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10 Ottobre 2019 | Racconti d'autore

I menu padani di Cesare Zavattini

Testo di Simone Terzi tratto dal libro “La cucina degli scrittori. Letteratura e cibo in Emilia-Romagna”, a cura di Alberto Calciolari e Isabella Fabbri (Bologna, Regione Emilia-Romagna, 2019)

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Marzio Bossi (associazione "Legg'io") e Simone Terzi

Il 13 ottobre 2019 segna i trent’anni dall’ultimo “trasloco” di Cesare Zavattini, indimenticabile scrittore e artista. Il Centro culturale Zavattini e il Teatro sociale di Luzzara dedicano a questo anniversario la rassegna “Passaggi a livello”. Noi vi proponiamo un testo di Simone Terzi, responsabile della Fondazione Un Paese, che racconta gli aneddoti più saporiti della passione di Za per la cucina. Ringraziamo per la lettura Marzio Bossi e l’associazione “Legg’io”.

Da qualche tempo inseguo Cesare Zavattini e, via via, mi sono trovato a fissarlo in definizioni preliminari, che mi si presentano a coppie di contraddizioni, a tenaglia, forse nel tentativo di tenerlo fermo, che non sfuggisse. Lo si è detto molte volte, più che mai vale la pena ribadirlo: la molteplicità dei temi di intervento è tanto ampia, nella figura e nell’opera di Zavattini, da rendere difficile un’operazione di sintesi, nemmeno se si tratta di un compito apparentemente semplice come il tracciarne il profilo della passione culinaria. Vuoi parlare dello scrittore, emerge l’uomo di cinema; poi c’è il critico e c’è il sociologo; vuoi parlare del poeta, affiora il pittore; se vuoi il giornalista, ecco l’autore di teatro; vuoi conoscere il paese, devi considerare i continenti; e così via. Così ricca la sua avventura terrena, in una riflessione che è costantemente fatta di parole «perché non rifletto mai, solo parlando sono costretto a riflettere»,[1] che continuamente scopriamo di lui aspetti dimenticati, ignorati, secondari eppure così essenziali per comprendere il groviglio inestricabile che è stato e del tanto che ha lasciato e donato.
Insomma, anche per definire un solo aspetto di questa sua complessa semplicità, l’unica strada è quella di scandagliarne a fondo l’opera. «Con un colpo di reni tornai a simulare la giovinezza», dice un inciso da Viaggetto sul Po, ed è proprio negli incisi, come negli accadimenti minimi, quotidiani, tra piroette e sgorghi dell’inconscio, che possiamo ritrovare le imprevedibili tracce di questa passione per la buona tavola.
«Quando arrivo da fuori, appena tocco questa mia zona natale, comincio senza accorgermene a parlare in dialetto. Nessuno crederà che una volta ebbi la voglia repentina di mangiare del pane del mio paese, così partii sui due piedi da Milano, e quella notte mi addormentai col letto pieno di briciole»,[2] scrive all’inizio di Un paese: basta questo accenno al pane che subito Za ci porta nella Bassa, quella profonda, sommersa negli anfratti della memoria, fors’anche nella nostalgia. Perché fondamentali per Zavattini sono l’incidenza dell’infanzia e i rapporti con il microcosmo laboratorio di Luzzara, «misurabile tovaglia nella quale era imbandito il grande festino della vita, per la quale e dalla quale ha raccolto, con oculata e padana parsimonia, ogni briciola d’attenzione».[3]

