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1 Novembre 2018 | Racconti d'autore

E io pedalo

Testo tratto dal libro omonimo di Donatella Allegro (sottotitolo: “Donne che hanno voluto la bicicletta”, Modena, Edizioni del Loggione, 2017)

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Donatella Allegro

Due ruote messe in movimento dalle gambe: cosa c’è di più semplice, economico e potente per affermare la propria libertà? L’attrice e regista Donatella Allegro racconta storie di donne che hanno trovato il coraggio di essere sè stesse grazie a una bicicletta. Come accadde ad Alfonsina Strada…

Le avventure di questa «tenace donnina» sono state magistralmente raccontate nel libro Gli anni ruggenti di Alfonsina Strada di Paolo Facchinetti [Portogruaro, Ediciclo, 2014], che ha raccolto anche fotografie e articoli di giornali. Difficile fare di più. Eppure, tributando i giusti meriti, non si può non accennare alle gesta della donna che nel 1924 corse, e concluse, il Giro d’Italia con gli uomini. Basta guardare una delle fotografie autografate che distribuiva agli ammiratori – oggi facili da trovare, sui libri o sul web – per coglierne la tenacia, la fierezza, eppure la modestia: capelli corti alla bebè con la scriminatura da un lato e ciuffo a onde sull’occhio, sguardo alla macchina, veste semplicemente con un maglione e dei calzoni un po’ informi sulle gambe robuste. Niente a che fare con i corpi scolpiti dei nostri sportivi di oggi: Alfonsa [il cognome d’origine è Morini] ha la forza di chi è abituata a lavorare nei campi fin da bambina, la forza giusta per quello sport proletario per eccellenza che per decenni è stato il ciclismo.

La “regina della pedivella”, come fu poi chiamata, era nata a Castelfranco Emilia, tra Modena e Bologna, da una famiglia poverissima. Aveva trascorso un’infanzia simile a quella di tante altre famiglie contadine del tempo: i suoi giovani genitori sfornavano un figlio all’anno e intanto, per racimolare due soldi in più, ne prendevano a balia altri, quasi mai sopravvissuti alla prima infanzia. Dei sette bambini rimasti vivi, Alfonsa è la seconda, e si occupa fin da piccolissima della campagna e dei fratellini. La vita scorre con le sue ordinarie fatiche, finché, una domenica del 1901, non succede una cosa straordinaria: papà Carlo arriva a casa pedalando su una vecchia bicicletta, scambiata con poche galline e qualche lavoretto nell’orto. La passione di Alfonsina nasce allora, come puro desiderio di fuga e di sfida e con la sicurezza impavida di un primo amore.
Chi può dire se in lei ci fosse un desiderio consapevole di sfidare le convenzioni sul ruolo della donna? Più probabile che a muoverla sia stato un moto istintivo di riscatto sociale, un mettersi all’inseguimento – non poi tanto metaforico – di opportunità che in una famiglia di braccianti si potevano a stento immaginare. Quale che sia stata la “molla”, il risultato fu rivoluzionario, e si poteva presagire fin dalle sue prime scorribande in campagna con i suoi coetanei. Alfonsa, che naturalmente è l’unica femmina a correre in bicicletta, già allora va parecchio forte e diventa un polo di attrazione: la chiamano “la matta”, crescendo diventa “il diavolo con la sottana”. La domenica, con la scusa della messa, si avventura insieme ai maschi nelle località vicine e di lì a poco allarga i suoi giri, unendosi a quei corridori che a Bologna si allenano in Montagnola e ai Giardini Margherita.
Neanche il lavoro di sarta le toglie dalla testa la passione per le due ruote, anzi, comincia a pensare di farne un mestiere – in fondo non è stato uno spazzacamino, tale Garin, a vincere il primo Tour de France e fare un sacco di soldi? Nel 1907 parte così per Torino, dove le donne che corrono sono già parecchie: la Bersonetti, la Bonetti e, sopra tutte, Giuseppina Carignano, che Alfonsa batterà conquistando il titolo di Miglior ciclista d’Italia. Nel 1911 stabilisce il record mondiale di velocità femminile (37 chilometri orari), battendo la francese Louise Roger e, nello stesso periodo, si fa notare piazzandosi settima in una gara campestre, a Stupinigi – unica donna contro cinquanta uomini. Il cuore del ciclismo, però, è Milano, ed è lì che si trasferisce nel 1911. Tra una gara e l’altra conosce l’artigiano Luigi Strada, che appoggia completamente la sua passione. Vanno a vivere insieme e nel 1915 si sposano. Regalo di nozze: una bicicletta.

