C’è stata un’epoca della nostra storia in cui alle donne e agli uomini che volevano vivere e pensare liberamente toccava pagare un prezzo altissimo. A volte il prezzo era la vita stessa. La vicenda che vi raccontiamo oggi, care amiche e cari amici di RadioEmiliaRomagna, ci porta nella Bologna del 1300, dove già da qualche decennio, nel convento di San Domenico, era attivo un tribunale dell’Inquisizione. Indagava su chiunque manifestasse opinioni o comportamenti non approvati dalla Chiesa e quindi giudicati “eretici”, ossia frutto di scelte sbagliate rispetto all’unico credo ammesso.
Tra gli eretici ritenuti più pericolosi, all’inizio del Trecento, c’è Dolcino da Novara. È a capo di un movimento di religiosi che si definiscono “apostolici” e si ispirano agli insegnamenti di un’altro predicatore, il parmigiano Gherardo Segalelli. Gli apostolici credono che la Chiesa del loro tempo, corrotta e tirannica, debba tornare alla povertà delle origini, ai tempi di Cristo e dei suoi apostoli, da cui il nome.
Uno dei loro seguaci bolognesi, Zaccaria Baldi da Sant’Agata, interrogato dall’Inquisitore, spiega come vivono quelli che aderiscono al movimento: pregano, meditano sulle vite dei santi, danno tutti i loro averi ai poveri e non possiedono nulla, preferiscono chiedere l’elemosina quando occorre. Sentono di essere pienamente fedeli ai principi cristiani, ritengono piuttosto che sia la Chiesa di Roma a non essere più in linea con le parole di Gesù: solo un nuovo profeta, come Dolcino, possono riportarla allo stato di perfezione primitiva.
E, a proposito di perfezione, quando l’Inquisitore chiede a Zaccaria se, a suo giudizio, un uomo e una donna che non sono sposati possano “toccarsi senza peccare”, la sua risposta lo lascia stupito. “Dipende dall’intenzione”, dice lui: chi è perfetto non può peccare. Sono parole che evocano le tesi di un altro movimento religioso, quello del Libero Spirito: è la convinzione che chi sia stato illuminato dalla luce divina, e quindi “rinnovato”, possa compiere qualunque azione senza incorrere nel peccato.
Giudicato eretico, il 16 dicembre 1303 Zaccaria da Sant’Agata viene arso vivo. Ma le sue parole devono avere avuto qualche seguito. Tra quelli che lo ritengono un martire degno del Paradiso c’è anche una donna, Bartolomea Rossi da Savigno, detta Bona. Vive da sola in un eremo isolato, fuori dalle mura di Bologna. Due anni dopo, nell’estate del 1305, tocca a lei presentarsi davanti all’Inquisitore, frate Guidone da Parma.
Come succedeva in questi casi, a suo carico vengono presentate le deposizioni di altre persone. Sono altre due donne che, dopo essere state ospitate nel suo eremo, la denunciano come “apostolica” e seguace di Dolcino. Bartolomea ammette ogni cosa e frate Guidone le concede qualche giorno per preparare la sua difesa.
Quando, alla seconda udienza, rinuncia a difendersi e promette di ravvedersi, il giudice dimostra la sua clemenza imponendole “solo” una serie di penitenze, tra cui la famigerata “crocesignatura”: dovrà portare, impresse sull’abito, due croci di stoffa gialla, una sul petto, una sulla scapola. In modo che ognuno sappia la sua condizione di sospetta eretica.
Bartolomea riprende la sua vita di ogni giorno, di cui conosciamo ben poco. Si può solo supporre il dolore che dovette provare due anni più tardi, nella primavera del 1307, quando venne a sapere del massacro compiuto sui dolciniani dal vescovo di Vercelli, con la fine orrenda di Dolcino, mutilato e arso vivo davanti a una folla inferocita. Chissà se si accorse del pericolo che, a questo punto, incombeva anche su di lei.
Qualche settimana dopo, una nuova testimone, una certa suor Lazzarina, piena di zelo, riferisce all’Inquisitore di Modena che Bona, ora abitante a Samoggia, persevera nella sua fedeltà agli apostolici, nonostante sia “crocesegnata”. Per la Chiesa è tempo di chiudere i conti con tutti i dolciniani rimasti in circolazione. Anche con lei. Ai primi di novembre l’Inquisizione di Bologna la riconvoca e l’accusa di essere recidiva.
Questa volta Bartolomea non finge di ravvedersi ma urla al mondo la sua sfida. “Sì” − dice ai suoi giudici – “ho trasgredito e non me ne pento e, se mai avevo pensato di ravvedermi, ho rigettato questa cattiva intenzione come fa il cane che rigurgita un boccone avvelenato”. Viva Dolcino – grida − e viva il suo insegnamento di povertà. Abbasso il dogma della verginità: Dio ci vuole liberi, uomini e donne.
Affidata al “braccio secolare” del podestà, Bartolomea Rossi da Savigno, condannata come spergiura e scomunicata, viene bruciata viva il 21 novembre 1307 a Bologna, forse nella piazza del Mercato, l’attuale “Piazzola”, allora destinata a questi orrendi spettacoli. “Combusta fuit ita quod mortua est”, registrano i documenti. I suoi beni vengono confiscati, la sua casa è destinata a essere distrutta. Come la sua memoria, di cui oggi, in effetti, resta pochissimo. Anche se qui, e dovunque le donne rischiano ancora la vita per la libertà, quel fuoco continua a essere in fiamme.
Per approfondire: Gino Evangelisti, Ai tempi di Dante. Un’eretica al rogo: Bona (Bartolomea) Rossi da Savigno, “Strenna storica bolognese”, XLIV, 1994, pp. 196-211.