La madre di Zavattini, Ida Giovanardi, discendeva da una famiglia di contadini, mentre il padre, Arturo, era nato a Luzzara ma proveniva dall’altra sponda del Po, da una famiglia di caffettieri lombardi che avevano tentato la fortuna in Emilia. «I miei nonni materni, a un certo punto misero su un forno; facevano un pane sublime, dalle forme stupende. Insieme ai salumi impareggiabili di Luzzara, quel pane è stato il nutrimento fondamentale della mia infanzia […]. Panettieri straordinari i miei nonni materni. Roba di paese, ma di una bontà!»,[4] ricorda Za, che telefonava agli amici luzzaresi che lo aspettavano a cena iniziando con un: «A m’arcmand al pan», mi raccomando il pane, invito che è ancora oggi il memento cuoco di ogni buona cucina nella Bassa, dove mangiare e bere vuol dire ospitalità.
Il padre faceva il caffettiere, però con una qualifica in più, quella di pasticcere, mestiere imparato a Milano, al Cova, come dire all’università. «Era un pasticcere straordinario: le sue paste e i suoi gelati erano assolutamente perfetti». Gli Zavattini avevano un caffè che «era il più bello» di Luzzara, con grandi specchi, divani di velluto rosso, mobili bianchi con dell’oro e una sala con il biliardo; al piccolo Cesare, che già pensava con gli occhi, sembrava un luogo magico: «Le nostre specialità, oltre le paste e i gelati, erano la trippa, il risotto coi tartufi che era diventato un rito, e le cotolette alla milanese».[5]
Uomo di straordinarie relazioni, di indomabile e contagiosa operosità, Za rimase legatissimo al luogo natale, inseparabile da alcuni contati amici. A Luzzara, nella campagna appena fuori dal paese, ancora oggi la famiglia di Cincinnato Soliani conserva sue cartoline personalizzate, ricevute in cambio del formidabile moscato che egli produceva e imbottigliava per pochi intimi. Sul retro di una di queste, con un suo bellissimo disegno raffigurante la torre di Luzzara in toni di giallo e ocra, Cesare scrisse: «Caro Cincinnato, buon anno a te e ai tuoi, e grazie per la qualità delle tue bottiglie che mi aiutano ad aprire la finestra di qualche giornata triste […]. Proprio vini da messa, viene su l’infanzia intera, dopo la quale la vita non è che un modo di tradirla».
Un’attenzione alla genuinità del prodotto «locale » ante litteram. Non gli stavi dietro a Zavattini, correva mentre gli altri camminavano, volava quando gli altri correvano. Arrivava prima, capiva in fretta, anticipando mode future: il «chilometro zero» sarebbe arrivato trent’anni dopo.
Il suo amore per la buona tavola è una presenza fluviale disseminata in rivoli, angoli, anfratti, dove sorprende sempre meno il riscoprirla, sotto la spinta di una inesausta generosità e di una inesauribile curiosità. Lo si ritrova nelle migliaia di pagine che costituiscono gli epistolari, dove possiamo leggere sia gli scambi con Attilio Bertolucci, l’amico di una vita, che lo invitava per i tortelli di zucca preparati dalla moglie e a cui Za, a fatto compiuto, rispose: «Perché non ho preso i tortelli una seconda volta? Mia moglie è stata informata la mattina dopo del mio drammetto. Glieli descrissi sublimi»;[6] che una lungimirante riflessione affidata ad una lunga lettera scritta all’amico, barbiere e poeta Guido Sereni, su quella che, lui sempre avanti di qualche passo, intuisce come la chiave del successo per un ristorante luzzarese:

«Bisogna che Tonino (il gestore del ristorante “Luccio” di Luzzara) mi ascolti. Cioè, si specializzi in bolliti. Nient’altro. E la battaglia sarà vinta, la faccia del nostro Paese salva. Ormai è sulla strada. Si tratta di perfezionare. Con poca spesa e un po’ di gusto. Spenda cinquantamila lire in pentole, padelle, forchettoni, taglieri e perfino riscaldatore da tavolo, se fosse necessario. Naturalmente deve stringere una solida alleanza col macellaio e trovare un serio fornitore di salami, cotechini e quanto derivi dal maiale. Solo in questo modo si caratterizza e a mio modesto avviso avrà successo economico e di prestigio. I bolliti della Padania. Portati in tavola fumanti, nei grandi recipienti, tagliati sotto gli occhi dei clienti. S’intende, le relative minestre, compresi la pastaragia, i cappelletti, i tacón, i filatini ecc.; e le salse, dal cren alla mostarda, al peperone tritato, a quelle due o tre in boccette, quali la tomato-ketchup e il gioco è fatto. Tonino comprenda che non è problema di impegno di denaro, di rischi, ma solo di buona volontà e di amor proprio che si tradurranno in regolari guadagni».[7]

Niente di oleografico dunque nelle confidenze epistolari di Zavattini, il quale si meravigliava nella stessa lettera, scritta da Los Angeles: «Guardate un po’ di cosa mi occupo, con le sgobbate che qui dovrò fare…».
Noi, invece, non ci meravigliamo più di tanto, anzi possiamo continuare ad andare in giro a spigolare sulle sue pagine e inciampare ogni tanto in testi come quello in cui, da Luzzara, si mette a elencare i posti dove andrebbe a cena:

