4 ottobre 2012
E’ questa la prima opera “saggistica” di un grande artista, un pittore a cui i maggiori critici del Novecento hanno dedicato elogi incondizionati. Da Federico Zeri a Eugenio Riccòmini, Vittorio Sgarbi e Philippe Daverio, tutti hanno decretato Wolfango un maestro di valore assoluto. In questo breve scritto, sotto forma di dialogo tra un pittore e un filosofo, Wolfango attraversa la storia dell’arte dall’antica Grecia ai giorni nostri, evidenziandone gli aspetti filosofici ma anche le relazioni con la letteratura, con grande profondità di ragionamento e lucidità di analisi.
Wolfango (Peretti Poggi) è nato nel 1926 a Bologna, dove abita. Disegna e dipinge da sempre, avendo affrontato varie fasi di ricerca: una pittura “passatista”, tra Otto e Novecento; una fase sperimentale ispirata ai classici del Quattrocento e poi all’arte morandiana; poi un periodo di opere a tecnica mista e arte informale. Ma è solo nel 1968 che dipinge il primo quadro diverso, “nuovo” come ama definirlo lui stesso, da cui ha preso inizio la sua attività pittorica vera e propria. E i suoi lavori sono stati tenuti segreti, quasi nascosti, fino all’anno 1986 allorché fu convinto dallo storico dell’arte Eugenio Riccòmini a esporli in pubblico in una mostra bolognese di grande successo: fu il recupero del ruolo sociale, al quale il pittore aveva rinunciato per un’opposizione radicale al sistema vigente dell’arte.
F Tuttavia procedendo e ritornando sui nostri passi – scusa – come si spiega in quelle vite da artisti che abbiamo citato poco prima, invece l’alta considerazione tout court e la fortuna, anche economica, di cui hanno goduto i divinissimi Raffaello, Leonardo, Michelangelo?
P Se vuoi, ti aggiungo anche qualche altro nome di ugual esito, come Giotto, Ghiberti, Tiziano, Bernini, Velázquez, Rubens, Reynolds. Aggiungi una forte volontà di scalare i gradini della piramide sociale. Mi limito a concludere che si è trattato di stupende eccezioni che, come tali, confermano la regola; quella che a me pare sia tale. Debbo tuttavia aggiungere un fatto curioso e significativo: perché, per esempio, Velázquez, consideratissimo – siamo in alto loco (la corte di Felipe IV) – si ritrae, nello stupendo quadro Las meniñas, sfoggiando un abito decorato con la croce rossa dell’ordine di San Giacomo, simbolo di riconoscimento nobiliare? Sappiamo che ci teneva molto. Perché Tiziano è nominato Conte Palatino e Cavaliere dello Speron d’oro? Perché l’anarchico Caravaggio si gratifica per la nomina a Cavaliere di Malta? (Per breve durata tuttavia). Perché Michelangelo si preoccupa – ad onta del suo superego – insistentemente di precisare l’importanza della mente, quasi a detrimento delle mani? Lui centimane? “Si dipigne col ciervello et non colle mani”. A tutti costoro non bastava la consapevolezza del loro valore? Evidentemente il rimosso faceva il suo corso. E titoli e onori sono stati sempre simboli di rango sociale.
F L’aspirazione allo status symbol può derivare anche dal bisogno
di riscattarsi da umili natali?
P Anche ciò è vero. Gli esempi sono infiniti; quanti macellai
sono padri di artisti famosi come Filippo Lippi, Brunelleschi,
i Carracci… e barbieri: Paolo Uccello, e contadini: Andrea del
Castagno, e conciatori: Botticelli, e sarti: Andrea del Sarto e
pollivendoli: Pollaiolo… eccetera. Quelli delle arti meccaniche
o manuali che praticavano il mestiere della pittura si adattarono
in tutta l’Europa, fin dal Medioevo, a essere ghettizzati
in strutture gerarchiche, dette in Italia corporazioni, insieme
ai più svariati artisti (in tal caso l’accezione di arte va intesa
nel senso di saper fare bene una certa cosa; così abbiamo,
in quel caotico insieme, intagliatori, doratori, cartai, vetrai,
ciabattini, sarti, fabbri ferrai, tagliapietre, muratori, operai e
finalmente artigiani, cioè pittori e scultori).
