Scrittore affermato e traduttore, Roberto Piumini è stato anche insegnante, attore e burattinaio. La sua nuova raccolta di racconti ha come protagonista la pittura e come personaggi uomini e donne che a essa hanno dedicato la loro vita, da Piero della Francesca a Tamara de Lempicka. Ve ne proponiamo uno, ringraziando per la lettura Amalia Cosi e l’associazione “Legg’io”.
I.
Un solerte Duca volle, temporibus, festeggiare la prossima visita dell’Imperatore: prossima nel senso d’allora, s’intende, quando prossimi erano i quinquenni, gli anni, non le ore e i minuti: la fretta e l’urgenza sono cose moderne, o se mai esistevano, a quei tempi, viaggiavano a passo d’uomo, o di cavallo.
Pur mancando nove mesi alla visita imperiale, il Duca si preparò, cercando consigli giù per la catena dei vassallaggi, consultandosi coi minori su come onorare il maggiore di tutti.
I Baroni convennero e gareggiarono nel consigliare, qualcuno esagerando per mettere a prova la prodigalità del Duca e compiacersi a vederlo, e con quali argomenti, tirarsi indietro: ma appena lui sentì l’odore della sfida, li superò in malizia, sostenendo che come in guerra era necessario l’aiuto di tutti al bene comune, anche in pace, per quel doveroso scopo, tutti avrebbero avuto l’onore di contribuire.
Tagliate le creste ai galli, Conti e Baroni, coinvolti e cointeressati, finirono di menare il cane a spasso, e presero a dar consigli di misurabile spesa e tornaconto: parate d’armigeri, giostre, feste, danze, cantate: tutte cose gradite ai potenti e alle loro corti.
Dopo molto discutere, nel tira e molla ai cordoni della borsa in cui tutti si esibirono, prese la parola il conte Ovaldo, che per esperienze e astuzie superava di una spanna il resto della compagnia.
«Mio Duca, hai ricevuto molti saggi consigli su come accogliere onorevolmente il nostro Imperatore, e tutti, almeno in parte, vanno raccolti, perché propongono, per così dire, il piatto qualunque di ogni principesca colazione. Ma se tu vuoi, come credo, che l’Imperatore distingua la tua accoglienza, fra quella degli altri Duchi, e la ricordi e rinarri, alla fine del suo viaggio, come qualcosa di pregiato ed eccellente, considera che, ovunque, lui avrà parate, pranzi, danze, musiche, che probabilmente ne sarà sazio, e accoglierà i nostri come chi, alla fine di un gran pranzo, con la pancia al trabocco, si vede portare un’altra grassa portata».
Qui il Conte tacque, facendo maturare nel silenzio la curiosità dell’assemblea.
«Le tue parole, come sempre, sono un dono» disse alla fine il Duca. «Ma, ascoltandole, mi s’accumulava ansia nel petto: se è vero quello che dici, cos’altro possiamo inventare, che non susciti la noia e disgusti la sazietà dell’Imperatore?».
Il Conte sorrise.
«Conosci tu, Duca, pozzo più fondo, cisterna più irriempibile, della vanità dei principi? Il più sazio dei giganti, quando anche gli escano dai lati della bocca zampe di porco e code di luccio, non accoglierà forse una nuova portata di adulazione?».
«Suggerisci un poema d’elogio?» si accigliò il Duca. «Io non conosco, qui da noi, il poeta adatto a un’opera di valore…».
«Un’altra specie di poema, intendo: più vistosa, più presto gradevole e più appariscente: un poema di figure, un affresco, un esteso ritratto dell’Imperatore e di noi stessi, in grandioso atto di devozione: e abbiamo l’uomo, il pittore eccellentissimo, e di sicuro poco costoso».
Dopo una pausa, in cui fece percorrere la proposta al suo consenso, disse il Duca:
«Sempre prezioso il tuo senno, Ovaldo! Come un segugio ben avviato, il mio pensiero corre avanti a immaginare, a progettare… Un affresco è cosa aperta, nuova, più controllabile di un poema, e più clamorosa. Se poi lasciate che io sia, amici, un po’ negoziale, a vantaggio di tutti, un affresco ha un’altra comodità: resterà in luogo, essendo dipinto sulla durezza e sul peso dei muri… L’Imperatore sarà sempre onorato, qui, e qui, sempre, leveremo i calici, rinnovando l’omaggio!».
Una risata complice accolse la marachella: l’avarizia del Duca onorava quella di ognuno.
II.
François, pittore sereno, viveva nel villaggio di Pesilant, a mezza giornata dal castello del Duca. Toccava e ritoccava senza fretta le sue tavole e le sue tele con la punta del pennello, copiava forme e colori di fiori, animali, contadini, colli e fiumi, trovandovi tutto il desiderabile degli occhi e dell’arte.
