Scrittore con un passato da insegnante e una lunga esperienza come animatore culturale, Alessandro Castellari ha realizzato una raccolta di quindici racconti brevi che partono tutti da questa domanda: cosa direbbero le opere d’arte, se potessero parlare?
Il pisciatoio concettuale
È da cent’anni esatti che io e i miei dieci fratelli sparsi per il mondo suscitiamo scandalo, fomentiamo sdegno, siamo oggetti di derisione, facciamo scorrere fiumi di inchiostro ai nostri detrattori.
E dopo cent’anni di paziente silenzio, io, il pisciatoio di Marcel Duchamp esposto alla Galleria d’Arte Moderna di Roma, prendo la parola a nome dei miei dieci fratelli sparsi per il mondo, e soprattutto a nome del mio caro fratello maggiore prematuramente scomparso. Non la butterò in polemica perché il pensiero di quel caro fratello mi turba e mi commuove ancora.
Poveretto! Tutto cominciò il 10 aprile 1917, il giorno dell’apertura a New York, sulla Lexington Avenue, della mostra curata dalla Society of Independent Artists nella sala del Grand Central Palace. A dire il vero più che di una mostra aveva l’aspetto di un bazar orientale o di un mercato delle pulci come quello di Saint-Ouen o di Porta Portese. C’era di tutto: paesaggi e ritratti ottocenteschi, un po’ di postimpressionismo e un po’ di avanguardia, statuette in bronzo e cineserie, opere notevoli insieme ad orribili croste. Duchamp mandò ai curatori della mostra un comune pisciatoio, modello “Bedfordshire”, comprato in un negozio di sanitari della Centodiciottesima Strada, alla “J.L. Mott Iron Works”. Lo aveva firmato “R. Mutt, 1917” e gli aveva dato il titolo La fontana. Non venne esposto perché nessuno credeva che fosse un’opera d’arte. E infatti, a dire il vero, non era propriamente un’opera d’arte: era l’inizio di una grande rivoluzione!
Che fine fece il mio povero fratello? Fu ritrovato in un ripostiglio del Grand Central Palace, fu fotografato da Alfred Stieglitz, quello della “Galleria 291” nella Fifth Avenue, e la foto fu pubblicata su «The Blind Man». Poi fu gettato nella spazzatura.
Ma quella foto sulla rivista e l’articolo che l’accompagnò furono la Rivoluzione francese dell’arte, la fine dell’Antico regime, e le parole dettate da Duchamp furono una Dichiarazione di indipendenza! Scusate se mi esalto un po’, se non sono capace di mantenermi freddo. Ma voi mi dovete capire perché è la prima volta che un comune pisciatoio, modello “Bedfordshire”, prende la parola in pubblico…
Dunque, dicevo, di quell’articolo e di quella dichiarazione: Se Mr Mutt abbia fatto o no la fontana con le sue mani non ha importanza. Egli l’ha SCELTA. Ha preso un comune oggetto di vita, l’ha collocato in modo tale che il significato pratico scomparisse sotto il nuovo titolo e punto di vista; egli ha creato una nuova idea per l’oggetto.
Capite? Questa è la rivoluzione. Mi verrebbe da urlare: “Oggetti di tutto il mondo, unitevi!”. Altro che il 1789, altro che il 1848! Ma non voglio esaltarmi ancora.
Voi dovete pensare che un semplice e banale ready-made, un insignificante oggetto “già fatto” come una sedia, un attaccapanni, un cavaturaccioli, un bidè, un pisciatoio di una stazione ferroviaria, una pala da neve, un bollitore, una lattina di birra, può assurgere ad opera d’arte, posto com’è dall’artista in una situazione diversa da quella d’utilizzo che le è propria.
Sto andando sul difficile? Beh, pensate ad un cavaturaccioli: se lo vedete in un cassetto di cucina o se lo vedete là, isolato, su un piedistallo di marmo al centro della sala di un museo d’arte moderna. C’è una bella differenza! Nel primo caso è un oggetto d’uso, nel secondo caso, là sul piedistallo, è qualcosa di più, di diverso, qualcosa che fa pensare. Io a dire il vero tutte queste cose le ho capite all’inizio degli anni Sessanta quando Duchamp, ormai vecchio e incalzato dai galleristi che volevano tutti un suo pisciatoio, fece fare undici repliche, sempre modello “Bedfordshire”, e le distribuì in giro, in America e in Europa. Pensate che uno dei miei fratelli fu acquistato nel 1999 tramite Sotheby’s per un milione e settecentomila dollari!
