Nel 1861, a 26 anni, lo scrittore e umorista Mark Twain, oggi considerato tra i padri della narrativa americana, partiva dal Missouri per un lungo viaggio nel Far West, che lo avrebbe portato fino in Nevada e poi in California. Dal libro che racconta i suoi incontri abbiamo scelto alcune pagine.
Un bel giorno, da uno degli insediamenti minerari ormai semiabbandonati di Tuolumne (California), giunse a San Francisco un mio vecchio amico cercatore, e quando poi vi fece ritorno io andai con lui. Vivevamo in una piccola capanna su una collina verdeggiante, e tutt’intorno, sparse in quell’ampia distesa di colline e di foreste, non si scorgevano nemmeno cinque altre capanne. Eppure ai tempi d’oro di dodici o quindici anni prima, in quel luogo ormai così solitario sorgeva una fiorente cittadina di 2-3.000 abitanti, nel cui centro, un tempo brulicante di vita, adesso stava, vedi caso, la nostra capanna. Quando poi le miniere si esaurirono, la città cadde in rovina, e in pochi anni scomparve completamente ‒ strade, abitazioni, botteghe, insomma tutto ‒ senza lasciare alcuna traccia. I pendii erbosi della collina erano verdi, intatti e solitari, come se fossero stati sempre così. Quei pochi cercatori rimasti avevano visto la cittadina sorgere, allargarsi e prosperare orgogliosamente, e poi l’avevano vista decadere e infine morire, per poi dissolversi come un sogno. E con essa anche le loro speranze erano morte, la loro gioia e il gusto di vivere. Ormai s’erano rassegnati a quel lungo esilio e avevano smesso di scrivere ai propri amici lontani né pensavano più con nostalgia e rimpianto alle loro case d’un tempo. Avevano accettato quell’esilio, dimenticando il mondo dal quale erano stati a loro volta dimenticati. Lontanissimi dal telegrafo e dalle ferrovie, stavano già, per così dire, in una tomba vivente, completamente ignari degli eventi che vivevano le grandi popolazioni della terra, sordi ai comuni interessi degli uomini, isolati e ormai poveri naufraghi del consorzio umano. Impossibile immaginare un esilio più singolare e anche più toccante e melanconico. Un individuo che conobbi lassù e che frequentai per due o tre mesi, da ragazzo aveva persino frequentato l’università, ma ormai erano già diciotto anni che viveva confinato in quei luoghi riducendosi, poco a poco, a non essere altro che un povero cercatore, la barba incolta, vestito praticamente di stracci ed eternamente sporco di terra e d’argilla. A volte, senza rendersene conto, tra un sospiro e l’altro o quando parlava da solo, tirava fuori qualche frase in latino o greco che ancora vagamente gli frullavano per la testa ‒ lingue morte e seppellite, le più adatte per i pensieri di chi sogna continuamente il passato, di chi ha fallito nella vita. Era un uomo esausto, oppresso dal presente e indifferente al futuro; un uomo senza più legami, né speranze e interessi, un uomo che aspettava solo il riposo e la fine.
In quello sperduto angolo della California, viene usato un sistema minerario di cui la stampa parla raramente. Si tratta del sistema di “miniera a sacche”, così viene chiamato, e per quanto mi risulta viene impiegato solo in quella zona ristretta. Dunque, l’oro non è distribuito in modo uniforme sullo strato superficiale del suolo, come avviene nei normali giacimenti alluvionali, ma si raccoglie in piccoli punti, o sacche, molto distanti tra loro e piuttosto difficili da scoprire. Una volta individuate, però, il guadagno è assicurato rapidamente. In tutta quella zona così circoscritta non ci sono attualmente più di venti cercatori, e credo di conoscerli tutti di persona. Ne conobbi uno che pazientemente batté palmo palmo le colline, ogni santo giorno per otto mesi, senza trovare tanto oro per farne una tabacchiera, e nel frattempo il conto all’emporio s’allungava inesorabilmente. Poi un bel giorno trovò finalmente una sacca e con due colpi di pala estrasse oro per il valore di 2.000 dollari. So che una volta in un paio d’ore ne estrasse per 3.000 dollari, per cui corse subito a saldare tutti i debiti, per poi abbandonarsi alla pazza gioia e… prima di sera non aveva più un centesimo in tasca. Il giorno dopo ricominciò, come al solito, con i debiti presso l’emporio, si mise in spalla pala e padella, e felice e contento tornò sulle colline per cercare nuove sacche. Tra tutti i differenti sistemi di ricerca dell’oro, questo è senz’altro il più affascinante, e fornisce ai manicomi una consistente percentuale di disgraziati.
