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1 Luglio 2013 | Racconti d'autore

Americrazy. On the road sulle tracce della vera America

Racconto di Seba Pezzani, tratto dal libro omonimo (Piacenza, GL Editore – Nuova Editrice Berti, 2013) – seconda puntata

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Fulvio Redeghieri

1 luglio 2013

Ottobre 2012: i “RAB4”, un’agguerrita rockband emiliana, viaggia su e giù per il Colorado, il New Mexico e il Texas, per presentare il suo ultimo CD, “Folk’n’Roll”. Lungo la strada, il cantante-chitarrista della band racconta i “suoi” Stati Uniti…
Traduttore e interprete dall’inglese, Seba Pezzani ha collaborato con autori del calibro di Jeffery Deaver, Ruth Rendell e Joe Lansdale (la figlia del quale, Kasey, cantante a sua volta, si è unita alla band durante la tournée).

Siamo a Marfa, Texas. L’unica altra cosa per cui si dice che valga la pena di andarci, a parte le suggestioni hollywoodiane, è rappresentata dalle “Marfa lights”, una sorta di aurora boreale nel deserto che, ahimè, pare sia alquanto difficile riuscire a vedere. Per cui, non andateci se quello è il vostro obiettivo, perché con grande probabilità non le vedrete affatto.
Una delle cose di questo grande paese che non smetteranno mai di colpirmi è come una località possa trarre linfa dalle piccolezze e riesca addirittura a farne tesoro praticamente in eterno. Marfa sarebbe un paese abbastanza anonimo – anche se l’architettura della sua main street risulta interessante, con qualche edificio in stile barocco spagnolo – se non vi fosse stato girato il film Il gigante. Lo spettro di James Dean, l’eroe maledetto di Hollywood, aleggia tuttora sul circondario. E dire che la cittadina di Marfa sorge ai margini di un enorme spazio semidesertico protetto dalle selvagge Davis Mountains.
Gli americani in questo sono maestri: colgono la minima opportunità per fare business. Forse è una lezione di cui anche noi italiani dovremmo fare tesoro. Ma Europa e America sono due galassie, non solo due mondi, a sé stanti.
Resta l’importanza dello “star system”, parte integrante del tessuto connettivo americano. James Grady, autore dello straordinario I sei giorni del Condor (ridotti a tre nel fortunato film diretto da Sydney Pollack e interpretato da Robert Redford e Faye Dunaway), alcuni anni fa sottolineò con forza l’importanza delle icone nell’immaginario americano. A suo dire, è stata proprio l’America a inventarsi il concetto stesso di star, quello di leggenda pop.

Ma è ora di tornare in macchina. Quando si gira in automobile negli Stati Uniti è buona norma non sottostimare le distanze: sulla carta, sembrano sempre inferiori alla realtà. A parte il fatto che un miglio misura più di un chilometro e mezzo e che ci sono limiti di velocità da rispettare rigorosamente – da queste parti la polizia non transige e non fa sconti a nessuno – comunque bisogna sempre calcolare qualche pausa per rifocillarsi, ricaricare le batterie, cambiare pilota, fare benzina e via discorrendo.
Oggi il viaggio ci sta mettendo a dura prova e penso proprio che arriveremo a destinazione giusto in tempo per il concerto che dobbiamo tenere a Terlingua, nel cuore del deserto del Chihuahua.

Incredibilmente, piove. Piove nel deserto. Non succede spesso. Anzi, pare che non succeda praticamente mai. Riusciamo persino a sconvolgere l’ordine naturale del clima locale, almeno questa è la sensazione che ci portiamo in cuore, anche perché è la prima cosa che ci verrà detta al nostro arrivo a Terlingua, nel parcheggio del locale in cui stasera terremo il nostro primo concerto texano: La Kiva. Ma, prima di giungere a destinazione, abbiamo ancora parecchie miglia da percorrere e così Kasey decide di ascoltare il nostro CD, Folk’n’Roll.
Ascoltare la propria musica è un po’ come leggere i propri scritti, una sorta di morboso autoerotismo. Non si fa e basta. Ma, siccome è stata lei a deciderlo, non mi oppongo ed è davvero una strana sensazione sentire le canzoni che io stesso ho scritto e che ho inciso insieme a questa grande band, i “RAB4”, su queste strade dritte, che sembrano non voler mai finire e di cui, in effetti, non si scorge la fine in questo sconfinato deserto di pietre. Già, strana sensazione, ma non posso nascondere anche un certo compiacimento. In fondo, anche le canzoni “so’ piezz’e core”.

Questo è il territorio cantato da Cormac McCarthy, che per diversi anni pare abbia abitato a El Paso, non lontano da qui. È un territorio sterminato, che toglie il respiro con la sua bellezza e desolazione inquietanti. È il West come ce lo siamo sempre immaginati: immenso, brullo, duro. E durissima deve essere stata la vita che i pionieri e i cowboy vi conducevano, perché di certo la vita qui resta dura, malgrado le comodità dell’era moderna.
A costo di ripetermi, è importante sottolineare che gli Stati Uniti sono, sì, la patria della tecnologia, ma restano pur sempre un paese virginale, un mondo che non conosce l’antichità, se non attraverso i marginalizzati nativi, e che di certo spesso mostra legami saldi con un passato più o meno recente. Una vita dura, dunque, che forse indurisce anche il cuore. Anche in questo si può rintracciare la faccia aggressiva che gli Stati Uniti mostrano al mondo.

