Romanziere di fama internazionale, saggista raffinato, a lungo direttore della Gambalunghiana, l’antica biblioteca civica di Rimini, lo scrittore Piero Meldini si è misurato con successo anche nei racconti brevi: come questo, ancora inedito, concesso in anteprima a RadioEmiliaRomagna. Ascoltiamolo nella lettura dell’attore Pier Paolo Paolizzi.
A quanto pare, l’ultimo che l’aveva visto ero stato io. Ci eravamo incontrati al circolo, come tutte le domeniche sera. Né a Fabio né a me andava di giocare a carte, e così avevamo chiacchierato per un paio d’ore. Era stata una conversazione assolutamente banale, prova ne sia che non ne ricordo una sola parola. Nemmeno il tono mi fece sospettare alcunché. L’espressione di Fabio, conciliante e un po’ assonnata, era quella di sempre. Consueto era il suo saltare di palo in frasca. Anche le interruzioni, le pause improvvise, i brevi momenti di assenza, erano abituali.
Poco prima di mezzanotte guardò l’orologio, buttò giù l’ultimo dito di amaro e si alzò dalla poltrona. Disse, se non ricordo male, che l’indomani sarebbe dovuto andare a lavorare un po’ prima del solito. Lasciai il circolo insieme a lui e lo accompagnai per un tratto di strada. Separandoci, lo vidi prendere la via di casa.
Della sua scomparsa seppi due giorni dopo, quando Marta, sua moglie, si presentò nel mio ufficio. Celando la comprensibile tensione dietro una freddezza altera, mi raccontò che il lunedì mattina Fabio non si era presentato in azienda, né era rientrato in famiglia all’ora di pranzo e a quella di cena. Da allora se ne erano perse le tracce.
Mi informai se la notte della domenica, dopo che io e lui ci eravamo salutati, fosse tornato a casa. Marta si strinse nelle spalle. Lei e suo figlio erano andati a trovare i nonni e avevano dormito da loro. Sembrava di sì (il letto era sfatto e il bagno in disordine), ma non poteva giurarlo. Lo sapeva, Fabio, che avrebbero passato la notte fuori casa? Ma certo! – si irritò Marta. Congiunsi le mani, le accostai alle labbra e presi a fissarla. Era ancora bellissima. Il tempo non le aveva tolto nulla. Le aveva donato, semmai, una pelle leggermente più diafana e un’aria più aristocratica. Portava i suoi quarant’anni come un diadema. Fui intimamente certo, guardandola, che Fabio non poteva essersene andato alla chetichella. A braccetto, magari, di un’altra donna.
«Te ne devi occupare tu» disse Marta. «Personalmente».
«Hai già denunciato la sparizione?».
Marta scosse il capo: «Non voglio che la cosa finisca sui giornali. Sarebbe cattiva pubblicità per lui e per la sua azienda. Occupatene tu,» ripeté «ti prego».
«Penserò io a farmi assegnare l’indagine» le promisi. «Contaci pure. Ma senza una formale denuncia non posso procedere. Ora la stenderemo insieme». Mi interruppi, visibilmente scuro in faccia.
«Che cosa c’é?» chiese Marta.
«Dovrò farti delle domande…» sospirai. «Su tuo marito. Sui suoi affari. Su voi due. Potrebbe essere imbarazzante. Vuoi che incarichi qualcun altro? Un collega fidato, naturalmente…».
«No» mormorò Marta. «Non abbiamo niente da nascondere. Va’ pure avanti».
Per prima cosa le domandai se Fabio si fosse assentato altre volte.
«Ma no!» protestò. «Cosa ti salta in mente? Se tarda mezz’ora, figurati, si fa scrupolo di avvertirmi! Dovresti conoscerlo».
«Scusa» borbottai. «Ti renderai conto che questo lascia temere una disgrazia. A proposito,» chiesi «hai telefonato al pronto soccorso, agli ospedali, al…».
«All’obitorio, vuoi dire? Sì» rispose. «Niente, grazie a Dio».
