Se n’è andato Nando Orfei, il “padre” – se così si può dire – del circo italiano. Aveva ottant’anni ed era malato da tempo. Era un emiliano, nato a Portomaggiore in provincia di Ferrara, e insieme con un famoso romagnolo, Federico Fellini, ha fatto del circo uno spettacolo da “Mille e una notte”, lo spettacolo più bello del mondo.
Nando Orfei apparteneva alla celebre famiglia di circensi e saltimbanchi documentata già da prima del 1820 ed erede della grande commedia dell’arte italiana. E’ stato domatore, giocoliere, clown e attore per il suo grande amico Federico Fellini, che lo diresse ne I Clowns e in Amarcord. Ne I Clowns, del 1971, interpretava se stesso, mentre Anita Ekberg, l’attrice della Dolce vita, si faceva incantare dalle tigri. In Amarcord, del 1973, Nando Orfei interpretava la parte dello zio del protagonista Titta, il tipico “patacca” romagnolo che pensa solo alle donne e non ha mai lavorato un giorno in vita sua. Fellini, che aveva l’animo dell’eterno fanciullo, gli aveva insegnato che il circo era magia, non solo per i bambini; era quel mondo di fiaba che Wanda Osiris creava nei suoi spettacoli spumeggianti e che Nando Orfei cercava di riprodurre sulla pista e sotto il tendone del suo circo.
Quello degli artisti circensi è un mondo a parte, figlio delle compagnie girovaghe che su e giù per l’Italia, tra la polvere e la fame, facevano divertire il popolo nelle piazze. Dicono che la dinastia degli Orfei sia iniziata intorno al 1820 con Paolo, un sacerdote dalla vocazione traballante – naturalmente romagnolo, di Massalombarda – che a un certo punto mollò tutto, si spretò e si mise a fare il saltimbanco, presto imitato dal figlio Ferdinando. Quest’ultimo era un grande suonatore di tromba e un acrobata del trampolino. Conobbe Giuseppe Verdi a Busseto, davanti al quale suonò la tromba.
Nando Orfei proveniva da quel mondo di acrobati e pagliacci. Lo spettacolo era la sua vita. Lo erano gli animali con cui lavorava e che poi, cambiati i tempi e investiti di diritti, non poté più utilizzare. Prima la televisione, e poi altre forme di divertimento, hanno svuotato i circhi. Nando Orfei aveva – anche lui – dovuto reinventarsi, creare un circo più piccolo senza più elefanti, leoni e tigri e da domare: qualcosa di simile al Cirque du Soleil, oscillante tra avanguardia e un gusto rétro di sapore felliniano.
L’idea che il circo fosse considerato un residuo del passato, polveroso e stantio, gli era insopportabile. Alla fine di ogni spettacolo, anche se i posti erano solo in parte occupati, veniva a salutare il pubblico con l’immancabile giacca bordeaux. Lui era sempre lì, sotto il tendone, sopra la pista, con il ricordo delle sue ferite nella gabbia dei felini, tra gli acrobati, i pagliacci, le trapeziste, le cantanti, la musica e le luci di uno spettacolo che non finirà mai.