«Al Luccio di cui la cuoca sorride a pagina trentotto, o dai fratelli Nizzoli a Villastrada con le rane fritte che crocchiano (un loro continuare a gracidare) e al süg, il sugo d’uva rappreso e coperto di zabaglione? A Guastalla all’Old River, al Leon d’oro, alla Stazione? A Suzzara al Cavallino Bianco protetto da Dino Villani, alla Tenca o all’altro Cavallino di Reggiolo? Ciascuno ha qualcosa di suo che il palato troverebbe al buio […]. O a Pomponesco da Saltini, vi piace lo stracotto di cavallo? Quando c’era Cagnolati, ci metteva da parte le bottiglie col vetro imblasonato di ragnatele nell’aspettare noi. Bastano cinque minuti di macchina a raggiungere per la cena i posti desiati, attraversando il ponte più lungo d’Europa sorretto dalla luna».[8]

Avrebbe voluto stampare per il Ristorante Nizzoli un cartone con le «prescrizioni da seguire per la perfetta cottura della spalla cotta», prima lasciata a bagno per ventiquattr’ore, poi lessata e fatta raffreddare nella sua acqua; ispirazione per una poesia inedita, Magnà la spala calda:

Magnà la spala calda in cumpagnia
dadlà dal Po
l’è acsè bel
c’ogni tant am vé det
andom pian putei
par sluntanaà al mument
che i tvaioi i sia strafugnà
i bicer vöd cun li labradi
in s’iurlu.

Mangiare la spalla calda in compagnia / di là da Po / è così bello / che ogni tanto mi viene detto / andiamo piano ragazzi / per allontanare il momento / in cui i tovaglioli siano spiegazzati / i bicchieri vuoti con le labbrate / sopra gli orli.[9]

Da Luzzara a Villastrada, la Bassa al di là del fiume, in questa curiosa fraternità di confine che, solo qui, unisce separazioni nella comune solidarietà culinaria. Dai Nizzoli Zavattini non era un semplice cliente ma, come ricorda Arneo, cuoco zavattiniano e “Re della zucca”: «Arrivato nel mio ristorante nel 1964, è l’uomo che lo ha trasformato in un luogo mitico», dove sono passati registi, attori, artisti. Qui il “Premio dei naïfs” aveva il suo momento culminante, quando il 31 dicembre, dopo l’inaugurazione di mezzanotte, si festeggiava con una grande tavolata.
E proprio dai Nizzoli, Zavattini ha fissato il suo personalissimo codice della buona tavola, trascritto da Arneo e sempre rigorosamente applicato:

«Allora, ascolta bene che cosa mi piace: pane comune, insomma panòn; salame mantovano agliato; spalla cotta bollente, dico bollente; polenta abbrustolita; taiadéli con brodo di terza, cioè gallina, manzo, maiale; riso e zucca, mi raccomando che sia all’onda, con tanto burro, grana e una spruzzata di brandy. Servito fumante, quando si alza il coperchio dalla zuppiera deve uscire il vapore; rane fritte, croccanti; stufato di manzo o di somarina, con sugo ristrettissimo; sugolo d’uva, anche con zabaione flambé; granita o gazzosa ghiacciata come digestivo; Lambrusco, sempre nei tre tipi, chiaro, amabile, scuro. Preferisco quello del Viadanese, nerissimo e che faccia tanta schiuma. Da bambino mio padre mi diceva che se bevevo la schiuma diventavo furbo».[10]