«Grazie a Dio» le feci eco.
Con altrettanta decisione Marta escluse che gli affari di suo marito potessero andar male. La sua era un’azienda solida da tre generazioni, e ciò era quanto risultava anche a me. Debiti? Cambiali? Strozzini? Marta, scandalizzata, non volle nemmeno sentirne parlare. Che Fabio non giocasse, eravamo sicuri tutt’e due. Tolta la partitella a carte della domenica sera, beninteso. Ma al nostro tavolo non si era mai svenato nessuno.
Chiesi a Marta se suo marito si fosse fatto qualche nemico. La donna mi indirizzò uno sguardo stupefatto: «Nemici? Chi? Fabio? Andiamo!», e per poco non scoppiò a ridere.
Mi grattai la testa. Con tutte le cautele del caso, le domandai se le fosse mai balenato il sospetto che Fabio potesse avere, come dire?…
Marta si sporse verso di me. I suoi occhi, per un istante, lampeggiarono maliziosamente. Le labbra le si arcuarono impercettibilmente: «Una relazione? E lo chiedi a me? Non credi che su queste cose gli amici siano più informati delle mogli?». Accavallò le gambe, che la gonna, salendo, scoprì. Se il corpo ha un suo linguaggio, come dicono, quello era un «no» rotondo. Ma ti pare – declamava – che mio marito mi possa avere lasciata? Me? E per chi, di grazia?
Nemmeno io avevo mai sentito parlare di storie serie, o di semplici avventure, in cui Fabio fosse coinvolto. Da quando aveva conosciuto Marta, aveva abdicato, di colpo e per sempre, alla sua solida reputazione di dongiovanni. Un colpo di fulmine, il suo. Un matrimonio celebrato sei mesi dopo il primo incontro. Un figlio che adesso aveva dodici anni.
L’arrivo di Marta aveva troncato il mio sodalizio con Fabio e posto fine alla nostra giovinezza. Ma Marta era così bella, così regale il suo portamento, così amabili i suoi modi, che non avevo potuto, in coscienza, criticare la scelta del mio amico, ma solo invidiarlo. Sì, lo ammetto, l’ho invidiato. Qualche volta, all’inizio, uscivamo insieme. Le ragazze che mi accompagnavano (in media una nuova ogni due o tre mesi) sfiguravano però a tal punto, al confronto di Marta, che ero stato obbligato ad allontanarmi da lei e da Fabio. Ormai mi vedevo con lui solo la domenica sera, al circolo. Due chiacchiere, una partita a carte, e arrivederci alla settimana successiva.
Non sapevo più che cosa domandare. Mi informai, tanto per non trascurare alcun elemento, se Fabio avesse problemi di salute. Marta si strinse nelle spalle: «In primavera soffre di raffreddore da fieno». Era forse esaurito, depresso? «Ma no, cosa dici?». Si sentiva vecchio, aveva paura della morte? Guardandomi dritto negli occhi: «Parli di lui o di te, signor giudice?» chiese Marta di rimando.
* * *
Fabio non fu ritrovato. Svanì nel nulla, come quei colpi di vento che fanno volare via i cappelli. Le indagini, che il Procuratore fu ben felice di affidare a me, confermarono in tutto e per tutto quanto Marta mi aveva riferito. L’azienda di Fabio era talmente solida che nemmeno la sparizione del titolare riuscì a comprometterla. Tra le carte del mio amico e nei suoi computer non si trovò niente che facesse sospettare ammanchi, debiti, prestiti usurai, ricatti. Non si scoprirono operazioni sospette. Non si rinvennero nemmeno irregolarità contabili. Nei giorni precedenti la scomparsa non era stata ritirata dalla banca alcuna somma, né grande né piccola. Il segreto professionale mi vieta di rivelare l’entità del conto. Dirò solo che era cospicuo: tale da garantire a Fabio un agiato futuro. Ben più alto, in ogni caso, della sua modesta assicurazione sulla vita.