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A Tuolumne, uno dei miei compagni ‒ un’altra vittima, anche lui, di diciott’anni di inutili fatiche e di speranze deluse ‒ era una delle anime più delicate e sensibili che, con rassegnata pazienza, avesse mai portato la sua croce in un esilio così disgraziato: Dick Baker, il serio e semplice cercatore di sacche di Dead-House Gulch. Aveva quarantasei anni, ed era grigio come un topo, un tipo severo, pensieroso, con una certa istruzione, vestito alla bell’e meglio, eternamente sporco d’argilla; ma aveva un cuore d’oro, ma di un oro così puro come la sua pala non ne avrebbe mai potuto portare alla luce ‒ anzi, per dir meglio, più puro di qualsiasi oro che sia mai stato estratto o coniato al mondo.
Ogni volta che le sue ricerche erano particolarmente sfortunate e si sentiva giù di corda, veniva preso da una nostalgia struggente di un gatto che una volta aveva posseduto (il fatto è che dove non ci sono né donne né bambini, gli uomini d’indole buona riversano il proprio affetto sugli animali domestici, perché devono pur avere qualcosa da amare). E così parlava sempre della straordinaria intelligenza di quel gatto con l’aria di chi, sotto sotto, è segretamente convinto che la sua bestiola abbia qualcosa di umano ‒ forse addirittura di soprannaturale.
Una volta, parlando di quel suo gatto, raccontò…
“Amici, un tempo avevo qui un gatto che si chiamava Tom Quartz, e anche voi l’avreste trovato interessante, mi sa… quasi tutti lo dicevano. È stato con me per otto anni ‒ ed era il gatto più straordinario che abbia mai visto. Era un bel micione grigio, il Tom migliore che ci sia mai stato, e aveva più intelligenza lui che qualsiasi altro, qui nel campo… e che importanza si dava… non avrebbe dato confidenza neanche al governatore della California. Mai preso un topo in vita sua… sembrava essere superiore a queste cose. Capite, non gli interessava altro che andare per oro. E quel gatto ne sapeva più lui, in fatto di scavi, di chiunque altro abbia mai conosciuto. Mica gli si poteva dire nulla sui posti migliori dove scavare, guai… e quanto alle sacche, perdio, sembrava nato per quello. Quando io e Jim andavamo su per le colline per prospezioni lui veniva con noi per scavare, ed era capace di trottarci appresso pure per 5 miglia filate. Aveva un fiuto formidabile quanto ai punti dove cercare… mai visto niente del genere. Quando attaccavamo a lavorare, lui si dava un’occhiata in giro, e se le indicazioni non lo convincevano ci guardava come per dire: ‘Beh, questa volta penso proprio che dovete scusarmi’, e a quel punto, senza aggiungere un’altra parola, alzava il naso in aria e se la filava a casa. Ma se il punto gli andava a genio, allora si sdraiava a schiacciare un pisolino e se ne stava zitto finché non era stata lavata la prima padella, e poi s’avvicinava per dare un’occhiata, e se c’erano sei o sette grani si riteneva soddisfatto ‒ quello era il minimo per lui ‒ e si metteva a dormire sulle nostre giacche, e faceva le fusa a tutto vapore finché non avevamo beccato la sacca, e a quel punto si tirava su e sorvegliava i lavori. Ah, era proprio tagliato per quel compito.
“Dunque, passa il tempo e tutt’a un tratto ci fu quell’eccitazione per il quarzo. Tutti dettero di matto e si misero a spicconare e a far brillare mine invece di spalare la terra sul fianco della collina… Insomma, tutti a scavare pozzi invece di grattare il suolo. E pure Jim non volle sentir storie, e quindi anche noi ci guardammo un po’ attorno e attaccammo a scavare il nostro bravo pozzo, e a quel punto Tom Quartz iniziò a chiedersi cosa diavolo mai fosse tutto quel casino. Fino ad allora lui non aveva mai visto nessuno cercare oro in quella maniera, ed era confuso, mi seguite? Non ci capiva proprio niente, non se ne faceva una ragione… Insomma, era troppo per lui. E inoltre quella cosa non lo convinceva mica, ci potete scommettere… anzi, non lo convinceva proprio per niente… E sembrava sempre considerare quella faccenda come l’idiozia più maledettamente insensata che ci fosse al mondo. D’altra parte, capite, quel gatto era sempre contrario alle novità e non gli riusciva mica d’adattarcisi. Sapete anche voi come sono le vecchie abitudini. Ma poi, dài e dài, Tom Quartz iniziò ad accettare quel sistema, anche se non gli riusciva di capire quell’eterno scava scava di un pozzo senza mai lavare nulla nella padella. Insomma, quella faccenda non lo convinceva. Alla fine prese a scendere anche lui nel pozzo, giusto per farsi un’idea. E quando aveva la luna di traverso e si sentiva