Schiuma, vapori, fiamme; distese di bicchieri per i diversi tipi di lambrusco: Za voleva stupire i commensali, non perdendo mai il gusto per lo spettacolo, come in un film. Considerava la buona cucina un momento creativo: alcune ricette dei Nizzoli, ora nel Menù Zavattiniano, sono state inventate da lui, come il riso e zucca «all’onda» con brandy e il sugo d’uva con zabaione servito flambé.
Perché forse non tutti sanno che Zavattini è stato anche un accanito sperimentatore di ricette a modo suo. Nel ricordo di Valentina Fortichiari – risalente al periodo in cui lavorava con lui al Diario cinematografico – una sera
d’estate di fine anni Settanta, quando, eludendo la sorveglianza della madre e di sua moglie, barricandosi in cucina in veste di cuoco improvvisato, Za preparò il suo piatto forte, le cotolette alla milanese: «Guardavo con apprensione sciogliersi in padella sfrigolando un intero panetto di burro, dove avrebbe messo a galleggiare le orecchie d’elefante con l’osso. La notte, incubi mi facevano visita al solo pensiero di quel burro fuso».[11] Possiamo quasi immaginarlo mentre preparava da mangiare, rimestando e sperimentando, un po’ casualmente, allo stesso modo in cui mescolava i colori nella notte fonda, prima dell’alba, l’ora delle agonie o delle intuizioni sublimi.
Zavattini non dimentica nemmeno le tradizioni più tipiche e storiche, come rievoca in una delle tante prefazioni: «La neve nel bicchiere fu una parola d’ordine di certi partigiani, mentre nella realtà campagnola è il sorbetto dei poveri, una manata nella neve più bianca dentro un bicchiere di cui versandovi sopra qualche goccia di vino cotto si fa una bibita di una dolcezza antica e fantastica per gli occhi».[12]
Sul nocino pretendeva addirittura la ricetta prescritta nel Settecento, vale a dire «con l’aggiunta di due chiodi di garofano o di menta piperita e di una buccia di limone scartando il bianco».[13]
[…]

Un ultimo aneddoto, che ha tutta la magia di uno di quei suoi raccontini surreali e precisissimi. A Cerreto Alpi, dalla sorella Tina che nel 1963 lo ospita in pieno esaurimento e con un tremendo mal di stomaco, Zavattini scoprì le mele tosche:

«Io qui ci sto, come ho già detto, alla perfezione e credo che abbia contribuito a questo stato di grazia nel quale adesso mi trovo un fatto che mi piace dire a tutti con la speranza che possa essere utile, cioè quello delle mele tosche. Io qui ho trovato delle piccole mele che si chiamano mele tosche perché nascono sugli alberi del versante toscano, queste mele tosche sono piccoline, anche bruttine, magari, e… si mangiano e fanno nientedimeno che sparire l’acidità di stomaco a chi ce l’ha, anche i bruciori più infernali. Io l’ho già detto ad altre persone che stanno verificando la stessa cosa e ne volevo fare una speculazione, avevo pensato dico: ma qui, è vero, creiamo qualche cosa… Vado da un chimico, lanciamo un prodotto, ci arricchiamo, invece adesso che siamo qui lo dico, è vero, e non faccio come quei guaritori che si portavano via, no? il loro, è vero, segreto, e… costano 35 lire al chilo… e guariscono».[14]

In breve, è storia ormai nota, Zavattini parlò delle mele tosche in un’intervista che andò in onda nel 1963 per il programma RAI «TV7» e, dal giorno dopo, all’indirizzo della sorella iniziarono ad arrivare lettere da tutta Italia che chiedevano lumi per avere scorte di quelle mele miracolose.
Verità o un’altra invenzione delle sue? Forse non è poi così importante saperlo. Più importante vedere come, ancora una volta, quando Zavattini scopre – e la situazione si verifica con assoluta continuità – ascoltando, vedendo, assistendo, leggendo o assaggiando una tal cosa, semplicemente fa proprio un aspetto del vissuto, e se ne convince talmente che l’idea stessa è subito messa a disposizione di chiunque altro voglia appropriarsene, per realizzarla o per giocarvi sopra qualche altra riflessione. Altro che brevetti. Si chiama infatti, in altri termini, circolazione delle idee: a essa contribuiscono, senza barriere come senza gerarchie, il barbiere nella sua bottega, il filosofo nel suo salotto o, appunto, la sorella Tina con le sue mele.
Per una vita Zavattini ha parlato, e quel che più conta, ha scritto, registrato, trascritto, tramandato a futura memoria il suo parlare, protagonista di innumerevoli interviste, disponibile al dialogo anche con (quasi) sconosciuti, in realtà ha condotto (mai recitato) un unico, lungo, interminabile monologo. Ma non ha mai parlato per se stesso: ha sempre cercato qualcuno – individuo effettivo o ipotetico, gruppo esistente o da formare – cui rivolgersi, qualcuno da rendere complice o almeno testimone di un racconto, di un progetto, e a volte… di un buon piatto.

