Viserba, anni Settanta del secolo scorso: i luoghi e i personaggi di un piccolo borgo della riviera riminese rivivono nelle pagine del memoir in cui la scrittrice Cetta Petrollo ha ricostruito i primi anni della sua unione con Elio Pagliarani: lei giovane bibliotecaria, lui poeta e critico teatrale, accomunati dalla passione per la musica implacabile dei versi. Abbiamo scelto alcuni brani, letti dall’attrice Nicoletta Fabbri.
Ma Tigrin della Sassetta
Se qualcuno mi chiedesse quali sono state le letture che mi hanno formata, dovrei rispondere che sono state letture con le orecchie e non con gli occhi.
Tutto quello che amo e che so l’ho imparato in una lunga educazione sentimentale durata trentotto anni, educazione in cui alcune poesie e certi ritmi si ripetevano costantemente, mutando a seconda degli umori e delle giornate.
Se qualcuno mi chiedesse se amo Carducci, devo rispondere che lo amo moltissimo in quanto Carducci veniva citato ogni volta che in casa si avvertiva un qualche mio malumore. Allora a farsi largo era Tigrin della Sassetta, facce ed anima cattiva che prendeva pei capelli un lucchese che fuggiva. E Carducci, in quegli anni, non era molto di moda, anzi.
Le trionfanti giornate di luglio erano serena estate stagione la meno crudele d’oscuramenti e di crisi, recitata da Elio fino agli ultimi anni.
Se la mattina mi presentavo con la testa arruffata, ecco arrivare un sei bello tu con quegli enormi calzoncioni blu.
Nei momenti difficili compariva Aiace Telamonio: Primo fra i tuoi, fra quanti eroi convennero sotto Ilio non secondo a nessuno, ma anche, spesso Ernesto Regazzoni, tenuto in bella vista sulla scrivania, e Luciano Folgore con i Poeti controluce.
Se mi si voleva far comprendere come si potesse scrivere poesia raffinatamente colta, ecco comparire Giovanna Bemporad con i suoi Esercizi, tutti declamati a memoria a partire dal preferito La ninfa e l’ermafrodito: “Chiusi i suoi grandi occhi insufficienti / dove essenze d’aurora e d’ideale / galleggiano, ha disteso il fianco ambrato / tra i pioppi ed olmi anelanti all’altezza / l’ermafrodito; ha disteso il suo corpo / sull’erba, vinto dal meriggio fulvo / che impone una consegna di silenzio / e una riserva d’ombra ad ogni fronda / sospesa al dolce incanto del suo sonno”.
Se mi si voleva presentare cosa poi mai fosse la poesia dell’impegno linguistico, il lavoro sulla lingua, ecco, da Boomerang, la lezione del grande Adriano Spatola.
E se dovevo comprendere cosa fosse la musica in poesia, ecco l’onda lunga di D’Annunzio.
Non ricordo risvegli senza versi mattutini e la poesia letta da me con le orecchie, attraverso la voce di Elio, diveniva esperienza fisica e carnale, una sottolineatura del mondo e delle cose, un sostegno potente al vivere.
Declamavano poesia gli amici di Elio? Non so, non credo. L’unico a recitare versi a memoria, spesso in dialetto romagnolo, era Carlo Ardini, vecchio amico di Elio, maestro elementare di Viserba e poeta dialettale.
Con Carlo era tutta una declamazione, un fitto ricordo delle loro abitudini, una passeggiata fra i cibi che Carlo, da romagnolo, cuoceva da solo: piade, cassoni, sardoni e soglioline.
Non si era ancora diffusa la moda dei ristoranti: con gli amici ci si vedeva e si mangiava in casa, gli uomini avendo l’incombenza esclusiva della cottura sul tésto dei cassoni, delle piade e dei sardoni impanati.
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Sarà una cosa seria?
Ho conosciuto la Pasquina nel 1975, portata da Elio a Viserba per una brevissima vacanza. Credo fossimo andati in auto, io alla guida del vecchio 1300 Fiat – macchina giudicata da Elio bellissima, una vera ammiraglia – con un avvertimento prima del viaggio: “Guarda che a casa mia succederanno due cose, i miei si metteranno a piangere, piangono sempre quando mi vedono, e ci metteranno a dormire in due stanze separate”. Poi, a seguire: “Ti piacciono i cappelletti?”, e io: “No, non mi piacciono”, ero abituata ai cappelletti industriali, e lui “Ma come! Ma cosa dici!”.