Il medico di famiglia confermò che Fabio godeva di ottima salute. Le sole prescrizioni che risultavano dalla cartella clinica erano gli antiallergici e gli anticongestionanti. I parenti, gli amici, i vicini assicurarono tutti, con vero calore, che Marta e Fabio erano una splendida coppia. Mai un litigio. Mai un’offesa. Anche Gianluca, il figlio, ripeté con parole sue le stesse cose. Sul conto di Fabio, e a maggior ragione su quello di Marta, non affiorò il più timido, velato pettegolezzo.
I genitori di Marta, infine, testimoniarono che la figlia e il nipote avevano passato la notte a casa loro. L’alibi (uso questo termine tecnico anche se mai ho creduto, o solo sospettato, che Marta avesse qualcosa a che vedere con la scomparsa del marito), l’alibi – dicevo – fu confermato da Gianluca e dai dirimpettai dei nonni.
Questa totale mancanza di indizi calò sulle indagini come una pietra tombale. Non si aprì il minimo spiraglio. Non si stracciò alcun velo. Dopo un anno, mi diedi per vinto e archiviai il caso. Misteriosamente, da un giorno all’altro, Fabio era svaporato come la rugiada sotto i raggi del sole. Il suo corpo non fu mai ritrovato, e neanche il suo inseparabile cellulare. Il caso ha voluto che l’ultimo a vederlo sia stato io, il suo migliore amico.
Per Marta furono giorni duri. Io, anche a motivo delle indagini, le fui molto vicino. Trascorso qualche mese, le fotografie di Fabio, disseminate su tutti i mobili, cominciarono a finire nei cassetti. L’ultima che sparì fu quella sul comodino. E poiché Marta non aveva una tomba su cui piangere, né lumini da accendere, né vasi a cui cambiare i fiori, riponendo le fotografie del marito ne deponeva anche il ricordo. Quando archiviai l’indagine, Marta avanzò istanza di morte presunta.
* * *
Sono un uomo felice. Non credo di fare torto alla memoria del mio migliore amico se dico che la sua scomparsa è stata la mia fortuna. Ho una moglie bellissima, Marta, che tutti mi invidiano, come ieri la invidiavano a lui. Un figlio, Gianluca (perché tale lo considero, sangue del mio sangue), sveglio e beneducato. Ho una bella casa e una florida azienda. Dimenticavo: ho lasciato la magistratura e dirigo – con successo, mi sia consentito dirlo – l’impresa di Fabio. Lo debbo a lui se sono un uomo felice. Dovunque sia, morto o vivo, abbia la mia eterna riconoscenza. Se il sacrificio di sé è la più alta prova di amicizia, uscendo di scena (benché involontariamente, suppongo), Fabio quella prova me l’ha data.
Sì, non mi stancherò di ripeterlo, sono un uomo felice. E lo sarei interamente, e fino in fondo, se non mi affliggesse un sogno ricorrente. Quasi ogni notte, intorno alle due, mi appare il corpo di un uomo che ha nitidi, sul collo, i segni dello strangolamento. E vedo un altro uomo che carica il corpo su una macchina e lo va a seppellire in un bosco. La faccia del primo uomo è senza dubbio quella di Fabio. Per quanto mi sforzi, il secondo non riesco a riconoscerlo. Fa troppo buio. La macchina – strano a dirsi, ma vatti a fidare dei sogni – è molto simile a quella che possedevo io a quel tempo. Di questo sogno ricorrente Marta non sa nulla. Evito di raccontarglielo per non risvegliare in lei ingrati ricordi. Dev’essere felice. Come lo è Gianluca. Come lo sono io. Tutti dobbiamo essere felici. Tutti.
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Musiche
Françoise Labis – “Le tourbillon de la vie” (piano solo)
Jeanne Moreau – “Le tourbillon de la vie”
Mike Oldfield – “Ommadawn – part 1”
15 Ottobre 2020
| Racconti d'autore
Dobbiamo essere felici
Racconto inedito di Piero Meldini
Vittorio Ferorelli e Rita Giannini