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Riso e zucca all’onda con aggiunta di brandy «alla Zavattini»

Ingredienti per 6 persone:
400 gr di riso; 400 gr di zucca; brodo di carne (o brodo vegetale); 100 gr di burro; 100 gr di grana grattugiato; brandy spagnolo
Preparazione:
Cuocere la zucca a falde larghe in poca acqua non salata. A cottura ultimata scolare la zucca e farla raffreddare, spellarla dalla buccia, mettere il riso, la zucca e il brodo o l’acqua di cottura della zucca in un tegame; mescolare il tutto e mettere a cuocere per circa un quarto d’ora. A fine cottura mantecare con burro e grana. Servire fumante, e spruzzare a piacimento con brandy spagnolo.

[Ricetta tratta dal libro: Arneo Nizzoli, Il cuoco sono me. Con 64 ricette padane create dal Re della zucca, raccontato da Renzo Dall’Ara, Mantova, Tre Lune Edizioni, 2006]

Il libro “La cucina degli scrittori. Letteratura e cibo in Emilia-Romagna”, a cura di Alberto Calciolari e Isabella Fabbri (Bologna, Regione Emilia-Romagna, 2019) è disponibile gratuitamente sul sito dell’Istituto per i beni culturali.

Note
[1] Cesare Zavattini, Opere 1931-1986, Milano, Bompiani 1991.
[2] Paul Strand – Cesare Zavattini, Un paese, Torino, Einaudi, 1955.
[3] Marzio Dall’Acqua, Antonio l’altro Zavattini misterioso ed estraneo a se stesso, in Diviso in due. Cesare Zavattini: cinema e cultura popolare, a cura di Pierluigi Ercole, Reggio Emilia, Diabasis, 1999.
[4] Cesare Zavattini, Io. Un’autobiografia, a cura di Paolo Nuzzi, Torino, Einaudi, 2002.
[5] Cesare Zavattini, Io. Un’autobiografia, cit.
[6] Lettera ad Attilio Bertolucci datata 1977, da: Attilio Bertolucci – Cesare Zavattini, Un’amicizia lunga una vita. Carteggio 1928-1984, a cura di Guido Conti e Manuela Cacchioli, Parma, MUP, 2004.
[7] Lettera a Guido Sereni (n. 183, Los Angeles, 7 novembre 1971), da: Cesare Zavattini, Una, cento, mille lettere, a cura di Silvana Cirillo, Milano, Bompiani, 1988.
[8] Un paese vent’anni dopo, cit.
[9] Si veda: Giovanni Negri, I misteri della bassa per terra acqua aria fuoco.Antologia della civiltà letteraria padana del Novecento, presentazione di Cesare Zavattini, Firenze, D’Anna, 1982, dove è riportata questa poesia inedita, variante della poesia A go ü (Ho avuto) accettata in: Cesare Zavattini, Stricarm’ in d’na parola (Stringermi in una parola). 50 poesie in dialetto, Milano, Scheiwiller, 1973.
[10] Arneo Nizzoli, Il cuoco sono me. Con 64 ricette padane create dal Re della zucca, raccontato da Renzo Dall’Ara, Mantova, Tre Lune Edizioni, 2006.
[11] Valentina Fortichiari, Zavattini e la Bassa, in Cuore padano. Cesare Zavattini e la Bassa, Reggio Emilia, Biblioteca Panizzi Edizioni, 2016. Si veda anche: Cesare Zavattini, Diario cinematografico, a cura di Valentina Fortichiari, Milano, Bompiani, 1979.
[12] La neve nel bicchiere, prefazione all’omonimo testo di Nerino Rossi che si può leggere in Gli altri; Cesare Zavattini, Opere, cit.
[13] Testimonianza di Ugo Aldrovandi, in Alfredo Gianolio, Pedinando Zavattini. Immagini e testimonianze dal Cerreto al Po, Reggio Emilia, Diabasis, 2004.
[14] Dall’intervista a Cesare Zavattini realizzata nella casa di Tina Zavattini e Clemente Sentieri a Cerreto Alpi (Reggio Emilia), trasmessa il 18 novembre 1963 per il programma RAI «TV7».

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