abbacchiato, ed era preoccupato e innervosito, perché sapeva benissimo che i conti da pagare continuavano ad allungarsi senza che riuscissimo a fare nemmeno un centesimo, beh, allora si acciambellava in un angolo, su un sacco di iuta, e si metteva a dormire. Dunque, un giorno, quando ormai un pozzo era profondo circa un 8 piedi, trovammo una roccia così dura che dovemmo usare l’esplosivo… la prima volta che facevamo una cosa del genere da quando Tom Quartz era nato. Bene. Accendiamo la miccia, saltiamo fuori dalla buca e di corsa ci allontaniamo di un centinaio di passi e… il fatto è che ci dimentichiamo di Tom che dorme profondamente sul sacco di iuta. Dopo più o meno un minuto ecco che vediamo uno sbuffo di fumo che sale su dal buco, e poi salta tutto in aria con un botto tremendo, e circa quattro milioni di tonnellate di roccia, terra, fumo e schegge vengono sparate in aria a circa un miglio e mezzo d’altezza, e, perdio, proprio in mezzo a quel putiferio c’è il vecchio Tom Quartz che carambola su se stesso, e soffia, starnutisce, e dà unghiate e cerca in tutti i modi d’afferrarsi a qualcosa. Inutile, capite, tutto inutile. E per un paio di minuti non l’abbiamo mica più visto, e poi tutt’a un tratto s’è messo a piovere sassi e terra, ed ecco che viene giù anche lui a una decina di passi da noi. Beh, mi sa che era la bestia più ridotta male che si sia mai vista. Un orecchio penzoloni come uno straccio sul collo, la coda smozzicata, le ciglia lasciamole perdere, annerito per la polvere e il fumo, e coperto di fango da un’estremità all’altra. Beh, amici, era del tutto inutile anche solo provare a chiedergli scusa… Non dicemmo nemmeno una parola. S’è guardato con un’aria disgustata, e poi ha guardato noi, proprio con l’aria precisa di chi dice: ‘Dico a voi, gente… magari voi pensate che è una gran furbata approfittarvi di un gatto che non ha alcuna esperienza di miniere di quarzo, vero? Ma io la penso diversamente’, e poi ha girato i tacchi e se n’è tornato a casa senza aggiungere altro.
“Quello era il suo stile. E forse voi non mi crederete, ma dopo di lui non mi è più capitato di vedere un gatto così prevenuto contro le miniere di quarzo. E quando poi, trascorso un po’ di tempo, gli capitò di scendere di nuovo nel pozzo, sareste rimasti con tanto d’occhi per la sua intelligenza. Infatti, ogni volta che piazzavamo una carica d’esplosivo e la miccia iniziava a bruciare, lui ci lanciava un’occhiata come per dire: ‘Beh, stavolta dovete proprio scusarmi…’, e l’avreste dovuto vedere come schizzava via dal buco e andava a cercare un albero su cui arrampicarsi. Intelligenza? No, quella non era intelligenza. Era ispirazione!”.
A quel punto gli dissi: “Beh, Mr. Baker, tutto sommato, si può capire che il gatto fosse così prevenuto contro lo scavo dei pozzi, vista la sua esperienza. E voi avete mai cercato di fargli cambiare idea?”.
“Fargli cambiare idea! No, impossibile. Quando Tom Quartz si ficcava qualcosa in testa, mica c’era più verso, nessuno lo smuoveva più. Avreste potuto farlo saltare in aria anche tre milioni di volte e lui niente… nessuno gli avrebbe tolto di mente quella sua maledetta diffidenza contro lo scavo dei pozzi”. Non dimenticherò mai l’affetto e l’orgoglio che illuminavano il volto di Baker quando lodava la fermezza di carattere del suo umile amico.
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Nota
Alcune delle espressioni usate in questo capitolo si riferiscono al linguaggio tecnico minerario, e forse possono risultare poco comprensibili a un lettore non esperto. Nei “giacimenti alluvionali” l’oro è sparso un po’ ovunque in tutto lo strato superficiale; nelle “sacche” o “tasche” si trova invece concentrato in un unico punto; nel “quarzo” l’oro è concentrato in un’unica vena di roccia compatta e continua, sigillata tra due strati distinti e solidi di una roccia di diverso tipo; e in questo caso si tratta del sistema di scavo minerario senz’altro più complicato e costoso di tutti. “Fare prospezioni” significa cercare un “giacimento alluvionale”; per “indicazioni” s’intendono le tracce della presenza dell’oro; con il termine “lavaggio” ci si riferisce al procedimento tramite il quale, lavando per l’appunto la terra nella padella, vengono separate le particelle d’oro; il “sedimento” è quello che si trova nella prima padella piena di terriccio, e in base al suo valore si decide se si tratta di un sedimento buono o cattivo, e quindi se vale la pena insistere in quel punto o se è meglio cercare altrove.
[Testo tratto dai capitoli sessantesimo e sessantunesimo]