Cari amici, oggi vi parliamo dell’uomo che negli anni Sessanta ha fatto della chitarra elettrica italiana un’opera d’arte pop. Antonio “Wandrè” Pioli ha realizzato la prima chitarra elettrica di Celentano, l’unica usata da Guccini, quelle più care ai Nomadi; ma anche i Kiss, Buddy Miller e Frank Zappa hanno suonato e apprezzato i suoi strumenti innovativi e sperimentali, sia nel suono che nel design. Ora – a 10 anni dalla scomparsa – una mostra a Cavriago, il suo paese natale in provincia di Reggio Emilia, e un libro ricostruiscono una storia di creatività tutta italiana.
Diciamo subito che all’estero i cultori di strumenti musicali lo celebrano e darebbero qualsiasi cosa per una chitarra Wandrè: farebbero carte false per un modello Brigitte Bardot, Scarabeo, Rock Oval o Bikini, tanto per citarne alcuni. In Italia, negli anni ’60, Celentano, Guccini, Mina e i Nomadi sono tra i primi a usare e amare le chitarre di Antonio Vandrè Pioli, in arte“Wandrè” con la doppia w, ma dopo il successo commerciale di quegli anni su di lui è calato un velo.
Artista, imprenditore fuori dagli schemi, partigiano, capomastro, ma soprattutto uno dei liutai più innovativi del secolo scorso, che negli anni Cinquanta crea la prima fabbrica di chitarre elettriche in Italia: a dieci anni dalla scomparsa Cavriago ricorda il suo eclettico cittadino con la mostra “Wandrè. Vita, chitarra e opere” aperta fino al 4 maggio e il libro “Wandrè. L’artista della chitarra elettrica”, a cura di Marco Ballestri: due iniziative che ripercorrono una storia di creatività italiana poco conosciuta, ma che è leggenda per gli appassionati di strumenti vintage in tutto il mondo. Per l’occasione, poi, il celebre designer-liutaio Dieter Gölsdorf rende omaggio a Wandrè presentando, in anteprima mondiale, il nuovo modello di chitarra ispirato all’artista di Cavriago: la Wandrella Duesenberg.
Wandrè, nato nel 1926 e scomparso nel 2004, alla fine degli anni Cinquanta fece costruire la sua fabbrica rotonda all’ingresso del paese: in questo strano edificio circolare cominciò a realizzare chitarre elettriche, bassi e contrabbassi che ebbero subito un grandissimo successo perché decisamente originali. Creò strumenti dalle forme particolari, sghembe, nati dalla contaminazione fra arte e design: sculture musicali da usare. Perfino nei particolari, nei battipenna, nelle palette, nelle chiavette l’estro del maestro si scatenava inventando soluzioni estreme, senza nulla togliere alla funzionalità dell’oggetto. Per la prima volta, poi, Wandrè utilizzò l’alluminio per la costruzione dei manici e per altre parti meccaniche che diedero alle chitarre una particolare risonanza. E così il modello Rock Oval divenne la prima chitarra elettrica di Adriano Celentano e l’unica mai posseduta da Francesco Guccini che, nella prefazione del libro, la definisce “dalla forma assurda, con dettagli acromegalici che facevano immaginare un qualcosa di futuribile non ancora ben immaginato”. Care a Mina e usate dai Nomadi, le chitarre Wandrè ebbero grande successo anche all’estero: una foto degli anni ’60 ritrae Bob Dylan affascinato da una Rock Oval esposta in una vetrina di Londra; negli anni ’80 una Bikini, prima chitarra ad avere un amplificatore incorporato, accompagnò in tour Ace Frehley dei Kiss; nel 1986 Frank Zappa votò la Davoli Scarabeo come “chitarra dell’anno” a livello internazionale; il chitarrista country-rock Buddy Miller usa tuttora le Wandrè per i suoi concerti.
Nella sua prefazione del libro su Wandrè, Francesco Guccini, la cui unica chitarra elettrica è stata una Rock Oval, scrive: “Wandrè! Chi era costui? …mi raccontano che faceva chitarre, ma non chitarre come hanno da essere le chitarre, piuttosto oggetti dotati di anima propria, ribelli, addirittura pericolose. Ché se fai l’errore di prenderne una in mano rischi di perderti e non ritrovarti mai più. Io li ascolto, sorrido e non dico niente: perché so di cosa stanno parlando (…) una sua chitarra l’ho suonata eccome, fino a distruggermi le dita. (…) Non ho vergogna ad ammettere che mi faceva quasi paura, con quel suo colore rosso scuro e le paillettes che si accendevano sotto la luce dei riflettori da balera”.
Il libro racconta la vita di un artista la cui figura è rimasta per decenni avvolta nel mistero: la storia di Wandrè comincia con il padre liutaio, desideroso di realizzare il sogno di mettersi un paio di ali e volare il più in alto possibile. Wandrè ne ricalca le orme, ma solo per raggiungere una meta impossibile: quella di essere sempre coerente con le proprie idee a dispetto di tutto e di tutti. E lo fece: sulle montagne dell’Appennino reggiano, che lo videro partigiano a sedici anni; lo fece coniugando la filosofia con l’edilizia; lo fece con il futurismo pop, il simbolismo e il lirismo erotico delle sue chitarre; lo fece affrontando con il cuoio e la pelle gli anni settanta; lo fece con l’adesione al movimento Fluxus e con il suo recitare la vita, fino alla morte, in un infinito teatro di strada. Il ritratto che emerge è quello di un uomo libero che ha sempre sfidato, attraversandolo e anticipandolo, il proprio tempo; il tempo delle mode, dei luoghi comuni, delle regole forzate.
Purtroppo il suo estro geniale non fu in grado di adattarsi ai cambiamenti e alle esigenze del mercato: la sua avventura di pioniere della chitarra elettrica si interrompe nel 1968, quando Wandrè si reinventa designer di abiti in pelle, e in seguito, come dicevamo, artista e scultore aderente al movimento Fluxus. Proprio al “periodo artistico” è dedicata la seconda sezione della mostra, che espone le sue pirografie su cuoio degli anni ’70 e ’80, alcuni dei famosi quadri a specchio, sculture, assemblaggi, mail-art, nonché i suoi straordinari capi di abbigliamento.