Ma ho perso il filo…
Ah, dicevo che tante cose le ho capite negli anni Sessanta. Ho capito che Duchamp aveva superato la dimensione dell’arte-arte, quella dell’emozione estetica, quella della riproduzione di ciò che l’occhio vede, quella della forma, e ci aveva fatto entrare nel mondo nuovo dell’arte come idea.
Certo che è difficile da capire! L’altro giorno un distinto signore accompagnato dai figlioletti si è fermato davanti a me e dopo avermi osservato attentamente ha esclamato: «È una offesa alla mia intelligenza!». Ma è da un secolo, caro signore, che l’arte si è liberata dai lacci sentimentali ed estetici! Ma è da cinquant’anni, caro signore, che l’onda sgorgata da questa “fontana” viene definita “concettuale”! Così sono arrivate nei musei le sedie di Joseph Kosuth, gli stracci di Michelangelo Pistoletto, i lucidalabbra di Sarah Illenberger, e perfino “i barattoli di merda d’artista” di Piero Manzoni.
E già! Tutto è nato da quel mio povero fratello maggiore, modello “Bedfordshire”, che non fu esposto quel fatale 10 aprile 1917 e che poi fu gettato nella spazzatura.
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Finestre
Potrei essere l’uomo di Ombre nella notte, quell’uomo visto dall’alto che cammina intabarrato e col cappello calcato sulla testa in una strada deserta solcata da biancori lattiginosi e da ombre inquietanti: come la ripresa in campo lungo di un malfattore solitario in un film in bianco e nero dei miei tempi. E lei potrebbe essere la giovane donna di Automat, una ragazza triste e sola che fissa la tazzina fra le mani assorta nei suoi pensieri, seduta ad un tavolino di un self-service: scena desolata in cui l’unica nota di colore è un vaso di frutta alle sue spalle.
Dico questo per attirare la vostra attenzione con qualche immagine della poesia silenziosa di Edward Hopper, perché io sono solo una voce fuori campo, un anziano insegnante in pensione a cui piace guardare dalla finestra di fronte cosa fa Maggy quando torna a casa dal lavoro. Uno sguardo insistente ed indiscreto, proprio come quello di Jeffrey nella Finestra sul cortile.
Credo che Maggy lavori nella drogheria accanto al cinema dell’Ottantaseiesima Strada qui nell’East Side. La vedo dirigersi al negozio tutte le mattine e tornare tutte le sere con alcuni giornaletti scandalistici di Broadway sottobraccio. Ora è là. La mia finestra di dirimpettaio dà sulle sue tre finestre sull’angolo arrotondato della casa. Davvero Finestre di notte potrebbe essere intitolata questa scena.
Ho letto una volta sul «New Yorker» che la finestra è il limite che divide chi guarda da chi è guardato; ma io penso che abbia ragione quel filosofo quando dice che la finestra è “l’anima dell’edificio”, lo spazio o lo spiraglio concesso a uno come me per immaginare la vita degli altri, per carpire una vita che non ho mai vissuto, anche se è così simile alla mia. A me piace scrutare le intimità di uno spazio interno, attraverso la mia finestra o attraverso le vetrine illuminate di un negozio o di un bar: i gesti quotidiani, le facce anonime, i momenti più banali. Mi sembra allora che la mia vita solitaria di vecchio insegnante in pensione sia amica di tutte le altre vite solitarie di questa grande città.
Ma Maggy suscita in me pensieri diversi. Maggy è là nel suo appartamento al quarto piano. La vedo trafficare in casa come fa sempre quando torna dal lavoro. Alla finestra di sinistra sbatte la tenda azzurra mossa dal vento. La vedo di schiena nel riquadro della finestra centrale, chinata in sottoveste a raccogliere qualcosa. La finestra di destra lascia trasparire una macchia di rosso che non so cosa sia. Nulla conosco di Maggy e della sua vita solitaria. E allora non voglio pensare che stia soltanto ascoltando la radio e si prepari ad andare a letto per ricominciare domani la sua umile vita di commessa. Immagino invece che lei, così giovane, si prepari ad un viaggio facendo le valigie, che cerchi la carta geografica degli Stati Uniti, che si lasci avvincere da nomi come Ashland o Abilane, che prenda domani la Strada Statale numero 6 verso ovest o il treno dalla Pennsylvania Station. Per fuggire, lei così giovane, alla sua solitudine.
