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2 Agosto 2014 | Paesaggio dell'anima

La poesia della Bassa. Parte I.

Un viaggio in regione attraverso la musica

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura Alessia Del Bianco

Giardini di Mirò: The Swimming Season

Sono tutti al mare, in montagna, o chissà dove. Hanno svuotato le città e i paesi, così che noi, che non amiamo i riti di massa, ce ne possiamo tranquillamente andare per le strade vuote della Bassa, luogo quanto mai enigmatico perché racchiude il meglio, il peggio e quel “non so che” impossibile da collocare, di ciò che esiste nella pianura emiliana bagnata dal Po. Quei posti, fotografati con struggimento da Luigi Ghirri, raccontati da Cesare Zavattini, Gianni Celati e numerosi altri scrittori, che stanno nelle “terre basse” delle province di Reggio Emilia, Modena, Bologna, Ferrara: più o meno. Diciamo “più o meno” perché qui è tutto vago e impreciso: non ci sono fondali di montagne o quinte di colline a delimitare lo spazio; l’orizzonte è piatto, le uniche emergenze sono i campanili dei paesi che bucano la nebbia quand’è bassa o, come gli umani, grondano umidità nella calura estiva. Abbiamo iniziato, e continuiamo, la nostra rassegna musicale con I Giardini di Mirò, storico gruppo indie della scena italiana nato intorno al 1995 da due studenti durante i viaggi in treno da Reggio Emilia a Bologna, dove frequentavano l’Università.

Giardini di Mirò: Good Luck

Davanti ai due studenti pendolari sfilavano i paesaggi della Bassa, mentre sognavano di fondare una band. Il loro cuore batteva in inglese, ma le loro musiche, se oggi guardate anche voi fuori dal finestrino, stanno bene in mezzo a questi campi, le case, le insegne, le nuvole di un’estate che sembra quella d’Inghilterra. Un altro gruppo che è nato in questa terra, raccogliendo però inevitabili influenze etniche, vista la mutata composizione sociale della Bassa, è quello dei Babel: nome che è tutto un programma, poiché, fondato qualche anno fa tra Correggio e Modena dall’ex chitarrista dei Modena City Ramblers, mette insieme una cantante italo-indiana, un musicista greco, un violinista bosniaco e altri musicisti che hanno confezionato un ottimo disco intitolato Babelizm, dove spicca, anche solo per il geniale titolo, Pakistano Reggiano.

Babel: Pakistano Reggiano

Queste sono le musiche che si diffondono nelle campagne del Reggiano e del Modenese, dove gli indiani sikh sono diventati gli allevatori che sovrintendono alla produzione di latte e quindi di parmigiano-reggiano. Le mucche ringraziano i braccianti indiani che stanno piegati tutti i giorni, festività e ferie comprese, ad accudirle. Che cosa avrebbe detto di questa mutazione antropologica, se avesse fatto in tempo a vederla, il grande scrittore, sceneggiatore, giornalista Cesare Zavattini, luzzarese di nascita, dunque reggiano “testa quadra”? Una mutazione che sorprende nel passeggio del sabato in centro a Reggio Emilia, dove badanti dell’Est in libera uscita, indiani con turbanti, pakistani in Shalwar kameez, bambine africane con treccine, cinesi indaffarati, quasi eclissano i reggiani nativi. Zavattini li avrebbe osservati con ironia, girando in bicicletta dalle sue parti, nei paesi della Bassa e lungo gli argini del Po. E qualche pensiero su questa mutazione sarebbe finito nello straordinario libretto di poesie in dialetto reggiano che è Stricarm’in d’na parola, “Stringermi in una parola”, pubblicato nel 1973 quando scrivere in dialetto sembrava un fatto strano, lodato però già allora da Pier Paolo Pasolini, secondo il quale queste liriche erano il capolavoro di Zavattini.

Babel: Jamila

Leggiamo allora proprio la breve poesia intitolata La Basa, la Bassa, appunto: «O vést an funeral acsé puvrét / c’an ghera gnanc’al mort / dent’in dla casa. / La gent adré i sigava. / A sigava anca mé / senza savé al parché / in mes a la fümana». Traduciamo: «Ho visto un funerale così povero / che non c’era neanche il morto / nella cassa. / La gente dietro piangeva / piangevo anch’io / senza sapere il perché / in mezzo alla nebbia». Ecco, cari ascoltatori, se vogliamo un’immagine della Bassa, possiamo riprendere la vignetta che illustrava un libro di Zavattini, in cui si vede un uomo (lo scrittore stesso) che segue il proprio funerale: tema poi ripreso da Pasolini in Accattone. Accompagnare il proprio feretro nella nebbia, mescolandosi alla gente che piange. Questi sono i misteri di una terra dove «I par usei / la gent in bicicleta», «sembrano uccelli / la gente in bicicletta»: e anche noi, che voliamo pedalando, oggi, su una stradina nella campagna reggiana, sfiorando pioppi e ascoltando un altro cantore della Bassa, John Strada, nell’unico brano in dialetto del suo recente disco, Meticcio: un ritorno al paese, all’Emilia, dopo anni passati tra l’Inghilterra e gli States.

John Strada: Tiramola

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