceva, forse, il merciaio. E’ certo, invece, che il Cavazzi fu inviato alla scuola dei novizi francescani su consiglio e aiuto dei Montecuccoli, e che il 5 luglio 1639, a Cesena, vestì l’abito francescano e prese i voti. E’ probabile che dai venti ai trenta anni abbia predicato nelle parrocchie della sua provincia e completato nei conventi gli studi letterari, filosofici e teologici.
Nel 1653, a trentadue anni, fu scelto dai superiori per far parte della quarta missione cappuccina in Congo diretta da Padre Antonio da Gaeta. Partito da Genova nel febbraio 1654, Cavazzi giunse a Luanda dieci mesi dopo, l’11 novembre. La sua destinazione era Masangano, sulla riva destra del fiume Kwanza. Qui iniziò la sua predicazione tra tribolazioni di ogni genere, dalle febbri malariche al cannibalismo. Nel suo libro racconta che una delle prime visioni che ebbe nella savana fu quella di una macelleria di carne umana, con braccia e cosce arrostite e acquistabili a buon prezzo.
Buona parte del libro è occupata dalla celebre regina Zingha, che governava l’indomita o – se si vuole – sanguinaria tribù dei Matamba, allora dominante in Angola. Figura affascinante di condottiera, oggi è celebrata dalle femministe africane come esempio di donna coraggiosa che sapeva il fatto suo, perché per tre decenni, dal 1631 alla sua morte nel 1663, seppe resistere ai conquistatori portoghesi. Ma Zingha era anche temuta per la sua crudeltà. “Mai satolla di suggere il sangue facendo strozzare pargoletti e uomini per empirne i nappi, il gozzo e le viscere”, scrive padre Cavazzi, la feroce regina dei cannibali possedeva un harem maschile in cui gli uomini, a volte, potevano finire mangiati. Organizzava festini in cui agli amanti in abiti femminili venivano serviti “topi arrostiti con tutto il pelo”, come nota schifato il frate cappuccino. Tuttavia, Cavazzi, mandato dai superiori bolognesi a evangelizzare il Matamba, non si sottrae al compito più difficile, che è quello di convertire l’esuberante regina. Zingha, nel merito, appare confusa, o ama confondere. Quando sembra aver abbracciato la fede cristiana, ecco che ricade nell’animismo e nel tribalismo. Poi torna a convertirsi, quindi sfugge di nuovo. Alla fine capitola e muore cristiana, a 81 anni, assistita dallo stesso Cavazzi che da lei era stato chiamato a sostituire Padre Antonio da Gaeta rimasto a reggere la prefettura di Angola.
Nel settembre 1667, colpito da febbri e ridotto a vivere “miserabile a sé e inutile a tutti”, Cavazzi si imbarca per l’Europa e, dopo un lungo e forzato soggiorno in Brasile, arriva a Genova il 3 aprile 1669. Sul principio del 1670 ha l’ordine di partire per una nuova missione a Luanda. Era intenzione del Pontefice inviarlo laggiù come vescovo ma Cavazzi non accetta non ritenendosi all’altezza. Quando il “mal d’Africa” torna a farsi sentire, il frate accetta di partire per la settima missione cappuccina nel 1672 come Prefetto di una compagnia composta da undici religiosi. La sua malferma salute lo obbliga, però, a lasciare Luanda dopo cinque anni e a tornare in Europa. La morte lo coglie a Genova il 18 luglio 1678.
Cavazzi scrisse il suo resoconto sulla missione dei cappuccini in Congo, Matamba e Angola a partire dal 1672, a Bologna, su incarico della Congragazione per la Dottrina della Fede, ma l’opera fu pubblicata solo nel 1687, dopo la sua morte. A Bologna lavorò sui manoscritti che aveva iniziato a compilare in Africa nel 1668.
Nel libro non parla solo del regno di Zingha, ma di tutti gli sforzi di evangelizzazione messi in atto, come cappellano dell’esercito portoghese, per strappare la bella e terribile Africa all’idolatria e alla superstizione. Racconta di come, per sottrarsi alla vista delle nudità delle cinquanta concubine di un re locale che facevano il bagno in un fiume, fece innalzare un muro. Illustra la vita di corte nel regno di Pungo Andongo. Ci informa sul viaggio nelle foreste congolesi. Racconta un mondo primitivo e brutale, che forse non è scomparso ancora del tutto nell’Africa martoriata dei bambini-soldato, delle guerre mercenarie, dell’Aids, delle bidonville e della miseria diffusa.