La loro storia è anche e soprattutto la storia di coloro che hanno fatto il paese. E non mi riferisco ai grandi padri della patria – George Washington, Thomas Jefferson e Benjamin Franklin – né ai grandi martiri della lotta democratica – Abraham Lincoln, John Fitzgerald Kennedy e Martin Luther King, su tutti – bensì alle centinaia di migliaia, probabilmente milioni di coloni e immigrati che, con il loro sudore e spesso il loro sangue, hanno scritto la storia del paese.
La loro vita fatta di privazioni e fatiche rende più accettabile una certa ostilità degli americani, la loro predisposizione a difendere la bandiera a stelle e strisce a spada tratta e spesso senza troppe riflessioni, proprio come hanno sempre difeso il proprio appezzamento terriero, la propria casetta, il proprio bestiame e la propria famiglia dalle insidie della natura selvaggia, degli ostili indigeni, dei predoni. Fino alla morte.
Come sostiene Kasey stessa, americana fino al midollo ma anche forte di una cultura cosmopolita, la cosa bella del Texas (e, forse degli Stati Uniti più in generale, mi sento di aggiungere) è che ci sono ancora tante persone che hanno a cuore i valori positivi della tradizione e che li portano avanti con calore e passione.
Purtroppo, ci sono anche quelli che, invece, della tradizione prendono solo l’aspetto più conservatore e reazionario. Ma, ancora una volta, questa è l’America. Prendere o lasciare. Ed è anche per questo che generazioni di europei l’hanno amata e continuano ad amarla.
E di certo io l’amo.

Finalmente Terlingua. Finalmente La Kiva.
Già, finalmente, perché la strada percorsa è tanta e cominciamo a essere stanchi. Continua a piovere. Dapprima, si tratta di una pioggerellina, poco più che acqua nebulizzata dal terreno bruciato dal sole, ma poi scoppia un vero e proprio acquazzone, con tanto di tuoni e fulmini. Ci accoglie il padrone, Glenn Felts, un tizio alquanto eccentrico, per non dire strambo, però davvero un brav’uomo. Ha un cappello da cowboy, uno di quelli di paglia, ed è un cocktail di giovialità, stravaganza e praticità. Perché in Texas, e in generale negli Stati Uniti, la genialità non è mai disgiunta da un sano senso del business.

Ma cosa ci sarà mai di tanto unico in questo locale, definito da una guida uno dei dieci locali più originali degli USA? E dire che di locali in questa parte del mondo ce ne sono quasi quanti nel resto del pianeta.
Prima di tutto, La Kiva sorge letteralmente nel nulla, in una spianata, nel bel mezzo di una pietraia, dove immaginiamo immediatamente, non senza una certa inquietudine, che si possano annidare serpenti a sonagli, tarantole pelose e scorpioni. Quando chiedo a Glenn se, una volta calate le tenebre, ci sia il rischio di imbattersi in un crotalo davanti al suo locale, mi rivolge un sorrisino che non so bene se sia più canzonatorio o bonario e dice: “Non preoccuparti: i serpenti a sonagli annunciano in maniera inequivocabile la loro presenza”. Molto rassicurante.

Dicevamo che si tratta di un posto singolare. La seconda ragione per cui lo è sta nel fatto che, a parte l’insegna traballante in legno che campeggia sopra l’ingresso, nulla lascia pensare che questo ammasso informe di tronchi e massi sia un locale. Semmai, la sensazione – corroborata dalla confusione del parcheggio antistante – è quella di essere nel bel mezzo di una discarica a cielo aperto. Forse è proprio così che l’ha concepita nei primi anni Ottanta Gilbert Felts, l’eccentrico zio di Glenn, alla cui morte proprio Glenn ha preso in mano le redini dell’azienda.
Si dice che in una delle stanze del sottosuolo, una sorta di tavernetta, gli indiani pueblo tenessero i loro rituali magici. Chissà se è vero, ma poco importa. Non avrà forse l’aria eccessivamente mistica, ma questo posto ha personalità da vendere.
Gli arredi sono tutti stati creati a mano da Glenn e dallo zio e si vede, a partire dal bagno degli uomini, con un maleodorante paiolo di rame come pisciatoio, in cui quasi tutti gli avventori vanno ad alleggerirsi. È un must del posto, alla faccia dell’intimità.

Lo stile è l’assenza di stile. La luce è bassa, come si conviene a un localaccio. Insomma, La Kiva sarebbe tranquillamente potuta figurare in un film di Sergio Leone. Anche Glenn una particina se la sarebbe ritagliata senza grossi problemi in uno spaghetti western di serie B.
Quando sgraniamo gli occhi di fronte a un’insegna in ottone che sfoggia la semplice scritta “Viva La Kiva” davanti al bancone del bar, Glenn ci informa, compiaciuto: “L’ho realizzata con 165 pallottole di fucile”. In effetti, le lettere traforate non lasciano dubbi.
D’altra parte, in questo angolo di mondo non è proprio il caso di cercare rogne perché non la gente non fa mistero di una passione per le armi da fuoco che è ancor più intensa e insana che altrove. Considerato l’isolamento del posto e la forza dell’ambiente naturale, non mi sento di darle torto.

Peccato che il bizzarro temporale ci impedisca di suonare sotto le stelle. Sarebbe stata una serata ancor più indimenticabile. Ci dobbiamo accontentare dell’allestimento alternativo, in un angolo del locale che davvero sembra una grotta, e in parte lo è.
Sul muro campeggia quello che ha tutta l’aria di essere lo scheletro di un grande animale preistorico, forse l’antenato di un puma. Se non ci fosse la strana ed eloquente targa che ne porta il nome, “Penisaurus Erectus”, non avremmo colto del tutto la stravaganza del creatore di questo posto, che a un certo punto si deve essere messo a raccogliere costine e braciole e a realizzare questa inusuale opera d’arte.

Brano corrente

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