I caplèt furono un sogno materializzatosi nella fondina. Niente di simile a quello che avevo mangiato fino ad allora: erano grandi, morbidi, sapevano di noce moscata e limone, la pasta era un po’ ruvida al palato, erano generosi e accoglienti, nuotavano in una zuppierona, l’odore del brodo riempiva la casa.
Se avessi avuto bisogno di una conferma ora sapevo, senza ombra di dubbio, di essere concretamente e profondamente amata, me lo dicevano i caplèt della Pasquina, lì dove Elio mi aveva portata: “E guarda che qui ci è venuta solo un’altra ragazza”.
A fine pasto io e la Pasquina restiamo sole a tavola, una davanti all’altra, dietro la credenza bruttina della quale lei si vantava perché l’aveva comperata con i suoi risparmi (credenza che, anni dopo, mi sono portata in casa, salvandola dalla discarica). Pasquina mi osserva a braccia conserte. “Tu mi piaci”, dice, “ma sarà una cosa seria?”.
Le dico che sì, che per me è una cosa serissima. Lei, sempre osservandomi, va avanti e mi dice: “Ci dovresti tenere di più ai vestiti”.
Ecco, l’ho amata da quel momento, per la schiettezza con cui mi parlò, senza ipocrisie e senza giri di parole – mi aveva conosciuto solo un’ora prima! – e credo di aver toccato con mano cosa significasse appartenere a una cultura diversa, ho anche un grande pudore nel definirla e dunque non lo faccio, ma avete capito, vero?
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Sonetti
Nell’appartamento di Viserba sono appesi due piccoli manifesti, uno di giovedì 22 giugno 1978 è intitolato “Laboratorio di poesia diretto da Elio Pagliarani, lettura a conclusione dei lavori dell’anno”, l’altro di lunedì 9 marzo 1981 con la scritta “Laboratorio di Poesia, in collaborazione con la Tigre in corridoio, due sezioni – poesia urbana, a cura di Antonio De Rose, poesia d’amore, a cura di Roberto Milana”.
Nel primo c’è un elenco di giovani che avevano, più o meno, la mia età. Molti di loro sono diventati poeti “professionisti”, Sauro Albisani, Gualberto Alvino, Claudio Damiani, Marina Pizzi, Franca Rovigatti, Alberto Toni, altri no, ma proprio questo rende significativo il Laboratorio: un insieme di persone che si riunisce perché ama scrivere versi, e sui versi si confronta. Il Laboratorio non era una “scuola”, Elio non spiegava cos’è e come si costruisce una poesia, l’insegnamento – se c’era un insegnamento – era tutta la sua persona, erano l’irruenza e la passione con cui leggeva poesia. Parlava senza pregiudizi di concetti complessi rendendoli semplici, ma mai banali. Tutti noi avvertivamo la sua serenità di fondo e ne eravamo partecipi come fossimo davanti a un mare e in quel mare fosse, per tutti, semplice nuotare.
A quella scuola di nuoto andavamo facendo esercizi. Dovevamo scrivere sonetti, epigrammi, haiku, ballate. Sonetti e haiku mi piacevano. Avevo scoperto, grazie al Laboratorio, che la gabbia metrica e la costrizione della rima e delle sillabe servivano a contenere l’effusione sentimentale, a rendere meno dilagante l’io, a solidificare la scrittura rendendola lontana dallo sfogo umorale e privato.
Un paio di anni prima, a Procida, avevamo iniziato una sorta di duetto, una sfida in versi. Elio aveva trovato il soggetto, Mozzilla, e su questo tema avevamo iniziato a scrivere una poesia ognuno, ricordo che lo scherzo di Elio era molto bello e che il mio gli era abbastanza piaciuto. A me era servito per comprendere quanto fosse importante l’aspetto artigianale dello scrivere, che era poi quello che lui voleva farmi sperimentare.
Al momento di leggere i versi eravamo spaventati, perché Elio era presente. Era capace di giudizi netti e non ipocriti senza umiliare le persone – da chi riteneva più capace pretendeva di più – e senza esibire letture e conoscenze, quelle che aveva, ed erano tante!, entravano nel discorso in modo naturale, l’insegnamento più importante, il vero seminario, essendo comunque quello della sua lettura, della sua orchestrazione vocale.
Parlare in pubblico era un problema, figurarsi leggere poesia! A via Margutta facevamo le prove, io con la mia vocina, ed Elio che mi rileggeva i sonetti e poi mi riascoltava segnando il tempo con la mano. La sera di quella mia prima lettura pubblica ero agitata. Cosa ne avrebbe pensato? Ma lui mi disse che avevo letto bene e che i miei sonetti erano belli e li dovevo assolutamente pubblicare.