Intanto l’Italia è entrata in guerra, lo sport passa in secondo piano e i giornali specializzati chiudono; solo il ciclismo sopravvive, seppure molto ridotto nei numeri. Anche per Alfonsina e il marito sono tempi duri, tanto più che le corse delle donne sono scomparse. Il 2 novembre 1917, nonostante non siano passati che pochi giorni dalla disfatta di Caporetto, si corre il Giro di Lombardia: l’ordine del governo, infatti, è di non demoralizzare il paese. Alla partenza si presentano solo in 54, e tra loro c’è Alfonsina, che si classifica ultima, con un’ora e mezza di ritardo dal vincitore.
Alfonsa aveva provato più volte a partecipare al Giro d’Italia, ma l’anno buono è il 1924 quando, per un conflitto tra case ciclistiche e organizzatori del Giro, gli iscritti sono pochi; allora, Cougnet e Colombo pensano che accettare questa bizzarra ragazza possa essere addirittura una buona trovata pubblicitaria. Solo che negli elenchi dei partecipanti risulta iscritto, tra i dilettanti, un certo “Strada Alfonsin”. A cosa si deve l’elisione? Errore? Censura? Prudenza? Non si sa, ma a molti è parsa un’omissione sospetta, tanto è vero che un monologo teatrale – scritto e diretto nel 2016 da Gabriele Tesauri, con Patrizia Bollini nel ruolo di Alfonsina – si chiamava Finisce per A.
A quel tempo il Giro era un’avventura estrema di per sé: le bici erano pesanti, le strade impossibili e i ritmi spietati. Tra il 10 maggio e il primo giugno, i 90 partecipanti si trovarono a percorrere 3613 chilometri suddivisi in 12 tappe, lunghe da un minimo di 230 chilometri (la Taranto-Foggia) a un massimo di 415 (la Bologna-Fiume), intervallate ciascuna da un giorno di riposo; da Milano a Taranto, risalendo fino a Fiume e di nuovo a Milano.
Alfonsina appartiene alla categoria dei “fuori classe”, che in pratica vuol dire dilettanti: appassionati, vecchi corridori, disoccupati… iscritti senza squadra che non hanno diritto a niente, nemmeno all’alloggio per la notte. Inizialmente Alfonsina non è presa sul serio, ma, poiché attira folle di curiosi e offre ai giornali materia di pettegolezzo, ben venga la sua presenza […].

Facchinetti ripercorre nel dettaglio ogni tappa di questo Giro, unico nella storia, raccontandone i successi ma anche le cadute e i momenti di sconforto, come quando, arrivata ultima alla Taranto-Foggia, Alfonsina pensa di ritirarsi, si fa portare in stazione decisa a prendere un treno per Bologna e viene fermata da un capostazione, uno dei tanti a tifare per lei. O come quando, a meno quattro tappe dalla fine, arrivata fuori tempo massimo e dunque destinata a essere espulsa dal Giro, viene riammessa fuori classifica (come già Cividini e Aperlo dopo la Foggia-L’Aquila), e finalmente le vengono garantiti alloggio e massaggiatore, a riprova del merito conquistato in corsa.
Epico l’ingresso a Bologna, sua città natale, con 2 ore 47’ 54” dopo il primo arrivato. Lo racconta il «Guerin Sportivo» il 27 maggio 1924: “La folla coi piedi nella fanghiglia e mentre la pioggia continuava il suo stillicidio ha atteso per tre ore buone la Alfonsina. E quando l’ha potuta ammirare coi connotati corretti dal fango dei chilometri compiuti l’ha issata con la madre e con la macchina su di una vettura che è entrata in città circondata da una lunga e vociante scorta d’onore”. Dove la “macchina” era, nel linguaggio dell’epoca, la bicicletta.