F In Grecia, il lavoro manuale era compito degli schiavi; forzalavoro,
manodopera abbondantissima, che non costava nulla.
Un gradino più su, c’erano i lavoratori che si facevano pagare
per i loro prodotti. Plutarco però raccomandava ai giovani di
non intraprendere alcun mestiere. Petronio addirittura definisce
Apelle e Fidia “quegli sciocchi greculi”!
P So, so! Un bello stronzo d’arbiter! E sciagurato quel padre di
Michelangelo, che lo picchia, perché con tutta la famiglia si
vergogna che un suo figlio voglia intraprendere la carriera dell’artista
(!). Solo l’intervento di Lorenzo il Magnifico fece recedere
il signor notaio!
F Tornando alle corporazioni, esse divennero necessarie sia in
tutta Italia già alla fine del Duecento, sia nel Nord Europa,
dove venivano chiamate gilde. Erano veri e propri sindacati
che si trasformavano anche in monopoli.
P Sì! Chi dirigeva tali istituzioni esercitava una stretta vigilanza
sugli iscritti: guai a chi bestemmiava o faceva turpiloquio o
non andava a messa; nei giorni festivi non si poteva dipingere
o scolpire. Al tempo stesso controllava l’educazione degli ap-
prendisti; i contratti e i rapporti con i committenti. Svolgeva
attività giurisdizionali. Protetti, ma condizionati, non liberi.
Le corporazioni durarono a lungo, ma alcuni artisti di maggiore
importanza, più sensibili alla loro dignità e soprattutto
alla loro libertà, si ribellarono. È il caso di Brunelleschi che si
rifiuta di pagare i tributi, mentre è impegnato a costruire la
cupola famosa. Viene gettato addirittura in galera! Ma ci resta
poco, e così, padrone di se stesso, afferma il diritto di agire
come meglio crede. Tale prova di forza si ripeté spesso e si
protrasse per secoli. Nei primi del Seicento è la volta di Rubens.
A Roma ci si libera delle interferenze delle corporazioni
soltanto a metà del Settecento. In Francia, l’Accademia Reale
pose fine a quel potere a favore dei valets de chambre: così erano
nominati i pittori che lavoravano a corte. Questi casi di liberazione
porteranno pian piano l’artigiano (pittore e scultore)
all’ammissione nelle arti liberali, così da lavoratore manuale
egli sarà promosso a lavoratore intellettuale (bontà di lor signori!),
anche perché nel contempo costui si sarà dato da fare
per indottrinarsi in belle lettere.
F Mi pare però che ci fosse un modo per sottrarsi all’obbligo di
iscriversi alle corporazioni: infatti entrare al servizio di un
qualche signore comportava l’esonero dalle medesime, e al
tempo stesso l’artista diventava parte integrante della famiglia
signorile: era già una buona promozione sociale. La situazione
permane fino al Settecento. In Italia c’erano piccole corti a
bizzeffe. E così in Austria, Germania, Francia, Inghilterra,
Spagna…
P Non in Olanda: lì ci sono le gilde. Il Seicento olandese, borghese
e protestante produce quadri di argomento laico in gran
quantità. Tutti dipingono (anche bene), tutti collezionano quadri
perché sono alla portata di tutti. Tutti arredano le loro deliziose
e ordinate case con quadri da camera, non di grandi misure;
anche le locande e le osterie; tutti espongono nei mercati
e nelle fiere: è il trionfo della pittura. Tutti barattano quadri (la
vedova di Vermeer paga i debiti al fornaio con quadri del marito!