Vorrei gridarle dalla finestra: «Forza Maggy! Va’, va’ via, e buona fortuna!». Ma non so se la mia dirimpettaia si chiami davvero Maggy, o Dolly, o Daisy. E poi ogni voce, ogni grido in un quadro di Edward Hopper sarebbe inghiottito dal silenzio.
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Il libro in mano alle donne
Ricordate quella deliziosa Vergine di Simone Martini che, sorpresa dall’evento, accoglie l’arcangelo Gabriele e il suo annuncio dell’immacolata concezione mentre sta leggendo un libro? O quella anziana donna che Rembrandt raffigura intenta sulla Sacra Scrittura mentre con la mano rugosa tiene il segno per aiutare i deboli occhi? O quella fanciulla di Jean-Honoré Fragonard che vezzosamente tiene in mano un libro e che forse nella sua bella testolina fantastica di avventure amorose? Anche Edward Hopper di recente ha raffigurato una giovane donna in una camera d’albergo: ha appena appoggiato la valigia e la borsa da viaggio in un angolo, ed ora scalza, in mutande e canottiera legge un libro seduta sul bordo del letto.
Io, il libro, ho spesso percorso la storia dell’arte in mano alle donne. Molto meno spesso in mano agli uomini.
Così sono diventato un tema ricorrente con cui anche il multiforme ingegno di Pablo Picasso ha voluto fare i conti. Non stupitevene: ogni grande rottura possiede la memoria quasi ossessiva della grande tradizione.
Guardatela bene Corinne, questa donna che legge.
Lei è china sul tavolo con la mano destra sul libro ed è presa da una concentrazione tale che le dita appaiono come oggetti duri e metallici. Lei è seduta su una sedia alta e rigida ed è inclinata nella lettura su un tavolo di legno asimmetrico. Dai vetri filtra una luce diafana che illumina le architetture sbilenche ed angolose. Ma il suo volto è in ombra, e lei legge assidua e concentrata. È come se Corinne avesse strappato a viva forza uno spazio per sé, per leggere avidamente il suo libro, per trovare un attimo di tregua e di nutrimento nella sua quotidianità difficile, in quegli anni Trenta calamitosi che precipitano verso la guerra di Spagna, verso il bombardamento di Guernica, verso la guerra mondiale.
E allora Pablo Picasso inventa un ritmo contratto, un movimento immobile, come quando i tori e i cavalli si fronteggiano nelle sue corride: come se il ruolo della pittura non fosse quello di rappresentare il movimento, di mettere la realtà in movimento, ma piuttosto quello di arrestarlo.
Corinne, da donna moderna, sa che, per essere se stessa, deve fermarsi almeno un attimo, quasi in punta di sedia, per leggermi fra una incombenza e l’altra, fra un obbligo e l’altro, fra i clamori e le urla che vengono dalla strada e dal mondo. E forse la lettura le permetterà di dialogare con se stessa, di parlarne alle amiche. Di confrontarsi con loro.
Ha detto una scrittrice tedesca che leggere è affinamento dei sensi, risveglio del piacere dell’osservazione, capacità di vedere il lato comico e tragico della situazione, di stupirsi: stupirsi incessantemente di se stessi e degli altri.
E allora voi capite, cari uomini, perché ho percorso la storia dell’arte in mano alle donne. Corinne non ha la grazia elegante ed altezzosa della Pompadour rappresentata da François Boucher con un libro in mano, né la grazia concentrata e quasi ascetica della fanciulla che legge di Gustav Adolph Hennig. Ma è una donna che crea un suo spazio per leggermi, per trovare in me qualcosa che la riguarda. Che mi legge per farsi leggere da me. E questa è una grazia che spesso, cari uomini, non vi tocca.