Giunsero al villaggio due cavalieri, e dietro, sellato, un terzo cavallo. Chiesero all’oste, che indicò la capanna sul primo pendio della collina. I cavalli scattarono, e preceduti dalla polvere alzata da un vento traditore, si fermarono scalpitando nel prato davanti alla casuccia, dove il pittore, nella luce dorata del pomeriggio, faceva il suo lavoro.
«Dio salvi la tua anima. Sei François, il pittore?».
«Come tu sei cavaliere, visto che sei a cavallo!».
I due risero quanto bastava per mostrare che apprezzavano i buoni motti, e che non erano lì a far violenza. Quello che aveva salutato, parlò ancora:
«Il Duca, nostro signore, conoscendo il valore della tua opera, ti invita al castello, per fare un affresco in onore dell’Imperatore».
François depose il pennello sul bordo superiore della tela, strinse una nell’altra le mani tinte di colori, e guardando in su, disse:
«Non è cosa possibile, cavaliere. Come vedete, sto facendo il ritratto alle cose del Creatore, e finito questo dipingerò il ruscello che vedete laggiù, e poi ne ho in mente uno in cui, se riuscirò, dipingerò la luna e le stelle… Non mi basterà il tempo della vita, per dipingere le bellezze di questa terra, e certo pittori più capaci di me sapranno fare le figure che il signore richiede».
Quello era negare un volere del Duca. La mano del secondo cavaliere s’avvicinò all’impugnatura del frustino, mentre i cavalli, sentendo l’inquietudine, scartavano fra la strada e l’erba.
Il cavaliere calmò il suo cavallo con una carezza, e il compare col gesto della mano.
«Forse non hai capito» disse con voce meno cortese. «Il Duca intende celebrare con un affresco la gloria dell’Imperatore, che verrà in visita al castello. Vuole fare un grande dono ai suoi occhi. Tu sei stato scelto, sei chiamato, e avrai il tuo compenso. Raccogli dunque quello che ti serve. Il tuo cavallo è pronto, come vedi».
François mise una mano alla fronte, perché, muovendosi, il cavallo dell’altro s’era messo fra lui e il sole.
«Cavaliere, io faccio affreschi per Nostro Signore» disse lentamente. «I miei lavori saranno messi nella chiesa del villa…».
Non finì.
Il cavaliere, impugnata la spada, fece fare un passo avanti al cavallo, si sporse, e con un colpo verticale tagliò a mezzo la tavola dipinta, squarciandone i colori. L’altro, sceso da cavallo, prese un legno infuocato dal piccolo braciere su cui il pittore scaldava le misture, e accostò la fiamma alle pareti della capanna, che cominciarono a bruciare, mandando sbuffi di fumo acido.
Il vento di maggio soffiava allegro, poco dopo, ma non bastava ad asciugare le lacrime di François che, in sella al cavallo, un cavaliere davanti e uno dietro, andava verso il castello.
Il Duca, ricevendolo, disse:
«So come sono andate le cose, buon pittore, e mi sono lamentato dello zelo dei miei uomini: non dubitare, assai più di quella capanna potrai far costruire, quando avrai compiuto l’opera grande che chiedo: anzi, potrai restare qui, dove ogni stanza ha spazi per la bellezza!».
«Quella era la mia casa, signore, e altra non ne volevo. Quello era il luogo, e quelli i colori. Ora sono una pecora senza ovile, e la tristezza mi impedisce ogni pittura».
«Il tempo risana le ferite, pittore. L’oro è un colore che ridà forza, e scaccia il malumore. Non sia troppo insistente, dunque, il tuo rifiuto, perché io sono il tuo Duca, comando e autorità tengo nella mano, come l’impugnatura della spada, o della frusta…».
III.
Giorni dopo, nel salone del castello, sotto la parete più esposta alla luce delle grandi finestre, ma non ai raggi diretti del sole, François dispose vasi e ciotole di oli, tinte, polveri, crete e pennelli. Poi raschiò e pulì con aceto l’estensione, e si disse pronto al lavoro, che non poté però iniziare per altri tre giorni, perché, seduti su degli scranni di fronte alla parete, il Duca e i Baroni discussero laboriosamente il soggetto, spesso alzandosi, e indicando nello spazio vuoto della parete, ipotesi di figure e movimenti.
Dopo numerosi pensamenti, ripensamenti, contraddittori, e qualche cortese litigio, questa fu la commissione del Duca.
«Io, nel dipinto, sarò accanto all’Imperatore, una spanna più in basso di lui, mentre tiro la corda di una campana d’oro che, in alto, gli fa onore».
«Io sarò di profilo, il destro che è il migliore» disse il conte Ovaldo, «e offrirò all’Imperatore un bianchissimo giglio».
«Io avrò le braccia aperte in segno di stupore e ammirazione» annunciò il conte di Guarchel, atteggiandosi davanti a François.
«Io sarò inginocchiato, a infilare lo stivale all’Imperatore» disse il marchese di Conguard.
«Io gli starò alle spalle, reggendo il suo vessillo!» disse il barone di Barsavac.
[fine della prima puntata]