Mi sentivo così diversa dagli altri! Da Danilo Plateo che buttava i fogli per aria e leggeva tutto con leggerezza e ironia, da Chiara Scalesse con la sua carica passionale e la sua innata sensualità, da Antonio De Rose che sembrava sempre uno capitato lì per caso, dal rigore intellettuale di Roberto Milana, dal fascino esotico di Rosario Romero. Mi sembrava di essere lontana dal loro impegno ma dentro ne avevo uno tutto mio e l’urgenza di dirlo. Elio, quando finii la raccolta – erano oramai passati sei anni – chiamò Adriano Spatola e gliela inviò per un’eventuale pubblicazione su Tam Tam, se gli fosse piaciuta. Ad Adriano i miei sonetti piacquero e si iniziò a lavorare alla pubblicazione.
“Ci vuole una prefazione”, disse Elio, “l’unica è Amelia. Chiamala. Portale la raccolta”.
Ero molto timida, di quella timidezza determinata che non si tira mai indietro e così andai in via del Corallo da Amelia Rosselli. Mi colpì subito la voce, così poco femminile, e l’interesse che mostrava per la mia persona, non solo per la mia scrittura. “Quante ore lavori al giorno? E quando scrivi? Quanto tempo dedichi alla casa?”. Amelia voleva sapere come fosse possibile che una come me, con una figlia, un lavoro di diverse ore al giorno, un marito e una casa da seguire, potesse anche riuscire a scrivere versi. Come diavolo faceva questa qua?
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La coppia aperta
I nostri amici erano tutti sposati. Non conoscevamo e non frequentavamo coppie libere, la moda, allora, era quella di sposarsi. C’era qualcuno che aveva insieme alla moglie anche l’amante ufficiale, ma nessuno sembrava soffrirne.
Indifferentemente andavano con la moglie o con l’amante: in casa, per lo più, frequentavamo la moglie – ma andavamo anche in casa dell’amante – le gite più spesso le facevamo con l’amante. Questi uomini amavano entrambe, moglie e amante sapevano l’una dell’altra e si accettavano. A metà degli anni Settanta si teorizzava la coppia aperta, nella coppia, cioè, ci si raccontava tutto e si era liberi di avere altre relazioni. Quasi sempre la cosa funzionava in una sola direzione: era lei quella che poteva sperimentare, se a sperimentare era lui ci si separava.
Alcuni, per vivere meglio, avevano abitazioni con doppi ambienti: per esempio doppie camere da letto e doppi studi, altri riuscivano, in difficile e disinvolto equilibrio, a conservare piena libertà di comportamento. Le mogli degli amici di Elio sembravano felici, le coppie che frequentavamo erano solide, le compagne sostegno a questi uomini, intellettuali e professionisti.
Elio narrava aneddoti che sembravano leggenda e non lo erano: amici partiti con la “straniera”, avevano vissuto con lei per qualche tempo, erano stati ritrovati dalla moglie ed erano tornati a casa, uomini che avevano girato le città come arrotini per andarsi a riprendere la propria sposa, scappata di casa con un altro, donne che avevano ricominciato a vivere col marito traditore senza portarne rancore. E d’altra parte, all’inizio della nostra relazione cosa mi aveva detto? “Guarda che in Romagna il delitto d’onore non esiste”.
Il negozio di dischi
A Viserba la nostra meta pomeridiana era il negozio di dischi di Dino Belletti, compagno delle elementari di Elio e suo grande amico, un piccolo locale stretto e lungo, sul lungomare, vicino a un albergo ora trasformato in residence. Dino stava sempre fuori, sulla porta, a braccia conserte. Se nelle chiacchierate con Luciano Elio si appassionava e in quelle con Carlo parlava in dialetto, gli incontri con Dino erano un ampio ricamo di silenzi, quanto e più importanti delle parole. Poche le parole; fra i due c’era un’intesa della quale anch’io entravo a far parte. Si tenevano compagnia così per un paio d’ore – di clienti nel negozio ne entravano pochi –, Elio aveva con sé il Corriere, insieme commentavano qualche notizia. Dino era alto e molto elegante, lo sguardo profondo e delicato che ha ereditato una delle sue figlie, Eleonora, prendendo dal padre anche la riservatezza e la sensibile discrezione.
Dino invece aiutava nel bar della pensione Esterina, a due passi da casa nostra, in via La Marmora, gestita dalla moglie Luisa.1 La pensione, a conduzione famigliare, era nata negli anni Trenta, quasi una versione estiva della casa, i clienti, sempre gli stessi, erano considerati parenti più che ospiti.