Il I giugno, il giro finisce. Di 90 iscritti arrivano in 30 e tra questi c’è Alfonsina, prima e ultima donna ad aver corso un Giro con gli uomini. Era arrivata complessivamente con 28 ore di ritardo rispetto al primo, ma aveva pedalato per tutti i 3613 chilometri previsti. Tra soldi, medaglie, sponsorizzazioni e altri riconoscimenti aveva messo insieme – si dice – ben cinquantamila lire; ma soprattutto aveva guadagnato la fama e, prima ancora, il riconoscimento delle sue capacità, della sua tenacia. Tra i suoi estimatori, si contavano ora i detrattori di una volta, come il direttore del «Guerin Sportivo» Giulio Corradino Corradini: “La sig. Alfonsina Strada non fa dello sport da circo equestre; è una donna, una madre, che trova il modo più consono ai suoi mezzi fisici per guadagnare… non ha le mani sottili da ricamatrice, ma ha le gambe muscolose della corridrice. Provatevi, provatevi a sfidarla; e vedrete che magra figura ci farete!”.
Se il valore di uno sportivo si vede anche da come fa fruttare i successi, vale la pena raccontare anche il dopo. Alfonsina a trentatré anni è famosa e ricercata dai velodromi di tutto il mondo. È quasi ricca, ma continua a vivere semplicemente e sa amministrarsi: corre, continua a stampare e a distribuire foto, viaggia in tutta Europa. Invitata a Parigi per una serie di riunioni, pensa bene di farsi raggiungere dalla madre. Questa visita, nella mitologia familiare, è fonte di aneddoti meravigliosi, come l’arrivo della signora Virginia con la valigia di cartone, o come il suo stupore per la caldaia che riscalda l’acqua dell’albergo – caldaia che la mamma pensa di alimentare con la legna raccolta nel giardino.

Decenni dopo, il femminismo avrebbe detto che il percorso di consapevolezza e liberazione delle donne passa anche dalla riscrittura del rapporto con la madre, e non solo quella simbolica. Alfonsina, che ha incarnato il femminismo senza averlo forse mai nemmeno sentito nominare, ne ha riscritti parecchi, di rapporti, semplicemente facendo sempre quello che voleva, appropriandosi degli ambiti e degli abiti maschili con naturalezza. E non solo di quelli maschili. Ancora negli anni Venti accetta di impiegare le sue capacità e il suo coraggio negli spettacoli di varietà di Anna Fougez, dove si impone per le sue abilità e per la sua forza: pedala sui rulli, corre sulla ruota della morte, salta dal trampolino.
Anche nelle relazioni personali si dimostra una donna libera. Mentre il rapporto con la famiglia di origine nel tempo si sfilaccia, Alfonsina vince la solitudine unendosi a Carlo Messori, ex ciclista, massaggiatore, conosciuto quando ancora era una ragazzina; con lui viaggia l’Italia e insieme si esibiscono per qualche anno, poi si trasferiscono a Milano e mettono su un’officina di riparazioni per biciclette, divenuta mitica. Rimasti entrambi vedovi, si sposeranno nel 1950. […]

Morto Messori, Alfonsina rimane in compagnia di vari gatti e della sua moto Guzzi, acquistata vendendo qualche trofeo. Quando, il 13 dicembre 1959, muore stroncata da un infarto mentre cerca di avviare la motocicletta, è ormai convinta di essere stata dimenticata.
Eppure non era così, a giudicare dagli articoli affettuosi con cui la ricordano i giornali. «Con Alfonsina», scrive il «Corriere della Sera» in un lungo articolo, «scompare uno dei personaggi più rappresentativi non soltanto di un’epoca favolosamente sportiva, ma anche di un’Italia tramontata, deliziosa, ingenua e buona». E nemmeno oggi è dimenticata.
 

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