I contadini, a causa della scarsità di terra, investono capitali
nei quadri. E il quadro diventa merce; gli artisti diventano
mercanti a loro volta (Rembrandt lo è, e anche Vermeer, tra i
grandi). Subentra però l’inflazione. Molti pittori, per campare
fanno un doppio lavoro: chi coltiva tulipani; chi acquista e dirige
una locanda, una birreria; chi fa il barbiere, chi il fornaio,
chi il cerusico. Le gilde erano preoccupate per la situazione e
la gente stimava sempre meno chi esercitava la pittura. Un’altra
via di fuga era la bottega, che sopravvisse per molti secoli:
il capo-bottega, o maestro, che dirigeva quel luogo si serviva
dell’aiuto di garzoni, apprendisti e lavoranti. Ghiberti ne aveva
una ventina; idem Donatello a Padova. Uno scultore come
Bernini aveva bisogno di decine e decine di artigiani collaboratori.
Tuttavia c’erano anche sovvenzioni e fondi pubblici a favore
degli artisti: ne beneficeranno Giovanni Bellini, ad esempio,
Sebastiano del Piombo, Dürer. Una delle prime botteghe
a Bologna è quella diretta da Vitale da Bologna, a metà del Trecento.
C’era un altro modo per tagliare la corda dalle corporazioni.
Si tratta dei maestri – solo pochi – cosiddetti itineranti,
artisti che godendo di una vasta notorietà erano chiamati a lavorare
all’estero. Uno di questi è il leggendario architetto Willard
de Honnecourt, che lavorò in Francia, in Svizzera e Ungheria,
nella prima metà del XIII secolo…
F È noto anche a me il suo bel libro di schizzi.
P Procede intanto l’evoluzione sociale dell’artista tramite nuove
istituzioni calate nel pieno della vita culturale. Si tratta delle Accademie
ben distinte dall’artigianato e contrapposte alle corporazioni.
Non più il garzone, non più l’apprendista, ma il discepolo.
Vengono promossi studi letterari, filosofici, scientifici.
F Nomina sunt consequentia rerum.
P Seguito non più da un maestro, ma da una serie di professori,
il discepolo apprende e studia, non solo le tradizionali materie
di base, quali disegno e pittura, copiando i maestri antichi, ma
anche lo studio dal cosiddetto vero; dal nudo, dell’anatomia insomma
(già ampiamente collaudata in privato con dissezione
sui cadaveri). Si aggiunga la prospettiva, lo studio della geometria.
E gli studi si amplificano con le materie umanistiche. Non
per niente alla base di tali iniziative c’è un Marsilio Ficino.
F È vero! Un neoplatonico che formò con amici e scolari la famosa
Accademia Platonica, un cenacolo che aveva sede nella
villa di Careggi, donata dai Medici. La prima Accademia. Siamo
nella seconda metà del Quattrocento.
P Seguirà dopo pochi anni l’Accademia di Bologna detta degli
Incamminati per opera dei tre Carracci, teorico l’intellettuale
Agostino. Si tireranno dietro Guido Reni, Domenichino e
l’Albani. Alla fine del Cinquecento si annovera anche Federico
Zuccari. Poi vengono Venezia, Napoli… A Roma, l’Accademia
di San Luca diventa il prototipo delle fondazioni europee,
collegata con quella di Francia che premierà col Prix de
Rome molti giovani artisti che risiederanno nella città eterna
dove daranno ottima prova di sé. Uno degli ultimi direttori di
questa istituzione è stato Balthus. Insomma in tutta Europa si
diffonderà questo fermento di rinnovamento delle arti per
l’intervento di re (Luigi XIV), cardinali (Richelieu) e ministri
(Colbert). Ci si mettono anche i papi con brevi e bolle a regolare
la formazione degli artisti. Le Fiandre e l’Olanda si adeguano;
ad Anversa, David Teniers il giovane fa scuola. Non ti
sto a raccontare la lunga storia delle accademie. Salto al 1922.
A Buffalo, negli Stati Uniti, si istituiscela Fine ArtsAcademy.
Le accademie permangono ancora oggi. Da accademia, “accademismo”
è parola che ha assunto significato negativo di un
fare accademico, cioè convenzionale, conformistico e legato a
rigide regole prive di creatività. Si configura come l’ultimo impedimento
a raggiungere e conquistare l’autonomia e la libertà
dell’artista, nell’interpretazione degli intellettuali. Da qui
l’opposizione e la ribellione che caratterizza tutti i movimenti
della modernità.