Cucinava solo la Luisa, che sovrintendeva a tutto, con pochi aiuti esterni, dalla pulizia delle camere alla spesa al bucato, le figlie servivano a tavola. I piatti erano quelli della tradizione romagnola, pasta all’uovo, cappelletti, lasagne, tutti creati dalle sue mani con mattarello e tagliere.
A Viserba c’erano anche altri cari amici, Carlo Ardini, Lina Pari, Mario Pari e, soprattutto, Quinto Sirotti.
Quinto era un gigante, per me era l’ultimo dei medici condotti, ispirata dai suoi racconti avrei voluto organizzare alla Biblioteca Nazionale di Roma, dove lavoravo, una mostra sui medici che giravano di paese in paese, forse gliene avevo parlato, sicuramente ne avevo parlato a Elio, avevo iniziato a raccogliere, entusiasmandomi, libri, articoli e immagini.
La sua vita era stata avventurosa, partigiano, amante del cibo e delle donne, medico negli orfanotrofi, aveva preso in affidamento e poi adottato, non senza difficoltà, uno di quegli orfani privo di un occhio, operandolo e curandolo e facendolo vivere in famiglia, assieme agli altri suoi figli.
Quinto curava tutto; nell’ambulatorio, con un po’ di anestesia, eseguiva piccoli interventi chirurgici che gli altri dottori non avrebbero mai eseguito: una formazione nel collo, da togliere in ospedale a Roma (“ma va là”, fu il suo commento) fu eliminata, un’estate, nel suo ambulatorio.
Di pomeriggio andava a trovare i pazienti anziani, specie se quelli non lo avevano chiamato, e curava tutta la famiglia. In lui c’era la stessa passionalità e curiosità del mondo degli altri amici di Elio, non certo dei miei che avevano, se ce l’avevano, un’arida passionalità tutta nata dai libri e non dalla vita.
Cos’è che rendeva così aperti, sensibili e, insieme, forti, questi uomini? Credo fosse la loro identità a sostenerli, identità che si era formata su quella dei loro padri e delle loro madri –che l’avevano nettissima – nessuno sembrava nutrire dubbi sulla sua collocazione nella vita. La vicinanza che avevano avuto, e tutt’ora avevano, con la morte rafforzava, in modo non sterile e tutto corporeo, la passione per la vita; erano saggi in modo inconsapevole, la loro saggezza si irradiava e affascinava chi come me aveva, fino ad allora, sperimentato solo la sterilità dei coetanei, i nati negli anni Cinquanta, che parlavano di rivoluzione e istruivano gli alunni sulle bombe fai-da-te.
Molte le gite con Quinto; ospiti a casa sua assistevamo alla preparazione del brodo con il misto di carni, alla pesca e alla cottura dei ricci, andavano nei ristoranti e nelle osterie che Quinto conosceva bene, a Rimini, a Cesenatico, a Livorno, a Comacchio: stare insieme a tavola era per tutti noi una gioia, identica a quella che provavamo nel visitare i luoghi e nel parlare di tutto, e per me il piacere più grande era ascoltarli formando la mia identità su quelle storie.
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Nota
[1] Luisa Cevoli, che ancora d’estate abita con la famiglia nella ex pensione Esterina in via La Marmora.
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Nella sede di Viserba è tuttora conservata una parte del patrimonio librario della Biblioteca “Elio Pagliarani”, che nella sede di Roma raccoglie circa 14.000 edizioni ed è specializzata nella letteratura italiana moderna e contemporanea, con particolare riguardo alla poesia e alla saggistica dagli anni Cinquanta al 2012. Un accordo di collaborazione la lega alla Biblioteca civica Gambalunga di Rimini, che fa parte del comitato promotore del premio nazionale organizzato dall’Associazione letteraria “Elio Pagliarani” per promuovere e valorizzare, nello spirito sperimentale del poeta, la scrittura e la ricerca poetica.
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Musiche
Paul Simon – “Me and Julio Down by the Schoolyard”
Ornella Vanoni, Toquinho, Vinicius De Moraes – “La voglia, la pazzia”
Sufjan Stevens – “Should Have Known Better”
Matia Bazar – “Solo tu”
Lucio Dalla – “Com’è profondo il mare”
29 Ottobre 2020
| Racconti d'autore
Mai un risveglio senza poesia
Testo tratto dal libro di Cetta Petrollo “Margutta 70” (Genova, Editrice Zona, 2019)
Vittorio Ferorelli e Rita Giannini